La storia incredibile di due viaggi, uno letterale e uno immaginario, attraverso la Russia contemporanea e la letteratura sovietica.
Il 26 ottobre 1932 Stalin si presenta a una riunione di scrittori a casa di Maksim Gor’kij. «I nostri carri armati non valgono niente», dice, «se le anime che devono guidarli sono di argilla.» Spetta agli scrittori, «ingegneri di anime», forgiare l’uomo nuovo sovietico. Nasce così l’estetica proletaria della costruzione e della produzione, utile per celebrare quelle colossali opere idraulico-ingegneristiche dei primi piani quinquennali che, grazie al lavoro forzato dei Gulag, stanno domando la «nemica» natura del territorio sovietico: deviazioni di alvei fluviali, migliaia di chilometri di canali, impianti di desalinizzazione dell’acqua di mare. Dalla lettura di un libro di Konstantin Paustovskij del 1932 sulla «eliminazione dei deserti» prende le mosse il viaggio narrato in Ingegneri di anime, che porta Frank Westerman, giornalista d’inchiesta con studi di ingegneria agraria alle spalle, dalle rovine industriali del golfo di Kara-Bogaz fino al canale Belomor, il progetto che il collettivo di scrittori guidato da Gor’kij fu chiamato a cantare come «storiografia istantanea del socialismo». Un viaggio concreto, quello di Westerman, che si intreccia con l’esplorazione della vita e delle opere di chi, tra dubbi, debolezze e scetticismo, dedicò penna e capacità espressive al rafforzamento dell’URSS postrivoluzionaria. Concentrandosi non sui grandi dissidenti ma sui «più o meno accomodanti», come lo stesso Paustovskij, o il tormentato Platonov, o il grande Pil’njak morto in un Gulag dopo alterne vicende, Westerman ricostruisce con accenti personali il rapporto tra potere e artisti, e il loro sofferto sforzo di trovare uno spazio possibile tra diktat e ispirazione.
(dal risvolto di copertina di: Frank Westerman, "Ingegneri di anime". Iperborea)
Un giorno Stalin ordinò di irrigare il deserto e di dare il via alla produzione di anime
- di Cesare Martinetti -
All’Esposizione universale di New York del 1939, i sovietici si presentavano come i campioni dell’ingegneria idraulica. Tema della rassegna era «costruire il mondo del domani» e non ce ne poteva essere uno più congeniale al paese che avanzava orgoglioso dietro la ferma guida di Stalin. Nel parco delle esposizioni di Flushing Meadows la gigantesca statua di un operaio con una stella rossa tra le mani fronteggiava non solo simbolicamente l’obelisco prismatico degli americani, chiamato Trylon, e il bossolo metallico contenente la città modello «Democra-City». Nel padiglione dell'Urss, il modellino dell'impressionante diga ad arco sul Dnepr sfidava idealmente quella di Hoover sul Colorado. Meno alta ma più larga e ingegnosa della sua «rivale» americana: la centrale idroelettrica di Dnieper con la sua capacità di 558 mila chilowatt era in grado di produrre più corrente elettrica di quanta non ce ne fosse mai stata nell'intero impero dello zar.
Il piano lanciato da Lenin nel 1921 «comunismo uguale potere dei soviet più elettrificazione del paese» si stava realizzando. Ma Gleb Kržižanovskij, capo del «Goerlo», il comitato statale per l'elettricità, e bolscevico della prima ora, aveva un progetto ancora più ambizioso e temerario: rovesciare il corso dei fiumi della Russia artica per deviare le acque al bacino del Volga e al Mar Caspio, dalle inospitali terre del nord alle aride steppe del sud.
Era l'estensione del dominio dell'homo sovieticus sulla natura, fino quasi alla modifica della curvatura della crosta terrestre. Una sfida tecnica che però richiedeva al tempo stesso un lavoro pedagogico sulle masse. Ingegneri idraulici assecondati da ingegneri di anime. Per dirla con Gramsci, all'egemonia della prassi si doveva accompagnare un'egemonia della cultura.
Il giornalista olandese Frank Westerman, singolarissima figura di ingegnere esperto di agricoltura tropicale diventato reporter, ha compiuto una ricognizione attraverso i luoghi e la storia di questo titanico e fallito tentativo che porta il timbro di Stalin e il sigillo della profezia di Marx: «Più sono colossali i progetti idraulici intrapresi da un potere statale, più sono dispotici i suoi governanti». Il saggio-inchiesta di Westerman scritto all'inizio degli anni 2000 viene ora pubblicato in Italia da Ipeborea [Nota: era già stato tradotto e pubblicato da Feltrinelli nel 2006] con la traduzione di Franco Paris. Si intitola opportunamente Ingegneri di anime e racconta in parallelo due epopee: l'eliminazione dei deserti e l'edificazione delle anime.
Come capo progettista di questa seconda operazione Stalin in persona aveva scelto un artista controverso ma popolarissimo, Maksim Gor'kij, da anni auto-esiliatosi in Italia, a Sorrento, ma noto e rispettato nel mondo per il carcere patito sotto gli zar e per il critico distacco dal regime bolscevico e dallo stesso Lenin definito senza indulgenza «una ghigliottina pensante».
Stalin aveva deciso che Gor'kij era il più adatto a diventare il cane da guardia della letteratura sovietica. Il vecchio scrittore si lasciò vincere dalla nostalgia e dai cospicui anticipi in denaro su libri ancora da pubblicare. E tornato a Mosca, venne invitato a compiere un viaggio nel Campo di rieducazione per intellettuali e oppositori politici delle isole Soloveckie, sul Mar Bianco. Il suo racconto doveva servire a smentire dentro e fuori l'Urss l'esistenza dei gulag. Ma quel che gli venne mostrato era una sorta di Villaggio Potëmkin, non la realtà della feroce repressione instaurata dal capo della Čeka Feliks Dzeržinskij. Lusingato e ammaliato dalla finzione Gor'kij (che sarà per questo deriso da Solženicyn) fu così arruolato per il ruolo di guida degli intellettuali chiamati a trasformarsi in ingegneri di anime per sostenere il regime. La sera del 26 ottobre 1932 il vecchio scrittore chiamò quaranta colleghi nella sua villetta art nouveau sul bul'var dei fiori, nel centro di Mosca (dove tuttora c'è il museo). Ospite a sorpresa Stalin in persona che ebbe così modo di impartire una direttiva senza repliche: «La produzione delle anime è più importante di quella dei carri armati... ».
Tutti al lavoro dunque per costruire la retorica dell'uomo sovietico che inverte il senso delle acque ed edifica il comunismo. Non tutti riuscirono nell'impresa, anzi undici finirono macinati nella ruota del grande terrore. L'utopia staliniana di irrigare il deserto turkmeno per farne una nuova Mesopotamia si rivelò un fallimento. E non perché fosse un'operazione impossibile, ma per un singolare fenomeno di eterogenesi dei fini: l'alluvione di retorica prodotto dai «liriki» (i poeti) finì per travolgere gli stessi «fisiki» (i tecnici) spinti a prestazioni sempre più grandiose, con dighe e pompe più monumentali delle piramidi egizie e come queste destinate ad essere seppellite dalla sabbia del deserto e della Storia. Il 14 agosto 1986 Mikail Gorbaciov, da poco arrivato al Cremlino, decretò l'abbandono definitivo del progetto, rilevando anche una tangentopoli mafiosa intorno alla raccolta del cotone guidata dal figlio di Breznev, il più longevo dei successori di Stalin.
- Cesare Martinetti - Pubblicato su Tuttolibri del 7 marzo 2020 -
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