Dalle suffragette ju-jitsu alle pratiche di insurrezione del ghetto di Varsavia e le Black Panther, passando per le brigate queer e i movimenti di resistenza contemporanei, Elsa Dorlin, filosofa a mani nude, traccia in quest’opera una storia costellare dell’autodifesa.
Nel 1685, il Codice Nero proibiva “agli schiavi di trasportare qualsiasi arma offensiva o grossi bastoni” pena la frusta. Nel diciannovesimo secolo, in Algeria, lo stato coloniale proibiva le armi agli indigeni, dando ai coloni il diritto di armarsi. Ancora oggi, nonostante gli insegnamenti della storia, alcune vite contano così poco che si può sparare alle spalle di un adolescente sostenendo che fosse aggressivo, armato e minaccioso. Una linea di demarcazione storica oppone i corpi “degni di essere difesi” da coloro che, disarmati o resi indifendibili, rimangono esposti alla violenza del potere dominante. Questo “disarmo” organizzato dei subordinati e degli oppressi a beneficio di una minoranza con il diritto permanente di possesso e uso impunito delle armi, pone direttamente la questione dell’uso della violenza per la difesa di ogni movimento di liberazione. Dalle suffragette ju-jitsu alle pratiche di insurrezione del ghetto di Varsavia e le Black Panther, passando per le brigate queer e i movimenti di resistenza contemporanei, Elsa Dorlin, filosofa a mani nude, traccia in quest’opera una storia costellare dell’autodifesa. Itinerario che non attinge agli esempi più esplicativi ma ricerca una memoria delle lotte nella quale i corpi dei dominati costituiscono l’archivio principale, lavorando a una vera e propria genealogia marziale del sé.
(dal risvolto di copertina di: Difendersi, di Elsa Dorlin. Fandango)
Il libro di Elsa Dorlin propone una riflessione su dei movimenti storici. Sviluppa delle connessioni fra lotte differenti al fine di tentare di collegarle per mezzo del concetto di autodifesa. Dall'altro lato, i passaggi più filosofici del libro rimangono astrusi. Le dissertazioni su Hobbes e Locke, oltre ad essere di difficile fruizione, non aggiungono granché al pensiero critico.
Elsa Dorlin si inscrive nella tradizione del femminismo intersezionale, da cui trae il meglio. Anche se questa corrente politica finisce per restare impigliata nella chiacchera filosofica o nell'obitorio sociologico, il suo approccio storico si rivela tuttavia stimolante. Elsa Dorlin si concentra sui movimenti reali e sulla loro esperienza di lotta. Riuscendo così a mostrare i punti di forza e le debolezze di ciascuna rivolta. Il suo femminismo intersezionale non consiste nel posare gli occhi su alcune oppressioni secondo una demagogia politica ben incarnata da Houri Bouteldja [Parti des Indigènes de la République (PIR)].
Al contrario, Elsa Dorlin cerca di prendere in considerazione tutte le forme di oppressione. Indica il razzismo che esiste presso alcune femministe. Sottolinea anche il machismo e la logica patriarcale che esiste nei movimenti afro-americani. Elsa Dorlin condivide le sue esperienze di autodifesa contro alcune specifiche oppressione. Ma tende a mostrare il loro orientamento a mettere sotto accusa tutte le oppressioni. L'autodifesa può quindi passare all'offensiva rivoluzionaria.
Elsa Dorlin sviluppa allo stesso tempo una certa concezione della lotta. Il suo libro permette di uscire dalla posizione della semplice vittimizzazione, oggi assai presente. Le campagne contro la violenza alle donne sono un buon esempio di questa posizione passiva della quale gli oppressi rimangono prigionieri. L'autodifesa permette alle vittime di organizzarsi per reagire e lottare. Alzare la testa ed affermare il proprio rifiuto.
Tuttavia, nonostante abbia tutte queste qualità, il libro di Elsa Dorlin riflette anche una certa sinistra postmoderna, con Foucault e Butler sullo sfondo. Questa corrente ideologica valorizza le micro-resistenze, piuttosto che i grandi movimenti di rivolta. L'intersezionialità consiste allora nell'aggiungere i collettivi che lottano contro delle oppressioni ben precise. Come la convergenza delle lotte, questa corrente vuole raccogliere i diversi settori isolati, continuando a mantenere le separazioni e le divisioni.
Al contrario, appare indispensabile affermare la necessità di un movimento di rottura con lo Stato, il capitalismo ed il patriarcato. Ciascuna lotta locale deve orientarsi verso una prospettiva globale. D'altra parte, dei movimenti di autodifesa possano isolarsi in una strategia identitaria o settoriale, senza prospettive trasversali. La valorizzazione di una cultura minoritaria rimane una posizione difensiva legittima. Ma essa deve anche sfociare in una prospettiva di trasformazione sociale. Le lotte femministe o antirazziste possono inscriversi in una prospettiva di rottura con il capitalismo. Questi movimenti sociali rendono quindi possibile diffondere delle pratiche di lotta che possono estendersi e generalizzarsi.
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