giovedì 12 marzo 2020

politeía

La condizione umana è soggetta a continui mutamenti, spesso tragici, e l'unica possibilità inventiva consiste nella capacità di provare stupore, nel porre domande in un atto di solidarietà tra esseri umani. In questo saggio, accompagnato da un'intervista concessa dall'autrice alla televisione tedesca nel 1964, Hannah Arendt affronta i temi più vicini alla sua indagine filosofica: dal totalitarismo alle trasformazioni che hanno sconvolto gli assetti mondiali nel corso dell'età contemporanea, dalla questione dell'esilio e dell'identità di un popolo fino a giungere alla lingua tedesca, vera e propria patria del linguaggio con la quale Arendt intrattiene un legame inestirpabile.

(dal risvolto di copertina di: Hanna Arendt, "La lingua materna. La condizione umana e il pensiero plurale" - a cura di Alessandro Dal Lago, Mimesis, Milano, pagg. 112, € 10.)

Il coraggio di parlare nella lingua materna
- Hanna Arendt. Emigrò in un Paese anglofono ma non dimenticò il tedesco -
di Anna Li Vigni

Essere donna. Essere intellettuale. Essere ebrea. Essere Hanna Arendt. La sua voce risuona densa di suggestioni critiche – a tratti profetiche - per noi europei del XXI secolo, che non abbiamo visto lo scempio dei totalitarismi, che non conosciamo il trauma dell’Olocausto, ma stiamo ancora imparando a riconoscere e ad affrontare le emergenze del presente globalizzato. Per questo dovremmo leggere la trascrizione dell’intervista televisiva che Arendt concesse al giornalista tedesco Günter Gaus il 28 ottobre del 1964. Il testo, di un’attualità sconvolgente, è intitolato La lingua materna.
1964: Arendt è docente in un’università americana e vive a New York. L’onda d’urto dei plausi, ma soprattutto delle pesanti critiche al suo volume sul processo al gerarca nazista Eichmann La banalità del male è travolgente. Sono già fondamentali le sue considerazioni sul male storico perpetrato dai singoli individui, non fondato sulla libera scelta, bensì sul conformismo frutto di inconsapevolezza morale.
1964: Arendt è la prima donna a prendere parte a un talk show tedesco «impegnato» e le sono rivolte domande che oggi suonano ingenue, come ad esempio se il suo essersi dedicata alla filosofia, «professione solitamente riservata agli uomini», non sia per lei una sfida volta all’emancipazione. La risposta è provocatoria, ironica e senza fronzoli. Con un atto di umiltà socratica, dichiara di non essere affatto una filosofa, bensì una teorica che intende guardare alla politica «con occhi sgombri dalla filosofia». La filosofia occidentale tradizionale, infatti, incentrata sulla metafisica, porta con sé la responsabilità di troppi astrattismi che obnubilano il pensiero rivolto alla prassi politica. Certo, la filosofia è stata il primo grande amore per la giovane ebrea tedesca che a 24 anni divenne allieva e amante a Marburgo del discusso - per il suo successivo allineamento col pensiero nazista - professor Heidegger: «In ogni modo, per me la questione era la seguente: o studio filosofia o sono finita. (…) È il dovere di comprendere». In questo dovere intellettuale della comprensione si radica la forza della sua fede nella Ragione umana, intesa quale baluardo per difendersi da qualunque forma di barbarie. Così le ha insegnato il maestro Karl Jaspers, sulla scia del motto di Kant «Sapere aude!»: abbi il coraggio di usare la Ragione! Ed è proprio della ragione e del senso comune che la Arendt lamenta la progressiva perdita nel mondo contemporaneo a partire dalla seconda metà del ’900: ne è figlia un’umanità sradicata, svincolata dal mondo e quindi dal vero senso politico della vita, un’umanità individualista che celebra il «trionfo di un tipo umano il quale trova soddisfazione solo nel lavoro e nel consumo».
Arendt si racconta. La collaborazione, nel 1933, con un movimento sionista, per il quale raccoglieva testimoniante antisemite. L’arresto e il rocambolesco rilascio, grazie a un ufficiale nazista di buona volontà. La fuga a Parigi, dove si dedicò a organizzare l’invio di bambini ebrei in Israele. Poi, nel 1943, l’esilio negli Usa. La coscienza della propria condizione di ebrea - fondamentale per lo sviluppo del suo pensiero politico - le si era palesata già coi primi insulti antisemiti da parte di altri ragazzi: «Vede, tutti i bambini ebrei hanno avuto a che fare con l’antisemitismo. La differenza per noi era che mia madre partiva sempre da questo presupposto: non bisogna abbassare la testa!». Se il coraggio è una qualità della Ragione, la madre di Hanna - una giovane vedova di fede socialista, perfetta incarnazione dell’energica matriarca ebrea - era una donna piena di buon senso e coraggio. Le insegnò a difendersi dalla prima violenza perpetrata ai danni degli ebrei, quella di produrre in loro una profonda disappropriazione linguistica.
Per moltissimi ebrei, il tedesco - loro lingua madre - improvvisamente divenne un nemico, al punto che tanti esuli finirono per dimenticarlo in una sorta di rimozione. Ma non Hanna. Lei ha continuato ad amare il tedesco, con coraggio e ragionevolezza, a sentirlo sua lingua madre, anche quando è emigrata in un paese anglofono.
Per questo ci consegna questa testimonianza unica, ancora più preziosa per noi che viviamo in un mondo in cui sempre più si accantona il proprio idioma per balbettare il globish: «Mi dicevo: non è la lingua tedesca a essere impazzita! E poi non esistono alternative alla lingua materna. (…) perché la creatività linguistica viene amputata quando si dimentica la propria lingua».
Nel suo esilio americano, la pariah consapevole Arendt ha elaborato una visione ampia e pluralista della politica - la politeía - che trascende l’appartenenza a un’etnia o a una nazione, ma che mira alla collaborazione fra esseri umani. In tale progetto un ruolo centrale spetta alla parola. Alla parola autentica e ragionevole, che per Arendt è sempre la prima e la più incisiva «forma di azione politica».

di Anna Li Vigni - Pubblicato sul Sole dell'8 marzo 2020 -

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