«Una nuova politica di classe»?
- Note critiche sui discorsi attuali [*1] -
di Thomas Meyer
- I -
È da un po' di tempo che la questione sociale e la politica di classe sono sempre più oggetto di discussione. Sebbene le situazioni sociali ecc. siano state discusse fin dal primo decennio del secolo, negli ultimi anni questo discorso ha ricevuto un nuovo impulso. Una delle ragioni, è stata l'elezione di Donald Trump, anche lui eletto dai "lavoratori" [*2][*3]. Inoltre, tutti questi discorsi sono motivati dal fatto che anche la "nuova destra" fa riferimento alla "questione sociale" (o a quello che la destra intende con essa): allo stesso modo in cui lo fa il Front National, o Björn Höcke che fa appello al "patriottismo solidale". Questo discorso è stato alimentato da varie pubblicazioni, in particolar modo dal libro di Didier Eribon, "Ritorno a Reims". [*4]
È vero che per molto tempo la questione sociale è stata del tutto ignorata da vasti settori della sinistra, che aveva smesso di farne un argomento. Questo vale in particolare per la sinistra postmoderna, la quale ha rinunciato a qualsiasi pretesa di verità, attribuendo il totalitarismo a qualsiasi "grande teoria", e considerando tutto come semplicemente un discorso, come un gioco del linguaggio e, pertanto, non era in condizione di poter fare un'analisi attualizzata del presente. Il postmodernismo, non solo ha reso apatica la sinistra, ma con il collasso del blocco dell'Est ha anche portato ad una paralisi permanente. Le reazioni al 1989 sono state di due tipi: o una resa incondizionata, oppure un «continuare così» - in quello che è il passaggio socialista - come se non fosse successo niente. Una crisi del capitalismo, un limite interno alla valorizzazione del valore non poteva esserci! [*5]. Sotto questo aspetto, la sinistra aveva una posizione univoca, in tutte le sue correnti. Dall'inizio della crisi del 2008, la totale ignoranza postmoderna è diventata sempre meno sostenibile. E questo lo si vede non solo a partire da quella che è una nuova comprensione di Marx (quasi del tutto fuori strada), ma anche dall'evidente intensificarsi della crisi nella "metropoli". Pertanto, non c'è da stupirsi che ora qualcuno cambi idea. Né c'è da meravigliarsi che adesso si parli di «nuova politica di classe». Come risulterà chiaro, tuttavia, questo dibattito a proposito di una «nuova politica di classe» è tutt'altro che nuovo, e non viene esattamente approfondito per quanto riguarda i suoi contenuti. Tutto appare come se si trattasse di un déjà vu. Nel 2004, nel contesto della critica alla globalizzazione dell'epoca, Roswitha Scholz aveva scritto: «Ma ora il vento soffia proveniente da un'altra direzione. Con l'aggravarsi della situazione economica, a partire dalla seconda metà degli anni '90, i tagli sempre più profondi alla prestazioni sociali, ecc., nel quadro dei processi di globalizzazione, le difficili questioni esistenziali e materiali sono tornate ad essere il fulcro teorico e pratico dell'impegno della critica sociale [...] Nondimeno, a questo si accompagna una rinascita dell'idea della lotta di classe e, pertanto, l'idea di una critica sociologica superficiale del capitalismo, che si riduce alla questione giuridica della proprietà. Le dimensioni del "sessismo" e del "razzismo" - delle quali a partire dagli anni '80 si era tenuto conto, quanto meno rudimentalmente - rischiano ancora una volta di perdere terreno [...]» (Scholz 2004, 15). (Sebbene nella nuova politica di classe si sottolinei sempre che non è questo ciò che sta succedendo). In questo modo, nel momento in cui le diverse sinistre vogliono vendere, come se fosse qualcosa di nuovo, un dibattito che era anacronistico già nel 2004, non fanno altro che testimoniare quanto sia corta la loro memoria storica.
- II -
Tuttavia, la richiesta, da parte di alcuni addetti stampa di sinistra, o liberali di sinistra, di prendere sul serio la questione sociale e le preoccupazioni dei "lavoratori", è stata rovesciata da parte di alcuni (come Mark Lilla), nel senso che la sinistra dovrebbe astenersi da una «politica dell'identità», dal momento che la scelta di Trump sarebbe presumibilmente dovuta ad un'attenzione esagerata per le identità e i diritti LGBT [ Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender ]: «Che cosa importa al "piccolo uomo" dei diritti delle minoranze? Alcuni si sono spinti fino al punto di ritenere che "attualmente, la destra vuole davvero la giustizia sociale"» (per una critica, si veda: Dowling; van Dyk; Graefe 2017). Si presume che, in questo modo, un rifiuto della «politica dell'identità» dovrebbe riuscire a togliere il vento alle vele dei radicali di destra.
Di certo, nell'odierna «politica dell'identità», nella scena della «Critical Whiteness», queer e antirazzista (come dimostrato negli ultimi anni dai libri di Kreischreihe pubblicati dall'editrice Querverlag), e ancora di più nell'ignorante stile di vita della "sinistra" e di "bionade", c'è molto di giustamente criticabile. Tuttavia, il grossolano rifiuto dell'antirazzismo, ecc., o l'affermazione controfattuale secondo cui l'omofobia sarebbe un «problema del lusso» (cfr. Kram 2018), è in ultima analisi reazionario. In questo modo, in diversi contesti, si è obiettato che le critiche al razzismo ed al sessismo, così come quella alle lotte sociali, non devono essere giocate le une contro le altre, soprattutto perché possono anche sovrapporsi: basta pensare allo sfruttamento razzista dei migranti. Guardando indietro ad alcuni «studi in proposito» storici, è stato sottolineato come nelle lotte antirazziste anche la rivoluzione socialista sia stato oggetto di controversia, e che pertanto non ha senso contrapporre antirazzismo e anticapitalismo. È stato menzionato anche il movimento omosessuale, quando gli omosessuali hanno espresso solidarietà ai minatori britannici nel corso del loro sciopero del 1984/1985, così come nella mobilitazione che c'è stata nella SPD e nella KPD per l'abolizione del §175 del Codice penale (cfr. Zander 2018). La politica dell'identità è stata accusata anche di rappresentare interessi particolari, e non universalisti. Ma è giustificata, a partire dal fatto che nessuno è interessato alla sofferenza di coloro che sono razzisticamente oppressi o degli omosessuali, eccetto quelli che ne sono vittime (cfr. Purtschert 2017). Dall'altro lato, un punto di vista che fa della propria situazione il punto di vista ed il perno, non deve escludere una prospettiva universalista che riguardi la totalità, e che pretende di rovesciare tutte le condizioni in cui l'essere umano è solo un miserabile verme. Ciò per quanto riguarda la "ragione" e la "preistoria" del dibattito sulla «nuova politica di classe».
- III -
Il dibattito sulla "nuova politica di classe" viene commentato da Leisewitz & Lütten, sulla rivista Zeitschrift marxistische Erneuerung, nel seguente modo: «In molte aree della sinistra, in campo politico ed accademico, si sta felicemente svolgendo la nuova discussione sulle classi. Qui ci occuperemo solo di alcune osservazioni riguardanti il dibattito che riguarda gli ambiti militanti e giornalistici di una parte della sinistra politica [...] i quali affrontano la questione delle "classi", non tanto in forma teorica, quanto soprattutto politica. Al di là di quelle che sono le dinamiche di crisi ed i processi economici di polarizzazione e ristagno degli ultimi anni, ciò è dovuto in particolar modo ai successi della mobilitazione della moderna destra (anche) tra i lavoratori e i declassati, che sottolinea una evidente mancanza da parte della sinistra. Molti contributi, quindi, sottolineano, al fine di colmare questo vuoto, la necessità di una politica di classe che sia "nuova", "unificante" o "inclusiva". È degno di nota il fatto che precedentemente, nel dibattito condotto sui periodici di questa parte della sinistra, non c'è praticamente alcuna connessione con tutte le precedenti produzioni teoriche, e i concetti centrali non vengono affrontati teoricamente. Tutto ciò che viene esattamente inteso con termini quali "classe", "relazioni di classe" o "classe operaia" rimane in genere vago, e pertanto resta altrettanto poco chiara la questione se si sappia cosa sia realmente la "vecchia" politica di classe, e cosa non abbia più niente a che vedere con essa. L'accordo, notevolmente ampio e astratto, circa la necessità di una "Nuova politica di classe" suggerisce che il dibattito non è vincolante in termini di contenuto» (Leisewitz; Lütten 2018, 35s., virgolettatura di T.M.).
Se astraiamo, partendo dal punto di vista della lotta di classe marxista tradizionale, la quale costituisce la base teorica dei due autori, dobbiamo allora concordare pienamente con un simile giudizio; soprattutto con l'affermazione secondo cui l'odierna sinistra post-'68 è «capace di opposizione solo a certe condizioni» (ivi, 36). Gli autori continuano col seguente passaggio: «La questione centrale circa la nuova discussione di classe consiste, pertanto, non solo in come la sinistra possa arrivare di nuovo ai lavoratori, ai "dipendenti" e agli squalificati - ma anche attraverso che cosa possa arrivare a loro, e perché» (ivi, 37). E dopo: «Chiarirlo non attiene ad un prerequisito teorico, bensì ad un prerequisito immediatamente pratico che serve a chiarire in che modo si possa configurare un'attuale politica di classe di sinistra» (ivi). Il fatto che si pretenda che tale chiarimento divenga una questione pratica e non teorica, che dovrebbe essere il fine ed il contenuto delle lotte annunciate, alla fine, in ultima analisi, porta però all'incapacità dell'opposizione stessa. Quello che in questo modo viene sottolineato, è che le lotte portano a situazioni in cui gli interessi e gli obiettivi raggiunti sono incompatibili, per esempio quando ci si muove contro l'industria dell'automobile, o del carbone, per proteggere il clima e, di conseguenza, contro i lavoratori di tali industrie. Gli autori si pongono in contraddizione con la visione ingenua secondo cui «semplicemente, i diversi movimenti sociali "si uniscono" passo dopo passo fino a quando improvvisamente abbiamo un'altra società» (ivi, 39). Alla fine, «si dovrà pensare a come potrà essere affrontata l'inevitabile rottura con la proprietà, e come potrà essere imposta contro gli interessi della classe dominante» (ivi). In questo modo si arriva a quella che è la disapprovazione che viene espressa dagli autori contro la sinistra post-'68, la quale possiede uno strumento analitico (e politico) che non è più adeguato al capitalismo contemporaneo (ivi, 38): il loro giudizio è quindi diretto contro sé stessi.
- IV -
Alcuni di questi "nuovi" contributi al dibattito sono stati raccolti in un'antologia recentemente pubblicata, "Neue Klassenpolitik – Linke Strategien gegen Rechtsruck und Neoliberalismus" [Nuova politica di classe - Strategie di sinistra contro la recrudescenza della destra ed il neoliberismo]. Per lo più si tratta di articoli che erano stati pubblicati sulla rivista "Analyse und Kritik " a partire dalla fine del 2017, e qui rielaborati [*6]. La raccolta include alcune posizioni parzialmente eterogenee. A mio parere, tale eterogeneità rimanda a quella che è l'imprecisione del discorso in termini di contenuti come precedentemente criticati. Gli autori concordano sul fatto che la svolta verso i "lavoratori" e la tematica delle "questioni di classe" non debba condurre alla rinuncia all'antirazzismo, al femminismo e alla critica dell'omofobia [*7], e una simile polarizzazione alternativa non ha alcun senso. Alcuni articoli sottolineano anche l'interdipendenza internazionale del "dominio di classe", dello sfruttamento del Terzo Mondo, ecc.: una nuova politica di classe non si ridurrebbe in alcun modo "solo" a migliorare le vere e proprie condizioni di lavoro, sebbene questo sia senza alcun dubbio un punto importante, ma una Nuova politica di classe dovrà includere una solidarietà internazionale, che dovrà riflettersi anche nelle lotte comuni. A questo si aggiunge che ci sono alcuni a sinistra che criticano che la posizione della politica di classe sia legata al quadro dello Stato-nazione. Da un lato, questo non è sbagliato, visto che la sinistra odierna non è poi così interconnessa in senso internazionale e transnazionale da essere potente. Il riferimento allo Stato-nazione verrebbe ad essere, in ultima analisi, un'espressione di debolezza. Contrariamente ai tempi precedenti, «i dibatti condotti oggi dalla sinistra sono, soprattutto, di tipo difensivo. Un gruppo si accontenta di difendere quel che rimane dello stato sociale nazionale, ed offre quella che in ultima analisi è una prospettiva che esclude parte della classe lavoratice. Poi c'è anche un altro gruppo, modesto, nella misura in cui, al contrario, per esempio, è compiacente con l'Unione Europea, per paura che con il ritorno al nazionale si possa "peggiorare"»(Tügel 2018, 56s.). Tuttavia, continua l'autore: «Il riparo più importante per i diritti sociali, è sempre stato, e lo è tuttora, l'organizzazione e la lotta di classe. Se questa constatazione non si fermasse ad essere solo lo slogan a cui oggi si trova ridotto, probabilmente il dibattito sullo Stato-nazione sarebbe in gran parte obsoleto» (ivi).
Anche qui appaiono evidenti i gravi deficit teorici di gran parte dell'attuale sinistra. Ciò che sorprende è che molti cercano di comprendere le catastrofi sociali nei termini delle "classi" e della "lotta di classe", sebbene si dica che vanno considerati i recenti sviluppi (quali le mutazioni nella «composizione di classe», come viene detto così bene). È vero che viene scritto ripetutamente che non si vuole aderire ad un culto dei lavoratori, vale a dire, non si vuole in alcun modo entrare in quella che sarebbe una «eroizzazione e feticizzazione del lavoro salariato» (Wompel 2018, 158), poiché, «serve[...] una campagna sociale che metta in discussione il sistema stesso del lavoro salariato, e che distingua concettualmente il lavoro significativo dal lavoro salariato capitalista» (Eberle 2018, 112). Wompel scrive che una «feticizzazione del lavoro salariato» è una posizione «che della necessità della dipendenza salariale, ha fatto di necessità virtù. La difesa delle persone "lavoratrici" - insieme all'illusione di una giusta retribuzione - non solo ha spezzato le gambe alla resistenza alle leggi Hartz, ma ha reso anche possibile perseguitare i disoccupati. Nel suo complesso, esclude anche tutti quelli che non possono, o non vogliono, essere "eroi del lavoro". Disprezza le persone che svolgono del lavoro non retribuito, e potenzialmente tutti. E tuttavia anche la lotta per la solidarietà globale e per la giustizia distributiva dev'essere combattuta sotto forma di lotta femminista, antirazzista - e internazionalista - anche contro i sindacati della "concorrenza" razzista e nazionalista» (Wompel 2018, 164s.).
Dall'altro lato, ci sono molte cose che rimangono indefinite. Hannah Eberle scrive, tra l'altro: «Ogni società deve chiedersi cosa sia il lavoro significativo; ma nel modo capitalistico di produzione, il significato di "lavoro" si basa esclusivamente sul profitto. Precari e disoccupati potrebbero costituire il soggetto che riformula la questione del lavoro significativo. Per un breve periodo di tempo, essi vengono inseriti in posti di lavoro, o in interventi che non hanno scelto e che difficilmente hanno un senso o ottengono un riconoscimento sociale. Sembra essere assai più promettente lottare per delle attività significative, piuttosto che dare una connotazione positiva alla pigrizia. Il dibattito sul reddito minimo di esistenza (!) potrebbe essere un punto di partenza per questo: creare qualcosa di utile per la società, fare crescere il lavoro comunitario, politico, artistico e scientifico - in questo modo tutto smetterebbe di essere legato esclusivamente alla benevolenza (!) di un donatore» (ivi,112s).
In un altro contributo, che critica il fatto che il dibattito sulla nuova politica di classe non affronti l'ecologia, viene nuovamente ripresa l'idea di espropriazione della proprietà privata: «Un superamento del modo di produzione capitalistico, attraverso l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, eliminerebbe la coercizione ad espandere la produzione - soprattutto di quelle che sono cose ecologicamente dannose, come gli armamenti, i SUV o i prodotti che si usurano rapidamente. In questo modo, la fine del capitalismo diventa il presupposto per una riduzione globale del volume di materiali e di energia. Ma solo una classe che viene esclusa dal possesso dei mezzi di produzione, può avere interesse a questo: la classe operaia. Solo essa ha questa possibilità, dal momento che può controllare collettivamente tutto (!) il processo di produzione sociale» (Speckmann 2018, 129).
Ovviamente, gli autori dell'antologia di cui stiamo parlando non comprendono realmente la costituzione del modo di produzione capitalistico. Ad Eberle bisognerebbe dire che una paga dignitosa non è legata in alcun modo alla «benevolenza di un donatore». Come ha ripetutamente sottolineato Marx, il capitalismo è disciplinato dalla «silenziosa coercizione delle relazioni». Naturalmente, questo non significa che la «contraddizione in processo» sia un automatismo che gli individui perseguono come se fossero dei lemming. Tuttavia, in questo modo, la concorrenza universale [*8] continua qui ad essere esposta in maniera insufficiente, così come le forme feticiste attraverso le quali le persone sono costrette a riprodursi. Ciò chiarisce cosa avviene quando i lavoratori del carbone sostengono la deforestazione della foresta di Hambach, dato che i loro posti di lavoro e, pertanto, la loro esistenza (capitalistica) dipende dall'industria del carbone. Oppure chiarisce anche quale sia il problema sia della nuova che della vecchia politica di classe: se oggi vogliamo rappresentare gli interessi dei "lavoratori" e se vogliamo proprio davvero lottare per migliori condizioni lavorative (portandosi dietro tutti gli squalificati, i precari e i disoccupati), sarebbe particolarmente importante emanciparci proprio da questi interessi che assumono la forma del lavoro salariato e che, in ultima analisi, devono essere espresse per mezzo del denaro. Infatti, è in questo senso che viene ricordato il sermone domenicale marxista, secondo il quale il proletariato deve abolire sé stesso, come avviene nel caso di Mag Wompel che scrive: «Lottare per tutte le persone che dipendono dal salario, significa, naturalmente, lottare contro la dipendenza salariale» (Wompel 2018, 163). Per quel che riguarda l'espropriazione dei mezzi di produzione, quasi cento anni fa, André Gorz ha sottolineato come l'espropriazione dei mezzi di produzione non sia così facilmente possibile, a causa della massiccia frammentazione economica e dell'interdipendenza materiale (si veda, per esempio, Gorz 1988, 39) [*9]. Inoltre, pensare che la "classe operaia" possa, in qualche modo, "controllare" i mezzi di produzione così come essi attualmente esistono, si basa su un grosso equivoco. Anche se gli operai dovessero assumere il controllo di una fabbrica, ciò non significherebbe che l'obbligo alla valorizzazione non ci sarebbe più; ad attuarlo dovrebbero essere gli operai stessi, anche se avere un padrone: la chiusura di uno stabilimento che produce SUV, per quanto significativo ed auspicabile sia, per prima cosa non farebbe altro che rendere gli operai disoccupati ( e questo sarebbe nel senso di una «nuova politica di classe»?).
D'altra parte, in certe situazioni, le espropriazioni possono essere utili e necessarie, nel senso che migliorerebbero la situazione sociale in alcuni paesi: penso, ad esempio, ad un esproprio nelle terre rapinate (Land Grabbing) dalle aziende internazionali soprattutto nel Terzo Mondo che vengono usate, o abusate, per produrre biocarburanti, oppure alla demenza dei fiori recisi (!) per i centri capitalisti, al posto del cibo per la popolazione [*10]. Un'esproprio, una riforma agraria, una redistribuzione della terra ai (piccoli) contadini non creerebbe una società liberata, ma potrebbero, almeno in parte, migliorare la situazione sociale delle persone che ci vivono (e ridurre in questo modo le cause di fuga, cfr. Auernheimer 2018). Nonostante la situazione realmente migliore che si potrebbe ottenere con tali espropri, concentrarsi sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, e sulla loro espropriazione, non è qualcosa che a sinistra si possa considerare come emancipatore in quanto tale; al massimo si tratterebbe di un "ricorso all'emergenza", plausibile in una lotta contro il Land-Grabbing. Ad ogni modo, la concorrenza universale non verrebbe superata facendo ricorso ad un mero esproprio della proprietà privata dei mezzi di produzione.
A parte il fatto che in questo dibattito ci sono alcune cose che rimangono teoricamente nell'ombra, non sorprende che sia stato espressa anche una posizione anti-teorica che, in ultima analisi, punta ad una immediatezza pratica, come nell'articolo di "Lower Class Magazine", dove si dice: «Dal momento che la nuova politica di classe sta (ancora) soffrendo di un problema serio: si tratta di un meta-dibattito sulle strategie di sinistra, svolto con parole complicate (!), che viene condotto su giornali e riviste i cui testi noiosi (!) non riescono ad arrivare nemmeno ad un lavoratore pagato un euro in Germania Orientale, o a un'infermiera clandestina o a un gay scappato dal Libano [...] Si possono scrivere testi bellissimi, ma, slegati dalla struttura reale di un'organizzazione di classe, finiscono per diventare inutili [...] In realtà, la teoria rivoluzionaria dovrebbe essere una questione di auto-comprensione per coloro che lottano. Idealmente, dovrebbe essere così: Le persone che si organizzano in gruppi che vogliono superare il capitalismo, discutono di com'è, con coloro a cui vogliono rivolgersi e di come organizzarsi. La teoria elaborata insieme è, pertanto, la bussola per il lavoro pratico, e su questo dev'essere provata (!) o venire corretta. Nei paesi capitalisti sviluppati, spesso la situazione è differente: i dibattiti hanno vita propria, sono un fine che viene feticizzato di per sé (!). Testi sul marxismo, l'anarchismo, le classi, il femminismo, su questo e quello che viene scritto perché venga presentato come se fossero lavori del seminario o tesi di dottorato, in modo da riempire pagine e pagine di giornali o di riviste, o per "ravvivare" il commercio di libri in occasione di un qualche anniversario».
Ma il vero punto più basso deve ancora arrivare: «Oltre a tutto questo, esiste una regola che noi, in quanto super-teorici (!) di sinistra metropolitani, dovremmo avere imparato bene: Le rivoluzioni vengono sempre fatte a partire da cose semplici, come una volta ha detto il Black Panther Party. Nessuno combatte contro lo Stato e contro il capitale perché ha trovato altamente convincente la quarantottesima reinterpretazione, fatta da Michael Heinrich del feticcio della merce su Il Capitale» (ivi, 151-154). Il titolo della sezione da cui è stata tratta l'ultima citazione è: «Spiegare in due pagine di che cosa si tratta».
Pertanto, la teoria può essere usata solo se fornisce una semplice guida pratica. Certo, un'accademizzazione della critica teorica dev'essere criticata, soprattutto se in quel modo viene indebolita ed addomesticata, se si perde in una qualche tendenza discorsiva, e qualora pretenda di chiudere un lungo elenco di pubblicazioni. Anche una critica che si limiti alla filologia ed al positivismo, va condannata. Ma quella che si pone come una pratica dell'ostinazione, come un positivismo di movimento senza testa, vale a dire, forzare la teoria ad un immediato adeguamento alla pratica, tutto questo dev'essere respinto. Coloro che pensano che bisogna arrivare alle persone più o meno dove sono, coinvolgerle con spiegazioni semplici che vanno bene per tutti, non comprendono la gravità della situazione. È ovvio che non devono aver letto tutti Marx, Adorno o Scholz affinché abbia luogo una mobilitazione contro il fascismo ed il terrore poliziesco. Solo che: Se esiste la pretesa di abolire nel tempo il modo di produzione capitalistico, allora la riflessione teorica deve saper andare al di là di quella che è la politica attuale del momento. È legittimo e necessario difendersi da richieste irragionevoli, a tutti i livelli, sia che si tratti di condizioni irragionevoli di lavoro (e non sono certo i sicari dell'amministrazione della disoccupazione a dover decidere che cosa sia irragionevole e cosa non lo sia), di un apparato statale repressivo [*11], o dei rifiuti prodotti dalla rottamazione capitalistica, o della distruzione ambientale, ecc. Ora, però, difficilmente questa resistenza sarà sufficiente, dal momento che, come sostengono alcuni autori, bisogna porre fine al «Modo di vita imperiale» [*12] nel suo complesso, cosa che nessuno che si pone seriamente sul terreno della critica sociale contraddirebbe. Una riflessione teorica degradata, come quella auspicata da "Lower Class Magazine" - una teoria vista come se fosse una ricetta di cucina, per così dire - contribuirebbe a peggiorare ulteriormente la diffusione delle singole posizioni già criticate precedentemente, e porterebbe a pronunciarsi a favore dell'indifferenza riguardo il loro contenuto. Col tempo, però, questo farebbe sì che anche la pratica comincerebbe a girare a vuoto, riducendosi ad atti simbolici.
È già successo, anni fa nel movimento anti-globalizzazione, che si diffondesse un sentimento anti-teorico. Anche sotto quest'aspetto, non c'è niente di nuovo nel dibattito circa la nuova politica di classe. Nel 2005 - prendendo ad esempi Naomi Klein e José Bové - Robert Kurz ha scritto quanto segue: « In realtà, ciò che Bové riproduce qui è una vecchia storia: nello specifico, si tratta del risentimento della persona pratica dalla mente gretta verso la teoria "tra le nuvole", contro la quale viene affermata l' "immediatezza" dell'esperienza. Ma i pragmatici della protesta stanno ingannando sé stessi, illudendosi di avere una capacità di realizzazione che non posseggono affatto. Le esperienze, così come i bisogni, non vengono impartite direttamente e naturalmente, ma sono, esse stesse, mediate socialmente. Dato che questa mediazione non è direttamente comprensibile, ecco che essa deve prima essere resa visibile - ed è proprio in questo che consiste la teoria. Essa non si trova affatto, e per nulla, in opposizione alle esperienze, ma è piuttosto la riflessione sulle esperienze che viene fatta ad un livello superiore di astrazione. Tuttavia, le esperienze, nella loro immediatezza, non sono di per sé "concrete", ma vengono mediate attraverso quelle che sono astrazioni sociali (nella modernità, per mezzo della forma della merce totalitaria e delle sue contraddizioni). La riflessione teorica tenta di rendere tutto questo visibile, e di analizzarlo - solo in questo modo le esperienze possono diventare "concrete" nel vero senso della parola [...]. La concretizzazione con l'aiuto della teoria implica anche la chiarificazione del processo storico, nel cui contesto si situano le esperienze stesse. Le esperienze possono dire qualcosa qui ed ora solo se relazionate con delle esperienze del passato e con la storicità della società. La teoria trascende anche l'immediatezza dell'esperienza, nel senso che essa contiene il pensiero dell'esperienza passata e, pertanto, ha una sua propria storia. Coloro che ritengono di poter ignorare questo, finiranno inevitabilmente per interpretare male le loro stesse esperienze, dal momento che non sono in grado di collocarle in un contesto più allargato. [...] La teoria viene perciò vista come se fosse un'espressione della riflessione sulle proprie esperienze, con una loro maggiore portata storica e su un piano concettuale di astrazione. La formazione teorica è di per sé un processo storico, parallelo al processo di sviluppo sociale [...]. E oggi, in questa storia di riflessione teorica si annuncia il famoso cambiamento di paradigma, che dev'essere elaborato e messo in discussione. Il movimento sociale viene coinvolto in questo compito, e non può comportarsi come un ignorante» (Kurz, 2005, 29s.).
Occorre che questo venga sempre ricordato, quando la sinistra si sforza di passare alla pratica e pensa che la teoria sia più o meno ridondante.
- V -
Un altro aspetto molto discusso è quello dell'organizzazione della resistenza: si sottolinea qui anche il fatto che molte volte le lotte sociali sono vuote, poiché incapaci di guardare oltre sé stesse ed il loro «ordine del giorno», e costruire delle strutture affidabili; strutture che possano servire anche a riunire le diverse proteste. In parte, la mancanza di continuità di resistenza dipende anche dal fatto che le proteste rimangono isolate, e vengono spesso ignorate dagli appartenenti alla sinistra radicale, spesso figli della classe media accademica. Inoltre, ci troviamo tutto l'assurdo del "postmodernismo" ed il carattere parzialmente settario di quella che è la sinistra [*13].
In termini esistenziali, il fatto che le persone si relazionino e si organizzino contro le imposizioni è semplicemente necessario: Per esempio, quando si tratta di resistere collettivamente agli sfratti abitativi, o di esigere condizioni lavorative tollerabili nel settore sanitario, per fare in modo che le cure sanitarie siano garantite, anziché essere pericolose. In alcuni ambiti, fino ad un certo punto, è perfino possibile trasformare la cosa in immanenza. Anche se il capitalismo non viene messo immediatamente in discussione, le proteste immanenti sono inevitabili e, pertanto, significative. Tutto questo, però, non può essere applicato necessariamente ed ugualmente a tutti i casi: si pensi solo alle proteste dei lavoratori contro la chiusura delle fabbriche di automobili: come si è detto, il problema è quello di emanciparsi rispetto a questi interessi forzati (operai) e combattere una lotta contro quella che è la forma stessa dell'interesse capitalistico, una lotta da cui le proteste oggi esistenti sono, purtroppo, ancora lontane. Pertanto, le proteste non possono essere valutate positivamente in quanto tali. Le proteste sociali, anche quelle oggettivamente significative e necessarie (come quelle contro la follia degli affitti spropositati), sono sempre altamente ambivalenti. Per quanto significativa e necessaria possa essere la difesa di un alloggio incondizionato, o di un reddito di base incondizionato (qualora si stia già lottando per qualcosa di più di un reddito di base), anche la critica degli affitti insostenibili può assumere la forma della speculazione, in modo da rendere probabile che una protesta sociale inizialmente giustificata si trasformi in una barbarie reazionaria. Fondamentalmente, una data protesta dev'essere analizzata dal punto di vista del suo contenuto: la protesta serve per affermare bisogni elementari contro le esigenze del capitale? Innanzitutto, in che modo e con quali spiegazioni avviene, oppure si tratta solamente dotare la propria posizione, in un contesto di concorrenza (a spese dell'ambiente, del Terzo Mondo, ecc.), di nuovi e differenti mezzi? Le proteste immanenti, visto che in realtà in questo momento non ne esistono altre, sono perciò necessariamente ambivalenti. Ragion per cui, è urgente che non si faccia di necessità virtù, e non succeda che ci si lanci più o meno a testa bassa nella prassi, come esige che si faccia la rivista Lower Class Magazine, e si tratta anche di non dichiarare senza senso a priori ogni critica pratica, solo perché essa è ambivalente e non si presenta come si vorrebbe. Queste ambivalenze devono essere semplicemente aiutate e incoraggiate. Senza dubbio, per farlo è necessario leggere più di due paginette, se non si vuole che la propria impotenza ci renda stupidi.
Nel lungo periodo, la resistenza sociale finisce per girare a vuoto, anche con la migliore organizzazione e con il miglior lavoro in rete, se non si fa chiarezza su quali sono le condizioni reali di valorizzazione (o di svalorizzazione) del capitalismo di crisi. Poiché tutto e tutti hanno diritto ad esistere solo nella misura in cui sono passati dalla cruna dell'ago della finanziabilità. La redistribuzione immanente, la deviazione delle risorse finanziarie, dai progetti inutili (Aeroporto di Berlino, Stoccarda 2021, ecc.) verso la creazione di abitazioni sociali può essere di fatto auspicabile e realizzabile. Tuttavia, le redistribuzioni possono andare rapidamente a sbattere quelli che sono i loro limiti: anche se un "governo di sinistra" rinuncia ad un generoso profitto sociale, esso continua a dipendere da una sufficiente redditività finanziaria, vale a dire, ad un gettito fiscale che basti, a sua volta, ad un'efficace valorizzazione del capitale, il che significa che l' "economia nazionale" deve prevalere sulla concorrenza, cioè, a scapito della concorrenza. Pertanto, il cosiddetto denaro di sussistenza, o reddito di base incondizionato, dipende da un'efficace valorizzazione del valore. È determinante sviluppare una coscienza del fatto che la ricchezza materiale e, pertanto, l'esistenza umana devono venire svincolate dalla sostenibilità finanziaria. I beni materiali che ormai non possono più essere finanziati vengono chiusi, anche se rimangono "lì" dove sono, così come sono sempre "lì" i corrispondenti bisogni che non possono più essere sufficientemente articolati per mezzo di una domanda solvente. Tali esigenze sono perciò nulle e senza effetto. Se di questo non viene tenuto conto, allora non si può escludere che i movimenti sociali, contrariamente a quelle che erano le loro intenzioni iniziali, possano entrare a partecipare all'amministrazione della miseria. Naturalmente, non é affatto semplice rispondere alla domanda su come in concreto avverrà questo svincolamento, e non è semplice nemmeno rispondere all'altra domanda, su come trasformare la ricchezza materiale e la sua stessa produzione (fermare quella produzione che mette a rischio la salute, abolire la produzione di rifiuti, abolire il trasporto individuale, abolire la propaganda pubblicitaria, ecc.). Bisogna che entri nella coscienza delle persone, e quindi nel «discorso pubblico», il fatto che, dal momento che le ricchezze materiali non possono più essere sfruttate sufficientemente secondo quelli che sono i criteri capitalistici, tali criteri devono essere aboliti [*14], e non che le ricchezze vanno chiuse e le persone - costrette a subire una povertà di massa socialmente generata - dovranno accettare, con l'aiuto di adeguate misure repressive, tale chiusura come se fosse una legge naturale che dovranno accettare ed eseguire di per sé (si veda, per esempio, la politica di austerità in Grecia) [*15].
Queste cosiddette «lotte di classe» e proteste immanenti, se la macchina della valorizzazione si paralizza o si ferma de tutto, smetteranno di avere senso. Lottare contro l'aumento degli affitti, o contro i salari bassi, non ha senso se, per esempio, prevale l'iper-inflazione, come sta succedendo attualmente in Venezuela (febbraio 2019). Nel dibattito su una «nuova politica di classe», quest'idea è del tutto assente. Uno dei motivi consiste nel fatto che la maggior parte di chi è di sinistra non distingue tra ricchezza materiale e ricchezza sotto forma di valore. Ne consegue che le rivendicazioni sociali vengono espresse sempre sotto forma di denaro e sono, in ultima analisi, identiche alla ricchezza sotto forma di valore. Quello che non viene visto, e che non si comprende, è l'ovvia diversità do queste forme di ricchezza, nel momento in cui nella crisi ogni genere di cose vengono chiuse, o sempre più cose diventano «infinanziabili» a causa della svalorizzazione (come l'alloggio, la salute, ecc.). La ricchezza fisica, vale a dire "materiale", entra in contraddizione con la forma sociale che le viene imposta. Quello che sarebbe importante, è lottare per un'emancipazione contro questa forma, e non in una tale forma: «Il tema è pertanto quello di formulare la critica emancipatrice delle forme di esistenza e delle forme di pensiero oggettivate e socialmente dominanti, e a partire da questo renderla efficace nelle lotte sociali, al fine di rompere consapevolmente questa gabbia categorica... si tratta di sviluppare una volontà contro la forma dominante della volontà, e prendere coscienza del suo carattere feticistico» (Kurz, 2013, 96).
Il fatto che le cose non possono più essere finanziate, risultante dalla rappresentazione feticistica di questa ricchezza, in termini di valore perde senso, dal momento che è necessario sempre meno lavoro per produrre ciascuna merce; e che i meccanismi di compensazione messi in atto dalla razionalizzazione del lavoro stanno diventando sempre meno efficaci, o addirittura inesistenti, e stanno rendendo sempre più impossibile un modo di produzione basto sul lavoro e sulla dissociazione. Ciò significa che non può più esistere una società che si basa sulla valorizzazione del valore attraverso il lavoro, e che questa società si decompone, diventa selvaggia ed "ingovernabile" (cfr. Kurz 2003; Bedszent 2014; Böttcher 2016; Konicz 2014; 2016). Secondo Robert Kurz, «È proprio dell'ignoranza riguardo la visione metropolitana della situazione globale non voler vedere che nelle grandi regioni mondiali questo "stato" è già stato raggiunto; ammortizzato solo parzialmente da delle minoranze, per mezzo del loro collegamento ancora mantenuto con il mercato mondiale e le sue congiunture di deficit. Se viene a mancare quest'ultimo cuscinetto, e di fatto per i centri è così, allora anche il grado raggiunto di impoverimento di massa si trasformerà in tal senso in un massacro di massa globale, dal momento che per quasi sette miliardi di esseri umani non è possibile un ritorno ad un'economia di sussistenza; per non parlare degli eccessi di violenza associati a tutto questo che si cominciano a vedere e che, non da ultimo, derivano dalla trasformazione degli apparati di sicurezza e di violenza - essi stessi ormai senza «capacità di essere finanziati» - in bande di saccheggiatori.» (Kurz, 2013, 82).
Questa «contraddizione tra materia e forma» precedentemente menzionata (cfr. il testo di Ortlieb 2008a/2009) viene ignorata dalla più parte della sinistra. Tutto ciò avrebbe potuto essere discusso nel corrispondente scenario, in modo che la sinistra sarebbe così di fatto entrata in un livello teorico che pretende di criticare il capitalismo nel momento attuale, anziché cercare di spremere disperatamente nei vecchi termini il bisogno di resistenza sociale (sebbene, allo stesso tempo, spesso si affermi che non vuole essere così all'antica). Il "bisogno di pratica" sarebbe assai meno diffuso ed arbitrario, bensì articolerebbe in maniera militante, con chiarezza concettuale, la sua determinazione. Nel riferirsi al testo di Ortlieb succitato, la sinistra, o chi lo abbia letto, si rifiuta sistematicamente di partecipare al dibattito. In realtà, si è trattato del «collasso di un dibattito»: fare finta di niente, nella verbosità del blog, non tenendo conto delle basi del testo, significa solo negare la realtà (cfr Ortlieb 2008b).
Lo stesso succede con la teoria della crisi di Robert Kurz vista nel suo insieme. Per decenni, si sono dovute ascoltare ripetutamente le stesse banalità (cf. Kurz 2012a; 2012b; 2013). Anche la rivista "Analyse und Kritik" ha pubblicato articoli analoghi. Ad esempio, Ingo Stützles sul n°449 [*16] (4/2001), commentando il libro "Leggere Marx!", conclude con le parole: « Con le profezie autocratiche di Kurz, si vogliono solo nascondere i problemi della profezia autiocratica e viene evitato un dibattito serio [con Marx]» (per la critica: Kurz, 2012a, 365). E si devono leggere cose del genere! Ma non è tutto: Stefanie Hürtgen (che contribuisce anche all'antologia qui discussa) scrive nella stessa rivista, n°557 (1/2011), alla fine di un suo commento ad una tavola rotonda con Robert Kurz: «Ci sono buone ragioni per non seguire le idee di un adeguamento attraverso la crisi, ma parlare del collasso o perfino del crollo finale della svalorizzazione è un inganno. Non solo perché è inimmaginabile un capitalismo che sia profondamente e direttamente propenso alle crisi, ma anche perché la riproduzione sociale continua, anche a livello mondiale, e assai spesso purtroppo in una forma che lo stesso Robert Kurz chiama "barbarie". Ma questo è qualcosa che è qualcosa di più di un "collasso" - si tratta piuttosto della continuazione dell'esistenza della riproduzione sociale nella peggior forma concepibile. Ma quando si parla di barbarie come una prospettiva possibile - allora diventa urgente smettere di considerare la critica, anche quella teorica, come "critica categoriale, la quale dovrebbe per favore entrare nei ciechi cervelli delle masse; al contrario, la questione è quella di imparare a comprendere anche il lavoro teorico come un dibattito. Come un dibattito "che si è sempre intrecciato con altre pratiche e che si muove sempre insieme a queste pratiche in un contesto storico concreto" [La citazione è di Demirovic in Prokla nº. 159]. Sarebbe tempo di prendere coscienza di quest'intreccio» [*17]. Si tratta di un argomento spesso usato nel senso che un capitalismo che produce solo impoverimento, starebbe così solamente tornando alla sua vera normalità. Ciò ovviamente significa che qui viene incoraggiata una de-storicizzazione del capitalismo. Non sorprende che, alla fine, venga formulato una sorta di bisogno diffuso di pratica, verso cui il lavoro teorico dovrebbe essere orientato.
- VI -
Pertanto, si può riassumere che, alla fine, nella «nuova politica di classe» non c'è nulla di nuovo. C'è un accordo di principio nel senso di non giocarsi la critica del razzismo, dell'omofobia, ecc. contro la critica delle situazioni sociali, ma per tutto quello che riguarda il resto tutto rimane abbastanza confuso. Da un lato, superficialmente, vengono formulate idee significative o quanto meno non sbagliate, ma poi queste ne contraddicono altre, a volte solo poche frasi dopo. In teoria, e perciò in termini di contenuto, questo dibattito è immaturo, ed è il risultato di anni di rifiuto della critica. Quel che conta è che le lotte sociali si rivoltano contro la forma dominante, vale a dire, contro la «forma di volontà borghese che è diventata insopportabile» (Kurz 2006, 397). Per quanto comprensibili possano essere le proteste immanenti, il loro orizzonte non dovrebbe limitarsi alle rivendicazioni immanenti. Questo riguarda anche il fatto che spesso le rivendicazioni immanenti sono servite solo a migliorare o a mantenere la propria posizione nel processo di valorizzazione capitalistica, senza che però questa posizione sia stata oggetto di critica. Di fronte alle proteste contro la «follia degli affitti» o contro lo «stato di necessità nell'assistenza sanitaria», è ovvia la solidarietà, anche se questo non ci impedisce di osservarle nei termini della critica dell'ideologia, e di ritirare o rifiutare qualsiasi solidarietà, e perfino dichiarare guerra, quando, per esempio si arriva al punto di dare la colpa delle catastrofi sociali a George Soros o ai "Rotschild". In altri casi, la solidarietà è molto più difficile, se non impossibile, fin dall'inizio: le esigenze di potersi riprodurre (meglio), dal momento che devono avvenire sotto la forma assunta dal denaro, possono avere conseguenze problematiche, per esempio, quando i lavoratori protestano contro la chiusura di una fabbrica di automobili, o quando i sindacati si pronunciano a favore della distruzione ambientale poiché promette "posti di lavoro" [*18]. La rivendicazione, frequentemente formulata, di prendere sul serio gli interessi della "classe operaia" è, pertanto, inconsistente fin dall'inizio, quando viene detto che simultaneamente si pretende di criticare la distruzione dell'ambiente, ecc..
Ciò avrebbe dovuto rendere chiaro che è inevitabile che le lotte ed i tentativi di organizzazione siano analizzati criticamente dalla teoria, e che ciò non significa, tuttavia, che la teoria degenera in ricetta di cucina dell'agitazione. Alla fine, la dialettica tra teoria e pratica dovrà essere presa sul serio, e ciò significa che sarà compito della sinistra, contrariamente alle sue cattive abitudini, smettere di eludere la critica categoriale.
- Thomas Meyer - Pubblicato su Exit! l'8 maggio 2019 -
NOTE:
[*1] - È ovvio che non pretendo di essere esaustivo, ma sceglierò alcuni aspetti rilevanti, non, però, con tutti i dettagli. Perciò potrà servire la bibliografia indicata.
[*2] - Quando nel testo si parla di lavoratori
[*3] - Di fatto, Trump, grazie alle sue promesse, e riuscito a segnare punti tra le persone al di fuori della «rust belt», vale a dire, nel nordest degli USA, persone che in genere vengono ritenute parte della «classe operaia», o dei «lavoratori bianchi». Quelli che intendo menzionare qui, non sono i salariati della classe media, quelli che in ambito accademico vengono denominati come «politicamente corretti». Si veda per esempio Bedszent 2016.
[*4] - A tal proposito la lezione, tenuta nel 2018 da Roswitha Scholz: La classe è stupida? - ( https://exit-lesekreis-hh.de/kategorie/radio-fsk/ )
[*5] - Cfr. Robert Kurz: Zur Kritik der Arbeit (2005) ( https://www.freie-radios.net/10566) .
[*6] - Ulteriori contributi al dibattito si possono consultare sulla rivista "Luxemburg", sul numero speciale "Neue Klassenpolitik" (2017) ( https://www.zeitschrift-luxemburg.de/lux/wp-content/uploads/2017/10/LUX-Spezial-Neue-Klassenpolitik.pdf ); sulla rivista "Prager Frühling" Nr. 29: "Klasse mit Gedöns", Marzo del 2017 ( https://www.prager-fruehling-magazin.de/de/topic/81.m%C3%A4rz-2018.html ); e sulla rivista "Z-Zeitschrift Marxistische Erneuerung" Nr. 116, Dicembre 2018.
[*7] - Come suggerisce John Kram, il termine «omofobia» è in realtà una banalizzazione. Assai più appropriato sarebbe «ostilità verso gli omosessuali» (Kram 2018, 87).
[*8] - A proposito di «concorrenza», si veda, per esempio il «frammento sulla concorrenza» di Marx, sui Grundrisse (542-45).
[*9] - Si veda anche la mia critica a Paul Mattick: Meyer, 2017.
[*10] - Si veda per esempio: https://www.zeitschrift-luxemburg.de/landgrabbing-im-zeichen-der-vielfachkrise/ .
[*11] - Per esempio, «Copwatch» documenta la violenza poliziesca. La posizione è quella secondo cui se le attività della polizia venissero documentate, la violenza poliziesca verrebbe contenuta.
[*12] - “Imperialen Lebensweise”, è il titolo di un libro che è stato discusso in maniera controversa da alcune persone a sinistra (Brand; Wissen, Munique 2017). Si veda per esempio, "Kritik der politischen Ökologie" in wildcat nº 103, Primavera 2019, 44-46, dove viene detto: «Discutono la possibilità di un'azione solo a livello di quelle che sono le decisioni dei consumatori e dei diversi redditi disponibili, dove la classe media diventa il soggetto decisivo di una svolta ecologica. Alimentano così l'illusione che i consumatori possano ridurre decisivamente il consumo di risorse nel Sud del mondo attraverso le loro decisioni individuali di acquisto e, in ultima analisi, argomentano solo moralmente, anche se lo negano sempre» (ivi, 46).
[*13] - Cfr. "11 Thesen über Kritik linksradikaler Politik, Organisierung und revolutionärer Praxis” [ 11 Tesi sulla Critica della Politica, dell'Organizzazione e della Prassi Rivoluzionaria della Sinistra Radicale] del Kollektiv de Bremen 2016, e Kollektiv de Bremen 2018.
[*14] - Tutto ciò non esclude naturalmente che possa essere criticata la capacità di distruzione del capitalismo e dei suoi «valori d'uso», a volte estremamente folli, anche nel caso in cui non vengono chiusi in quanto infinanziabili. Qui si tratta assai più di mostrare quello che è l'assurdo del capitalismo di crisi, attraverso il quale le persone vengono, per esempio, private del pane, per quanto ce ne sia. Il fatto che nel capitalismo questo pane viene prodotto in maniera parzialmente distruttiva (agricoltura industriale di monocoltura) va criticato ed abolito, ed è un altro livello su cui evito di concentrarmi.
[*15] - A parte il fatto che ogni resistenza sociale, per quanto immanente e riduttiva possa essere, verrà (viene) combattuta dalla repressione dalle guardie-scagnozzi statali/provati. Questo si dimostra chiaramente, per esempio, nell'evacuazione delle case occupate.
[*16] - Può essere letto a: http://stuetzle.cc/2006/02/marxismus-im-kurzschluss-das-neue-marx-buch-des-krisenpropheten-robert-kurz-ist-ein-argernis/ .
[*17] - https://www.akweb.de/ak_s/ak557/40.htm
[*18] - Ad esempio, sul progetto "Dakota Access Pipeline", si veda il parere dell'ALF-CIO, la più grande confederazione sindacale degli Stati Uniti: https://aflcio.org/press/releases/dakota-access-pipeline-provides-high-quality-jobs .
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Wompel, Mag: Klassenkampf als Soziale Bewegung – Das Konzept des Social Movement Unionism, in: Sebastian Friedrich & Redaktion analyse & kritik (Hg.): Neue Klassenpolitik – Linke Strategien gegen Rechtsruck und Neoliberalismus, Berlin 2018, 157–165.
Zander, Michael: Gegen jede Unterdrückung – Historische Alternativen zur Gegenüberstellung von Klassen- und Identitätspolitik [, in: Sebastian Friedrich & Redaktion analyse & kritik (Hg.): Neue Klassenpolitik – Linke Strategien gegen Rechtsruck und Neoliberalismus, Berlin 2018, 70–77.
fonte: EXIT!
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