domenica 29 marzo 2020

Niente potrà più essere come prima

La sfida politica della pandemia
- La salute, il clima, l'economia, l'istruzione, la cultura non dovranno più essere considerati come se fossero proprietà privata o statale: dovranno essere considerati beni comuni globali, ed istituiti politicamente in quanto tali -
- di Pierre Dardot e Christian Laval -

La pandemia di Covid-19 costituisce quella che è un'eccezionale crisi globale, sanitaria, economica e sociale. Ci sono stati pochi eventi storici che possono essere paragonati a questa, almeno sulla scala degli eventi avvenuti negli ultimi decenni. Questa tragedia si configura, ora, come un esame per tutta l'umanità. Si tratta di una prova, nel duplice senso del termine: dolore, rischio e pericolo, da un lato; esame, valutazione e giudizio, dall'altro. Ciò che la pandemia sta testando, che sta mettendo alla prova, è la capacità da parte delle organizzazioni politiche ed economiche di far fronte ad un problema globale associato all'interdipendenza degli individui, vale a dire, qualcosa che incide in maniera fondamentale sulla vita sociale di tutti. Come se si trattasse di una distopia che diventa realtà, insieme ai cambiamenti climatici in corso, quello che oggi stiamo vivendo ci fa vedere che cos'è che aspetta l'umanità, tra qualche decennio, se la struttura economica e politica del mondo non cambierà molto rapidamente e in maniera radicale.

Una risposta statale ad una crisi globale?
Prima osservazione: in un modo o nell'altro, per rispondere all'epidemia globale, siamo disposti ad affidarci alla sovranità dello Stato nazionale. E questo, a seconda del paese, è avvenuto in due modi più o meno complementari ed articolati: da un lato, facciamo affidamento nello Stato per adottare misure autoritarie che limitino i contatti, in particolare con l'instaurazione di uno «stato di emergenza» (dichiarato o meno), come in Italia, Spagna o Francia; dall'altro lato, ci si aspetta, e si spera, che il governo protegga i cittadini dall'«importazione di un virus che viene dall'estero». La disciplina sociale ed il protezionismo nazionale sarebbero, quindi, i due assi prioritari di lotta contro la pandemia. In questo modo, ci troviamo davanti a quelli che sono i due aspetti della sovranità dello Stato: il dominio all'interno, e l'indipendenza all'esterno.
Seconda osservazione: ci affidiamo allo Stato anche per aiutare a superare la prova, quelle che sono le imprese di tutte le dimensioni, fornendo assistenza e garantendo i crediti di cui avrebbero necessità per poter evitare il fallimento, e mantenere attivo il massimo possibile di forza lavoro attiva. Ora, lo Stato non ha più così tanti scrupoli a spendere senza alcun limite per poter «salvare l'economia» (usa tutto quello di cui c'è bisogno); tuttavia, è solo di ieri la sua opposizione a qualsiasi richiesta di aumentare il numero di ospedali, o la quantità di posti letto negli ospedali, così come i servizi di emergenza. C'è stato un rispetto ossessivo per le restrizioni di bilancio e per i limiti del debito pubblico. Oggi, gli Stati sembrano aver riscoperto le virtù dell'intervento, per lo meno quando si tratta di sostenere le attività delle imprese private e garantire il sistema finanziario [*1]. Sarebbe sbagliato confondere questo cambiamento brutale con la fine del neoliberismo. Ora, questo pone quella che è una domanda cruciale: fare ricorso alle prerogative dello Stato sovrano, dentro o fuori da ciascun paese, sarà in grado di rispondere ad una pandemia che investe la solidarietà sociale più elementare? Ciò che abbiamo visto finora è preoccupante. La xenofobia istituzionale degli Stati si è manifestata proprio nello stesso momento in cui diventavamo consapevoli del pericolo letale costituito per tutta l'umanità da questo nuovo virus. Gli Stati europei hanno dato le loro prime risposte al diffondersi del coronavirus in modo assolutamente dispersivo. Molto rapidamente, la maggioranza dei paesi europei, soprattutto in Europa centrale, si è chiusa dietro le mura amministrative del territorio nazionale, per proteggere le popolazioni dal «virus straniero». La mappa della chiusura in sé stessi dei primi paesi coincide in maniera significativa con la mappa delle xenofobie di Stato.
Ad accendere la miccia è stato il  presidente dell'Ungheria, Viktor Orbàn: «Stiamo combattendo una guerra su due fronti, quello della migrazione e quello del coronavirus, i quali sono collegati in quanto entrambi si diffondono per mezzo dello spostamento di persone» [*2]. A livello europeo e globale, quello che si è rapidamente diffuso è il medesimo tono: ciascuno degli Stati deve ora amministrare il problema per proprio conto, e questo per la gioia di tutta l'estrema destra europea e globale. Il comportamento più abietto osservato, è stato quello della mancanza di solidarietà con i paesi più colpiti. L'abbandono dell'Italia al suo destino da parte della Francia e della Germania, ha evidenziato un estremo egoismo, fino al punto di rifiutarsi di inviare attrezzature mediche e mascherine protettive. Questo suona come una campana a morte per un'Europa ricostruita sulla base di una feroce concorrenza tra i paesi.

Sovranità statale e scelta strategica
L'11 marzo, il direttore generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato che abbiamo a che fare con una pandemia che lo stava profondamente preoccupando per la sua velocità di propagazione del virus, così come per l'«allarmante livello di inerzia degli Stati». Come spiegare questa mancanza di intervento? L'analisi più convincente ci viene fornita dalla specialista in pandemia, Suerie Moon, codirettrice del Global Health Center dell'Institute for Advanced International Studies and Development: «La crisi che stiamo attraversando dimostra il persistere del principio della Sovranità dello Stato in quelli che sono gli affari mondiali. (...) Ma in questo non c'è niente di sorprendente! La cooperazione internazionale è sempre stata fragile, ma la situazione è peggiorata ancora di più negli ultimi cinque anni, con l'elezione di leader politici, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, che aspirano a restare fuori dalla globalizzazione. (...) Solo una prospettiva globale che solo l'OMS offre, corriamo il rischio di un disastro». Ha così ricordato ai leader politici e sanitari di tutto il mondo che un approccio globale alla pandemia, così come il mantenimento della solidarietà, sono elementi essenziali che incentivano i cittadini ad agire con responsabilità [*3].
Per quanto giustificate e giuste possono essere queste osservazioni, esse non ci dicono che l'Organizzazione Mondiale della Sanità è stata finanziariamente indebolita per diversi decenni; in realtà, è stata fatta dipendere dai finanziamenti privati (l'80% delle sue risorse provengono da donazioni private di aziende e fondazioni). Nonostante questo indebolimento, l'OMS avrebbe potuto servire fin dall'inizio come una struttura di cooperazione nella lotta contro la pandemia, non solo perché le sue informazioni erano affidabili dall'inizio di gennaio, ma anche perché le sue raccomandazioni per il controllo radicale e precoce dell'epidemia sono state rilevanti. Per il direttore generale dell'OMS, la scelta di abbandonare i test e lo screening sistematici dei contagi, che hanno avuto successo in Corea e a Taiwan, è stato un grande errore che ha contribuito a diffondere il virus in tutti gli altri paesi. Dietro un simile ritardo, ci sono delle opzioni strategiche. Paesi come la Corea hanno scelto di fare i test di routine, l'isolamento dei portatori del virus ed il «distanziamento sociale». L'Italia ha adottato la strategia del contenimento assoluto per interrompere l'epidemia, così come precedentemente aveva fatto la Cina. Altri paesi hanno aspettato troppo a lungo per reagire, facendo la scelta fatalista e cripto-darwiniana di una strategia chiamata «immunità del gregge». La Gran Bretagna di Boris Johnson, inizialmente ha seguito la strada della passività; altri paesi si sono attardati in maniera più ambigua  nell'adozione di misure restrittive, soprattutto la Francia e la Germania, per non parlare degli Stati Uniti.
Sulla base di una «mitigazione» o di un «ritardo» nel ritmo dell'epidemia, che appiattisce la curva di contaminazione, questi paesi hanno rinunciato a tenerla sotto controllo fin dall'inizio attraverso uno screening sistematico ed un contenimento generale della popolazione, come è stato fatto nella provincia di Wuhan e Hubei. Questa strategia di immunità del gregge presuppone che si accetti che venga contaminata dal 50 all'80% della popolazione, secondo le previsioni che sono state fatte dai leader tedeschi e dai governanti francesi. Questo significa accettare la morte di centinaia di migliaia, perfino di milioni, di persone, soprattutto delle persone «più deboli». La linea dettata dall'OMS, però, era chiara: gli Stati non devono abbandonare lo screening sistematico e il monitoraggio delle persone risultanti positive.

Il «paternalismo libertario» in tempi di epidemia
Perché gli Stati prestano così poca attenzione all'OMS? Soprattutto, perché non hanno attribuito ad essa un ruolo centrale nel coordinamento delle risposte alla pandemia? Sul piano economico, l'epidemia in Cina ha paralizzato i poteri economici e politici, sapendo che l'interruzione su una scala mai vista prima della produzione e del commercio avrebbe portato ad una crisi economica e finanziaria di una gravità eccezionale. Le esitazioni in Germania, in Francia, e ancora di più negli Stati Uniti sono state dovute al fatto che i governi di quei paesi avevano scelto di tenere in funzione l'economia per quanto più tempo possibile. Più precisamente, hanno ceduto a quello che era il loro desiderio di mediare tra gli imperativi economici e quelli sanitari, prendendo decisioni in funzione della situazione osservata «giorno per giorno». In questo modo, non hanno tenuto conto di quelle che erano le previsioni più drammatiche, le quali erano ben note. Sono state le catastrofiche previsioni dell'Imperial College, secondo cui la negligenza avrebbe provocato milioni di morti, a cambiare gli atteggiamenti dei governi tra il 12 ed il 15 marzo, vale a dire, quando era già molto tardi per poter attuare un confinamento generalizzato [*4].
Ed è qui che vediamo la dannosa influenza dell'Economia Comportamentale e della «teoria della spintarella» nelle decisioni politiche [*5]. Ora sappiamo che la «nudge unit» - organismo che consiglia il governo britannico - è riuscita ad imporre la teoria secondo la quale gli individui fortemente limitati da misure severe finirebbero per averne abbastanza e allenterebbero la loro disciplina proprio nel momento in cui essa sarebbe maggiormente necessaria, vale a dire, quando si raggiungerebbe il picco dell'epidemia. Dal 2010, l'approccio economico di Richard Thaler, esposto nel suo libro "Nudge", ha ispirato la «governance efficiente» dello Stato [*6]. Essa consiste nell'incoraggiare gli individui, senza forzarli, «aiutandoli» a prendere le decisioni corrette, vale a dire, attraverso dei condizionamenti suadenti, indiretti, piacevoli ed opzionali, a partire dal fatto che gli individui devono restare liberi di poter fare le loro scelte.
Nella lotta contro l'epidemia. questo «paternalismo libertario» fornisce due orientamenti: da un lato, rifiutare la coercizione nei confronti del comportamento individuale e, dall'altro lato, mantenere la fiducia nei «comportamenti di contenimento»: stare a distanza, lavarsi le mani, isolarsi se si tossisce, se tutto questo è nell'interesse della persona. La scommessa sull'incentivo soave e volontario era rischiosa, in quanto non si basava su dati scientifici che comprovassero la sua rilevanza in quella che era una situazione epidemica. Ebbene, essa ha prodotto il fallimento che sappiamo. Vale la pena ricordare che fino al 14 marzo è stata questa la scelta delle autorità francesi. Fino ad allora, Emmanuel Macron, si è rifiutato di adottare misure di contenimento perché, come aveva affermato il 6 marzo, «se adottassimo delle misure restrittive, nel tempo queste misure non sarebbero sostenibili». Uscendo da teatro, dove si era recato quello stesso giorno insieme alla moglie, aveva dichiarato: «La vita continua. Non c'è motivo per cambiare le nostre abitudini, tranne che per le popolazioni più vulnerabili». Alla base di simili parole, che oggi appaiono irresponsabili, si trovava l'opzione del «paternalismo libertario». Ora, non si può fare a meno di pensare che questa scelta era stata fatta perché era un modo per rimandare le misure draconiane che avrebbero necessariamente interessato l'economia.

Sovranità dello Stato o dei Servizi Pubblici
Il fallimento del paternalismo libertario ha portato le autorità politiche ad una svolta impressionante. Abbiamo cominciato a rendercene conto già dal primo discorso presidenziale del 12 marzo, che ha fatto appello all'unità nazionale, alla sacra unione, e alla «forza d'animo» del popolo francese. Il secondo discorso di Macron, del 16 marzo, è stato ancora più esplicito nella scelta della postura e della retorica marziale: è l'ora della mobilitazione generale, dell'«abnegazione patriottica», dal momento che «siamo in guerra»- Adesso è l'ora dello Stato sovrano che si manifesta nella sua forma più estrema, ma anche la più classica, quella della spada che colpirà un nemico «che è qui, invisibile, inafferrabile, che avanza». Ma nel suo discorso del 12 marzo si è visto anche un altro aspetto, che ci ha sorpreso. Improvvisamente, e quasi miracolosamente, Macron è diventato un difensore dello Stato sociale e della sanità pubblica, arrivando addirittura ad affermare che non è possibile ridurre tutto alla logica di mercato. Molti commentatori e politici, alcuni fra loro di sinistra, si sono affrettati a vedere in questa posizione un riconoscimento di quella che è l'insostituibile funzione dei servizi pubblici. In sintesi, ora ci troviamo di fronte ad una forma di reazione ritardata a quanto ha detto nel corso della sua visita all'ospedale Pitié Salpêtrière, il 27 febbraio: al professore di neurologia che gli chiedeva uno «shock di buona volontà» a favore dell'ospedale, Macron aveva finito col dare una risposta positiva, quanto meno in linea di principio. Il fatto è che le promesse fatte in quella occasione sono state una farsa, poiché le politiche neoliberiste, metodicamente adottate per anni, di fatto non sono state messe in discussione, in modo tale che questo venne immediatamente riconosciuto [*7]. Ma c'è dell'altro. Mel corso della stessa conferenza, il presidente francese ha riconosciuto che «delegare la nostra alimentazione, la nostra protezione, la nostra capacità di fare, il nostro modo di vita alle cure degli altri» è «una follia», e che bisogna «riacquistarne il suo controllo». Questa invocazione della sovranità dello Stato-nazione è stato recepita bene, anche dai neofascisti. La difesa dei servizi pubblici si fonderebbe ora con le prerogative dello Stato: sottrarre la sanità pubblica alla logica del mercato sarebbe un atto di sovranità, che correggerebbe le eccessive concessioni fatte in passato all’Unione europea. Ma è così ovvio che il concetto di servizio pubblico esige, di per sé, quello della sovranità dello Stato! Forse che il primo non è basato sul secondo, ed i due concetti non sono forse inseparabili l'uno dall'altro? Se la questione merita un esame ancora più serio ciò è perché si tratta di un argomento centrale dei sostenitori della sovranità dello Stato. Cominciamo dalla questione della natura della sovranità dello Stato. Sovranità significa appunto «superiorità» (del latino superanus), ma in che senso? Per quanto riguarda le leggi e gli obblighi di ogni tipo, che possono limitare il potere dello Stato, sia nei suoi rapporti con gli altri Stati che nei suoi rapporti con i propri cittadini, lo Stato sovrano si pone al di sopra degli impegni e degli obblighi che è libero di contrarre e revocare a suo piacimento. Ma lo Stato, considerato come persona pubblica, può agire solo attraverso i suoi rappresentanti, che dovrebbero incarnarne una continuità che si trova al di là della durata dell’esercizio delle loro funzioni. La superiorità dello Stato significa perciò effettivamente la superiorità dei suoi rappresentanti nei confronti delle leggi, degli obblighi e degli impegni che possono vincolarlo durevolmente. Ed è questa superiorità ciò che è elevato al rango di principio da parte di tutti i sovranisti. Per quanto sgradevole possa essere questa verità per loro, questo principio vale indipendentemente dall’orientamento politico dei governanti. L’essenziale è che essi agiscano in qualità di rappresentanti dello Stato, qualunque sia l’idea che essi hanno della sovranità dello Stato. Le deleghe successivamente accordate dai rappresentanti dello Stato francese a favore dell’UE lo sono state sovrane, a partire dal fatto che la costruzione dell’UE è dovuta sin dai primi passi all’attuazione del principio della sovranità dello Stato.
Allo stesso modo, anche il fatto che lo Stato francese, come tanti altri in Europa, si sia sottratto ai suoi obblighi internazionali in materia di difesa dei diritti umani, fa parte della logica di sovranità. Dichiararsi difensori dei diritti umani, obbliga gli Stati a creare un ambiente sano e protettivo, ma tuttavia le leggi e le pratiche degli Stati firmatari - soprattutto per lo Stato francese in quella che è la frontiera che condivide con l’Italia - violano tali obblighi internazionali. Lo stessa osservazione può essere fatta per gli obblighi in materia di politiche climatiche, rispetto ai quali gli Stati si comportano allegramente secondo quelli che sono i loro interessi. Anche in materia di diritto pubblico interno, lo Stato non è rimasto indietro. Così, per rimanere e limitarci al caso francese, i diritti dei nativi americani della Guyana vengono negati in nome del principio della «repubblica una e indivisibile», espressione che ci rinvia ancora una volta alla sacrosanta sovranità dello Stato. In definitiva, si tratta solo dell’alibi che consente ai rappresentanti dello Stato di non avere alcun obbligo che legittimi un controllo da parte dei cittadini. Si tratta di un punto che ci aiuterà a chiarire quale realmente sia il carattere pubblico dei servizi cosiddetti «pubblici».
È il significato della parola «pubblico» che deve richiamare qui tutta la nostra attenzione. Non è facile vedere che, in questa espressione, il «pubblico» è assolutamente irriducibile allo «Stato». Il pubblico qui designato non si riferisce alla sola amministrazione dello Stato, ma all’intera comunità,  una collettività costituita dall’insieme dei cittadini: i servizi pubblici non sono servizi statali nel senso che lo Stato potrebbe disporne a suo piacimento, e  non sono nemmeno una proiezione dello Stato, ma sono pubblici nella misura in cui sono «al servizio del pubblico». In questo senso, essi rientrano in quello che è un obbligo positivo dello Stato nei confronti dei cittadini. In altre parole, essi sono dovuti dallo Stato e dai governanti ai governati. Non si tratta di un favore che lo Stato fa ai governati, come avviene nella formula dello «Stato-provvidenza», forma che è controversa in quanto di ispirazione liberale. Il giurista Léon Duguit, uno dei principali teorici dei servizi pubblici, lo aveva fatto notare fin dall’inizio del 20° secolo: a costituire la base di quello che viene chiamato «servizio pubblico», è il primato dei doveri di coloro che governano nei confronti dei governati. A suo avviso, i servizi pubblici non costituiscono una manifestazione della potenza dello Stato, bensì un limite al potere del governo. Sono i governanti ad essere al servizio dei governati [*8]. Questi obblighi, imposti a coloro che governano, si impongono anche agli agenti del governo; e costituiscono la base della «responsabilità pubblica». È per questo motivo che  i servizi pubblici rientrano nel principio della solidarietà sociale, la quale si impone a tutti, e non nel principio della sovranità che è incompatibile con quello della responsabilità pubblica. Di certo, questa concezione dei servizi pubblici è stata rimossa attraverso la finzione della sovranità dello Stato. Tuttavia, è essa che continua a farsi sentire attraverso il fortissimo rapporto che i cittadini intrattengono con ciò che ritengono essere un diritto fondamentale. Gli è che il diritto dei cittadini ai servizi pubblici è la rigorosa contropartita al fatto che la garanzia dei servizi pubblici spetta ai rappresentanti dello Stato. Ciò spiega perché i cittadini dei vari paesi europei colpiti da questa crisi hanno voluto manifestare, in varie forme, il loro attaccamento a questi servizi  che riguardano la lotta quotidiana contro il coronavirus: è stato per questo che i cittadini di numerose città spagnole hanno così applaudito dai loro balconi le équipe dei servizi sanitari, a prescindere dal loro atteggiamento nei confronti dello Stato unitario e centralizzato. Le due cose devono essere accuratamente separate. L’attaccamento dei cittadini ai servizi pubblici, in particolare ai servizi ospedalieri, non è in nessun modo un’adesione all’autorità o al potere pubblico nelle sue diverse forme, ma piuttosto un attaccamento a servizi stessi. o quali hanno come finalità essenziale quella di soddisfare le esigenze pubbliche. Lungi dal manifestare un'adesione all'identità nazionale, questo attaccamento è la prova di un sentimento universale che attraversa le frontiere. E ci rende tutti così tanto sensibili alle difficoltà sofferte dai nostri «concittadini che si trovano ad affrontare una pandemia», siano essi italiani, spagnoli e, in ultima analisi, europei o meno.

L’urgenza di «beni comuni» globali
Non si può credere alla promessa di Macron secondo la quale lui sarà il primo a mettere in discussione «il nostro modello di sviluppo», dopo la crisi. Si può persino legittimamente pensare che le misure drastiche che verranno adottate in materia economica, ripeteranno quelle del 2008. In tal senso, esse punteranno solo ad un «ritorno alla normalità», vale a dire, alla distruzione del pianeta e alla crescente disuguaglianza delle condizioni sociali di sussistenza. In realtà, bisogna temere fin d’ora che l'enorme conto per «salvare l’economia» venga nuovamente presentato ai lavoratori salariati e ai contribuenti più poveri. Eppure, grazie a questa emergenza, è cambiato qualcosa che fa sì che nulla possa più essere come prima. La sovranità dello Stato, con il suo orientamento alla sicurezza e il suo tropismo xenofobo, ha dimostrato il suo fallimento. Lungi dal contenere il capitale globale, ne amministra  la sua azione, esacerbando ancora di più la concorrenza. Due cose sono ormai diventate chiare a milioni di persone. Da un lato, c'è la necessità di trasformare i servizi pubblici in istituzioni comuni capaci di mettere in opera la solidarietà vitale tra esseri umani. Dall'altro, la necessità politica più urgente dell’umanità, che è quella dell’istituzione di beni comuni globali. Dal momento che i rischi sono globali, anche l’aiuto reciproco deve essere globale, le politiche devono essere coordinate, i mezzi e le conoscenze devono essere condivisi, la cooperazione deve essere la regola assoluta. Salute, clima, economia, istruzione, cultura non devono più essere considerate proprietà private o proprietà dello Stato: devono essere considerati beni comuni globali ed essere istituiti politicamente come tali. Una cosa è ormai certa: la salvezza non verrà dall’alto. Solo le insurrezioni, le rivolte e le coalizioni internazionali di cittadini possono imporla agli Stati e al capitale.

- Pierre Dardot e Christian Laval - Articolo pubblicato il 19/3/2020 su Mediapart -

NOTE:

[*1] - Uno dei piani di rilancio tra i più ambiziosi ad oggi è quello della Germania, che rompe brutalmente con i dogmi neoliberisti in vigore dopo la nascita della RFA.
[*2] -    In Nelly Didelot, «Coronavirus: les fermetures de frontière se multiplient en Europe», Libération, 14 mars 2020
[*3] -    Intervista con Suerie Moon: «Avec le coronavirus, les Etats-Unis courent au désastre»,  Le Temps, 12 mars 2020
[*4] - L’équipe di Neil Ferguson ha modellizzato il propagarsi del virus mostrando che il «laisser faire» avrebbe provocato la morte di 510.000 e di 2,2 milioni di persone rispettivamente nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Cf.  Hervé Morin, Paul Benkimoun et Chloé Hecketsweile, «Coronavirus : des modélisations montrent que l’endiguement du virus prendra plusieurs mois», Le Monde, 17 mars 2020.
[*5] -    "To nudge" significa dare una gomitata, o una spintarella. È un incentivo o uno stimolo che mira ad agire senza costrizione sull’individuo.
[*6] -    Richard H. Thaler et Cass R. Sunstein, Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth, and Happiness, Yale University Press, 2008. Cfr. anchd Tony Yates, «Why is the government relying on nudge theory to fight coronavirus?»
[*7] - Cfr. Ellen Salvi, «Emmanuel Macron annonce une rupture en trompe-l’œil», Mediapart, 13 mars 2020.
[*8] -    Léon Duguit, Souveraineté et liberté, Leçons faites de l’Université de Columbia (New-York), 1920-1021, Felix Alcan, 1922, Onzième Leçon, p. 164.

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