Tesi di fondo di questo libro è che nell’antica Roma il pianto è alquanto diffuso e accompagna gli avvenimenti della vita pubblica e privata. Si tratta di esercitare un potere politico e simbolico: per aumentare la loro autorità, senatori, imperatori e brillanti condottieri non esitano a versare lacrime. Esse vengono usate nelle più svariate situazioni: per esprimere la sofferenza del lutto, la volontà di espiazione quando oscuri presagi appaiono minacciosi, la paura di un’esclusione sociale per cui si invoca la tradizione della propria famiglia; per manifestare la propria grandezza d’animo davanti agli sconfitti. L’autrice si sofferma poi sul messaggio politico che le lacrime diffondono, sul momento calibrato in cui compaiono. Esamina con cura testi e tradizioni, sconfessando l’immagine monolitica dei romani come un popolo duro e crudele. Il tema del libro ha un interesse generale, in un momento in cui si recupera lo studio delle emozioni, la loro spontaneità o la loro calcolata esternazione, il loro ruolo nelle traiettorie individuali nelle relazioni interpersonali.
Nel gennaio 2016 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha pianto in pubblico. Sottolineando l’intreccio di forza e debolezza, la stampa si è interrogata: «Obama ha reso accettabile il fatto di piangere in pubblico?» In realtà la novità è meno importante di ciò che lascia intravedere: un’attenzione collettiva verso le lacrime. Il dato che forse colpisce di più è che tale attenzione nasce da una dimenticanza. Le lacrime un tempo erano frequenti, tanto in pubblico quanto in privato. Nella Roma antica fornivano un ausilio imprescindibile al politico, erano l’arma preferita degli oratori e il mezzo con cui distinguersi dal volgo. Contribuivano anche a veicolare i presagi riguardanti la città. Le lacrime, insomma, scorrevano abbondanti tra i romani. Gli imperatori, il popolo, i senatori, i soldati piangono. I dibattiti pubblici, i processi, le ambasciate, tutto è pretesto per riversare emozioni. Più dei greci, che già piangevano abbastanza, i romani hanno la lacrima facile. Essi vengono spesso dipinti come conquistatori spietati (e lo erano). Ma se ne mostrano troppo poco i momenti di fragilità. Così la (cattiva) reputazione dei romani ha scoraggiato finora qualunque ricerca generale sulle lacrime, mentre i lamenti degli eroi greci hanno fatto versare fiumi d’inchiostro. In questa storia della forza romana al rovescio bisogna accettare di non riconoscersi, di rimanere spaesati. I comportamenti sociali dei romani, tanto spesso punteggiati di lacrime, ci disorientano. Ma fare un passo di lato permette di vedere più chiaro.
(dal risvolto di copertina di: Sarah Rey, "Le lacrime di Roma. Il potere del pianto nel mondo antico". Einaudi)
Senatori, imperatori, condottieri (e pure dei): ma quanto erano piagnoni questi Romani
- di Giorgio Ieranò -
Piangevano tutti nell’antica Roma. Piangevano gli oratori nel Foro, le prefiche ai funerali, gli avvocati in tribunale. Piangevano i condottieri davanti alle città distrutte, piangeva Giulio Cesare dopo avere varcato il Rubicone. Piangevano persino le statue delle divinità, anticipando di qualche secolo le nostre Madonne e i nostri santi. Scorrendo il breve ma efficace libro di Sarah Rey l’antica Roma ci appare come una società di piagnoni.
Noi, per lunga tradizione o per vaghe memorie scolastiche, tendiamo a immaginare gli antichi romani come uomini virilmente impassibili, educati a dominare le passioni e il dolore: uomini che non devono piangere mai, tutti simili a Muzio Scevola quando metteva la mano sul braciere. Semmai i pianti li consideriamo prerogativa dei greci, a partire dai loro eroi più illustri, come Achille e Ulisse, che versano lacrime copiosamente in ogni occasione. «I romani non erano teneri di cuore», scriveva il grande storico Ronald Syme. Eppure Rey ci mostra l'antica Roma come un mondo dove la commozione veniva esibita, e dove il pianto e il lamento avevano un ruolo sociale più significativo di quanto penseremmo. Lo stesso vocabolario delle lacrime è, in latino, vasto e variegato: lugere, flere, plorare, plangere sono solo alcuni tra i molti verbi che indicano diverse modalità di pianto. Così come diversi sono i momenti deputati all'esibizione del dolore. Che si pianga a un funerale può apparire ovvio: ma non è ovvio il complesso apparato del lamento che veniva allestito nei riti funebri romani, con il necessario contorno di prefiche e lamentatrici professioniste.
I casi di Marco Claudio Marcello che piange mentre i suoi legionari saccheggiano Siracusa, o di Scipione Emiliano, che scoppia in lacrime nel momento in cui sta per distruggere la gloriosa Cartagine, antica nemica di Roma, appartengono al genere del lamento sulla sorte effimera degli uomini e sulla fugacità delle glorie terrene. Possono ricordare le lacrime del persiano Serse, colto da sconforto mentre ammirava lo spiegamento della sua immensa armata pronta ad attaccare la Grecia: a chi gli chiedeva ragione del suo pianto, Serse, come narrava Erodoto, rispose di essere turbato dal pensiero che quegli uomini così baldi e giovani, prima o poi, sarebbero tutti morti.
Quando invece Cesare si presenta ai suoi soldati piangente e con le vesti strappate, subito dopo avere attraversato il Rubicone, questo è un uso politico delle lacrime che trova molti paralleli nella storia romana. Il buon leader deve commuoversi per riuscire a commuovere le folle. Il demagogo e il popolo devono essere uniti da un vincolo emotivo. Era nota, per esempio, la forza patetica dei discorsi dei tribuni della plebe Tiberio e Caio Gracco, che facevano ampio ricorso ai toni lamentosi: ce lo ricorda Cicerone che, a sua volta, non risparmiava l'emotività quando c'era da difendere un cliente in tribunale. Se gli uomini si comportavano così, non stupisce che lo facessero anche le divinità: il caso della statua di Apollo che, a Cuma, nel II secolo a.C., singhiozza per tre giorni e tre notti di fila è solo un episodio tra i tanti. La differenza rispetto ai giorni nostri, è che ogni pianto della divinità era considerato un annuncio di disastri e cataclismi. Certo, c'era anche chi stigmatizzava questa inclinazione al pianto. Erano soprattutto i filosofi, stoici o epicurei, che richiamavano la necessità dell'autocontrollo, caratteristica principale del sapiente. Diceva Seneca: «Se non possiamo evitare le lacrime, dobbiamo almeno dosarle». Cioè piangere solo quando ce n'è bisogno, e non fare, aggiungeva il filosofo, come gli spettatori del teatro, che si lasciano commuovere troppo facilmente. Proprio in questo riferimento al teatro c'è forse la chiave più autentica per spiegare la vocazione al pianto degli antichi romani. Il teatro è, per eccellenza, il luogo delle emozioni. Il luogo dove, come diceva Aristotele, tutto è affidato alla capacità patetica di suscitare «compassione e terrore», eleos e phobos. E dove, come racconta un aneddoto antico, perfino un feroce tiranno come il tessalo Alessandro di Fere scoppiava in lacrime, assistendo a una tragedia che metteva in scena i dolori della regina Ecuba.
Ma anche un discorso politico, un'arringa in tribunale e perfino una cerimonia funebre sono momenti caratterizzati da una forte dimensione di teatralità. Più di una volta i romani paragonano l'oratore a un attore: l'uomo politico o l'avvocato agiscono come commedianti sulla scena. I loro lamenti sono teatrali, i loro pianti sono sempre a uso e consumo di un pubblico. Come diceva lo stesso Seneca, con la sua consueta acutezza psicologica: «Molti si effondono in lacrime per farne mostra. Tutte le volte che invece non c'è uno spettatore i loro occhi restano secchi». E allora, forse, guardando agli antichi, possiamo capire meglio anche alcuni aspetti dell'oggi. Come, per esempio, i pianti esibiti a beneficio delle telecamere. Già i romani, a modo loro, ci danno il pessimo esempio di una società dove il dolore diventa spettacolo.
- Giorgio Ieranò - Pubblicato su Tuttolibri del 7/3/2020 -
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