L'utopia nera della concorrenza totale
- di Robert Kurz -
Non c’é alcun dubbio che il mercato totalitario, nel modo in cui lo conosciamo, come condizione e come sfera funzionale del capitalismo, abbia come padre lo Stato totalitario dei regimi assolutisti con i suoi apparati burocratici. Pertanto, l'imprenditorialità capitalistica privata, nata dal commercio mondiale e dal lavoro domestico dato in appalto, è stata anche un piccolo mostro scaturito da questa costellazione socio-storica. Tuttavia, non può essere omesso che la nuova figura sociale del «padrone della fabbrica» privata doveva acquisire una propria dinamica, sempre più crescente nel contesto dei mercati in crescita. Nella stessa misura in cui la logica di fare soldi, avviata dall'assolutismo, cominciò ad appropriarsi della riproduzione sociale e divenne un mediatore delle relazioni sociali, sviluppando inevitabilmente su questo nuovo terreno della società una struttura di quelli che erano gli «interessi» specifici dei vari funzionari.
I grandi mercanti del Rinascimento avevano già sviluppato una notevole sicurezza in relazione alle casate principesche dell'inizio dell'età moderna. Ben presto, anche i responsabili dei lavori in quelle che erano le imprese di lavoro domestico ed i capitalisti delle manifatture fecero rapidamente lo stesso. In una società sempre più dinamica, gli interessi particolari dell'individuo acquistavano sempre più forza. L'imprenditorialità che aspirava all'economia di mercato si era assicurata una forte posizione sociale, smettendo allo stesso tempo di rimanere vincolata alla struttura tradizionale della gerarchia autoritaria. Questo nuovo tipo di «signori svincolati» non si rivolgeva indietro, alle grandi e antiche tradizioni familiari, ma al contrario, assai spesso sorgeva dalla marmaglia del «popolo».
L'evidente disgusto per queste figure, esibito per esempio nella galleria della Comédie Humaine di Honoré de Balzac (1799-1850), ha nutrito per molto tempo quello che è stato il risentimento conservatore e retrogrado della vecchia autorità. Da allora in poi, le ideologie della «pari opportunità» e della concezione elitaria reazionaria (in origine aristocratica), le ideologie del conservatorismo statale e della libertà economica sono state in competizione fra loro in quello che è stato l'imbroglio socio-economico per stabilire quale fosse la dottrina che produce i peggiori personaggi e le peggiori conseguenze; una tale nobile competizione doveva rimanere senza un vincitore. In ogni caso, anche l'imprevedibile mobilità del denaro aveva cominciato a rendere mobile la struttura sociale. Il clima del declino sociale, dello spossessamento e dell'impoverimento per molti era, allo stesso tempo, il contesto per l'ascesa di pochi: per i gentiluomini di fortuna, per i furbi, per quelli che si fanno largo a gomitate, gli arricchiti furiosi e le «persone di successo».
Queste creature del mercato, che si considerano soggetti della «nuova mobilità», si sentono anche sempre più costrette ed assediate dal regime burocratico statale degli apparati assolutisti. Per cui, hanno dovuto produrre la loro propria ideologia di dominio, che non solo ha legittimato i loro interessi specifici, ma ha anche formulato una spiegazione del mondo ed un'immagine complessiva dell'essere umano, che da allora e fino ad oggi è diventata egemonica per tutto il pensiero occidentale della modernità, ed è più dominante che mai. Ed ancora più interessante è scoprire le radici storiche di questa ideologia dell'economia di mercato del cosiddetto liberalismo.
Già il nome stesso non solo è fuorviante, ma costituisce una perfida distorsione. Poiché questa attività e questa mentalità, che fino ad allora erano state considerate da tutti i popoli ed in tutte le ere come le più basse e le più spregevoli, vale a dire, la trasformazione del denaro in più denaro visto come un fine in sé, insieme al lavoro salariato dipendente ivi incluso e, pertanto, l'indicibile auto-disprezzo del doversi vendere, tutto questo è stato riformulato come se si trattasse della quintessenza della libertà umana. Questo insudiciamento del concetto di libertà, culminato nell'elogio dell'auto-prostituzione, ha fatto, in tutta la storia del pensiero umano, quella che è stata la più sorprendente carriera.
Una società di mostri
Il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) può essere descritto come il primo grande patriarca del liberalismo. Il fatto che Hobbes sia allo stesso tempo un teorico dell'assolutismo non è in alcun modo una contraddizione. La coincidenza indica solamente che esiste qualcosa in comune fra assolutismo e liberalismo; non c'è da stupirsi, dal momento che entrambi appartengono a quello che è il medesimo movimento di attivazione storica del denaro e del «lavoro astratto». Il liberalismo deriva dall'assolutismo, contiene anch'esso un momento totalitario e, in ultima analisi, è solo una variante dello stesso assolutismo moderno; solo che rappresenta un totalitarismo del mercato fondato più «economisticamente», al quale le persone devono sottomettersi in maniera incondizionata. Come è accaduto tante volte nella storia, la svolta attuata dal liberalismo contro la dottrina assolutista dello Stato autoritario non costituisce un parricidio messo in atto nel contesto della medesima costellazione storico-sociale, dal momento che non costituisce una differenza essenziale.
In Hobbes, il parricidio non è ancora avvenuto; egli fornisce ancora quelle che sono le basi per entrambe le varianti dell'ideologia della modernizzazione capitalistica. Allo stesso tempo, riflette in maniera chiaroveggente quella che è l'atomizzazione degli esseri umani che avviene per mezzo della logica del denaro, che nel XVII secolo si stava sviluppando solo in modo embrionale. Mentre la società premoderna integrava ancora gli individui e le loro attività di sussistenza all'interno di un «cosmo» assai spesso crudo e limitato, in un'entità culturale che forniva sia controllo sociale che un certo grado di sicurezza, la modernizzazione capitalista tende a dissolvere completamente ciascuna comunità, sostituendo ciò che è comune e culturalmente determinato, insieme all'obbligo reciproco, con una pura relazione monetaria. In questo modo, la socialità delle persone, assurdamente, ora non sembra più essere delle persone, bensì delle cose. Pertanto, anche il controllo sociale non viene superato, ma reificato, «senza soggetto» e non più negoziabile personalmente, vale a dire che è più impietoso che mai. In questo sistema paradossale, ogni essere umano, in quanto essere sociale, è, da principio, un «individuo isolato», anche se allo stesso tempo la divisione delle funzioni e la complessità sociale aumentano costantemente. O, per dirlo con Margaret Thatcher: «Non c'è società, ci sono solo gli individui». Indipendentemente dal fatto che ai suoi tempi la cooperazione sociale fosse ancora molto diversa e non ancora completamente decomposta dalla logica del denaro, Hobbes vedeva già l'essere umano «rivolto al futuro», come un individuo astratto che lotta per la propria autopreservazione individuale: «Il diritto di natura, al quale gli autori generalmente si riferiscono chiamandolo jus naturale, è la libertà che ciascun uomo possiede di usare il proprio potere, nella maniera che desidera, per la preservazione della propria natura, vale a dire, della sua vita; e di conseguenza di fare tutto quello che il suo giudizio e la sua ragione gli indicano come mezzi adeguati a tale fine.» (Hobbes).
Hobbes inoltre non lascia dubbi circa quale sia la natura di questa «libertà» della quale i cittadini possono godere: «Essi hanno la libertà di comprare vendere, o comunque di stipulare contratti fra di loro». Le persone non devono mai avere la libertà di comportarsi cooperativamente secondo quelli che sono i loro bisogni ed i loro accordi, ma devono farlo solo sotto i dettami dell'economia monetaria; e questo doveva rimanere fino ad oggi un tratto caratteristico del liberalismo, il quale persegue con sospetto ogni cooperazione ed ogni associazione sociale che minacci di abolire l'impotenza dell'«individuo isolato» contro le leggi del denaro, e deve cercare di fermarlo, se necessario, cercando di impedirglielo amministrativamente, o perfino violentemente. Nel suo linguaggio orwelliano, egli chiama libertà proprio quella che è questa mancanza di libertà e questo disperato isolamento.
Ma dal momento che la generalizzazione delle relazioni monetarie era possibile solo attraverso la costituzione di mercati anonimi e su larga scala, assieme alla tendenza all'isolamento totale, essa deve recare in sé anche la tendenza alla concorrenza totale. Dal momento che il confronto anonimo e socialmente incontrollato delle merci dei produttori distanti gli uni dagli altri, che oramai non si trovano più in alcun rapporto comunicativo fra di loro, innesca e scatena la cosiddetta «legge della domanda e dell'offerta»: le merci devono essere in concorrenza fra di esse attraverso il prezzo, ragion per cui la produzione si trova ad essere soggetta anche alla silenziosa compulsione della concorrenza. Ciò significa che il contesto sociale degli «individui isolati» viene stabilito solo negativamente dalla concorrenza economica. Qualsiasi branco di lupi è più socialmente organizzato di quanto lo siano le persone nell'economia di mercato. Pertanto, va rifiutata come una calunnia nei confronti dei lupi parlare della «legge dei lupi della concorrenza».
Hobbes aveva presentito questa logica della concorrenza, senza considerarla come fondamentalmente criticabile. In questo modo ha potuto diventare l'ideologo nucleare del liberalismo poiché ha generalizzato radicalmente quelle che erano le sue osservazioni in una cupa immagine dell'essere umano, ignorando il fatto che egli non stava descrivendo la «natura» della società umana in quanto tale, ma semmai il risultato storico di un processo nel quale le prime insorgenze della moderna economia di mercato avevano cominciato a corrompere tutte le forme di cooperazione sociale volontaria ed autodeterminata. In tal modo, Hobbes ha presentato l'essere umano come un essere egoista per principio, che viene supposto essere «per natura» più solitario di un animale: «Del resto, gli uomini non traggono alcun piacere dalla loro reciproca compagnia (ma, al contrario, un enorme dispiacere), quando non esiste un potere in grado di imporre a tutti il rispetto. [...] In modo che nella natura dell'uomo troviamo tre cause principali di discordia. La prima, la competizione; la seconda, la mancanza di fiducia; e terza, la gloria. La prima porta gli uomini ad attaccare gli altri a scopo di lucro; la seconda, alla sicurezza; e la terza, la reputazione. I primi usano la violenza per diventare signori delle persone, mogli, figli e greggi di altri uomini; i secondi, per difenderli; e i terzi per delle sciocchezze [...]. Con questo diventa evidente che, durante il tempo uin cui gli uomini vivono senza un potere comune in grado di imporre il rispetto a tutti, essi si vengono a trovare in quella condizione che si chiama guerra; e una guerra che è di tutti contro tutti».
Secondo Hobbes, questa «guerra di tutti contro tutti» (bellum omnium contra omnes), è lo «stato naturale» del genere umano, che presume lo si possa trovare, culturalmente puro, dappertutto laddove non esiste ancora addomesticamento istituzionale. E affinché non rimangano dubbi che si tratta di una cieca determinazione da parte delle forze della natura, nella versione latina arriva perfino a fare una comparazione animale chiarificatrice: «E perché le persone, tuttavia dotate di ragione, hanno bisogno di più prove. quando perfino i cani sembrano capire di cosa si tratta: latrano contro chi appare sulla strada, durante il giorno ad ogni sconosciuto, ma la notte a chiunque».
Quest'immagine dell'essere umano, presa letteralmente dal cane, continua tuttora ad essere il credo del liberalismo. Il soggetto della concorrenza, a cui l'economia di mercato degrada l'individuo, diventa la legge di natura della coscienza umana, e così, in questo modo, l'economia di mercato, che è chiaramente storica, viene ridefinita come se fosse una «forma naturale» sovra-storica delle relazioni sociali. Con perfida astuzia, si può supporre che tutti quelli che non intendono obbedire a questa immagine canina dell'uomo «commettano peccato contro natura». 120 anni dopo Hobbes, anche Adam Smith parla della «tendenza o alla propensione della natura umana a barattare o a scambiare una cosa per un'altra», da cui sarebbe sorta la divisione del lavoro e, pertanto, la cultura.
Per più di tre secoli, per quanto possano essere le sue varianti, in tutti gli ideologhi del liberalismo troviamo ripetutamente la medesima costruzione di base: la «naturalizzazione della società, la biologizzazione o la fisicizzazione dell'economia di mercato e della concorrenza economica. E, dal momento che è così bella, non può mancare una sacrosanta immagine di pace tratta dalla recente «Rivoluzione della Libertà" dell'Europa dell'Est, incarnata in Vaclav Havel: «Principalmente, e al di sopra di tutto: in tutta la mia vita non mi sono mai identificato con una qualche ideologia, dogma o dottrina, sia di destra, che di sinistra, o di qualsiasi altra cosa [...] Per quanto il mio cuore abbia sempre battuto a sinistra, ho sempre saputo che l'unica economia funzionale e possibile è l'economia di mercato [...] Solo una simile economia è naturale [...] Per me, l'economia di mercato è una cosa altrettanto evidente dell'aria, si tratta di un principio dell'attività economica dell'essere umano che è stato sperimentato e testato per secoli (che dico? Millenni!) e che corrisponde alla natura umana». Anche qui ad affascinare è nuovamente l'insolenza con cui una persona si dichiara libera dall'ideologia e, allo stesso tempo, ripete in maniera avventata quella che è la versione originale di quello che è tutto il pensiero ideologico della modernità, arrivando ad avere una particolare visione del mondo e dell'essere umano che coincide con il più rigido dottrinarismo della «natura umana concepibile».
Non ci vuole molto a confutare questa dottrina. È da tempo che storici, etnologhi e antropologhi hanno dimostrato migliaia di volte che l'affermazione di Adam Smit, circa la «tendenza naturale» dell'essere umano a scambiare merci, è del tutto infondata, e che la divisione sociale del lavoro è sorta in maniera completamente diversa, all'interno delle piccole comunità che non si basavano sullo scambio di merci. Analogamente, è facile dimostrare che l'egoismo astratto dell'essere umano monetario, inteso dai liberali come un postulato, è un paradosso, dal momento che in quasi tutte le cose, il benessere umano è possibile solo attraverso la soddisfazione delle relazioni sociali, in uno spazio di sicurezza sociale. E, in realtà, quello che è inerente all'uomo capitalista, è un alto grado di autodistruzione.
Per prendere posizione contro il liberalismo, non va sviluppata, in alcun modo, un'immagine idealista, sentimentale, altruista, e pertanto ingenua, dell'essere umano. Ma quella che è la tensione antropologica tra personalità individuale e organizzazione sociale, non deve assumere necessariamente la forma folle del capitalismo, e per quello che corrisponde ad oltre il 99% della storia umana ciò non è avvenuto. Il fatto che le persone sociali discutano in quanto individui, e che possono stabilire quelle che sono le loro condizioni comuni di esistenza attraverso un processo comunicativo, non corrisponde affatto alle «leggi del mercato» ed alla forma della circolazione del denaro. E il fatto che i singoli esseri umani sviluppano qualità come il coraggio o la vigliaccheria, l'ambizione o l'invidia, la simpatia o l'antipatia, e che le necessità e i gusti siano differenti - tutto ciò non presuppone la logica della concorrenza economica, né viene da essa provocato, ed emerge solo a partire dal XVI e dal WVII secolo. E anche il fatto evidente che le persone non desiderano lavorare per niente, nemmeno per beneficenza, non viene meno nella specifica relazione di scambio di equivalenza astratta tra monete concorrenti; sono possibili, e storicamente osservabili, forme completamente diverse di reciprocità sociale non determinate dalla concorrenza. Al contrario, sono proprio le «leggi della concorrenza», così come le ha prodotte il capitalismo, a costringere continuamente la maggior parte degli individui in condizioni che riducono la loro partecipazione alla produzione sociale, come non è avvenuto in nessuna altra forma di società.
Il modello nero del liberalismo colloca l'essere umano ancora più al di sotto del mondo animale, poiché nemmeno gli istinti animali sono condizionati da questa «guerra di tutti contro tutti», come avviene in Hobbes. Il «diritto del più forte» è la conseguenza interiore di questa «libertà», nella quale il criterio precedente è sempre la capacità di un'imposizione che avviene nella banalità delle relazioni di mercato, di modo che questa definizione di «forza» predilige un soggetto particolarmente meschino. Il razzismo ed il fascismo sono solo la continuazione, fatta con altri mezzi, di questa ideologia liberale della concorrenza, che trasferisce lo schema concorrenziale del liberalismo ai gruppi etnici, ai «popoli» e ad altri soggetti collettivi irrazionali. In tal senso, non è affatto esagerato descrivere il fascismo come un discendente storico del liberalismo, il quale è egemonico in quella che è l'ideologia della modernizzazione vista nel suo insieme.
In ultima analisi, ciò vale anche per la questione dello Stato repressivo e dei suoi apparati di amministrazione umana. Avendo condannato gli esseri umani, in quanto monadi esistenziali, al bellum omnium contra omnes, Hobbes doveva trovare quel «potere superiore» che avrebbe addomesticato nella socialità negativa il supposto macaco predatore umano. Affinché, nella loro concorrenza assassina, gli individui astratti non si facessero completamente a pezzi, né si mangiassero l'un l'altro, egli costruì perciò lo Stato, in quanto forza coercitiva necessaria che deve stare al di sopra dell'individuo, e al quale diede il nome del mostro biblico «Leviatano». I tanti piccoli mostri dell'individualismo della concorrenza dell'economia di mercato devono essere addomesticati dal grande mostro totale dello Stato «Leviatano», e incatenati a vista, in modo che possano stipulare contratti fra di loro senza scagliarsi l'uno contro l'altro con i propri denti, artigli e coltelli. Una deliziosa forma di socialità che né i pigmei né gli aborigeni, e nemmeno le orde di Gengis Khan hanno mai conosciuto. Ma per il pensiero moderno (non solo per quello liberale, ma anche per quello conservatore e radicale di destra), questo motivo di «addomesticamento istituzionale dell'uomo predatore» è diventato costitutivo, ad esempio, nel XX secolo, nella versione antropologicamente sofisticata di Arnold Gehlen (1904-1976).
Naturalmente, il «Leviatano» è un'istituzione di comunione culturale e sociale altrettanto poco di quanto lo sia la selva sociale del mercato. Dal momento che lo Stato non elimina la concorrenza totale; si tratta solo di una violenza repressiva ed esterna a quelli che sono i combattenti sociali isolati, si tratta di un apparato che costruisce condizioni improvvisate di inquadramento comune per i soggetti deliranti del mercato. Dai tempi di Hobbes, tutto questo non è cambiato. E la cosa terribile è che gli individui umani, dopo più di 400 anni di economia di mercato, oggi suppongono ancora di essere quei folli macachi predatori ai quali sono stati dichiarati di appartenere ideologicamente, anche se la maggioranza di loro, in realtà, non sono altro che foraggio vivente per il processo di valorizzazione del capitale. Hobbes non era un esperto di «natura umana», ma un profeta amaro e sinistro dell'economia di mercato. Con l'idea del «Leviatano», Hobbes, naturalmente, ha dato sostanza all'assolutismo. È stato considerato come un propagandista della Corona e delle tendenze allo Stato assoluto, che in Inghilterra erano fortemente pronunciate. Per cui non stupisce che, dopo l'esecuzione di Carlo I (1649), anche il dittatore repubblicano e fondamentalista Oliver Cromwell (1599-1658) abbia apprezzato. Infatti, la teoria della società e dello Stato di Hobbes non era fissata ad un determinato tipo concreto e, pertanto, è stata in grado di fornire il modello di base per tutti i moderni tipi di società e forme di Stato, per mezzo delle modifiche e le mitigazioni costituzionali, ad esempio, attraverso il suo successore John Locke (1632-1704). Tale schema astratto è rimasto lo stesso, e ancora oggi le sue premesse vengono ripetute con la medesima rigidità dai principali liberali. In questo modo, un liberale contemporaneo come Ralf Dahrendorf tralascia il suo tono riflessivo, generalmente soave, in modo che così possa arrivare all'essenziale, e attacca l'idea di Marx dell'«associazione di persone libere» e l'idea di Habermas di una «comunicazione senza dominio», con un gesto contorto dalla rabbia: «Ma tutte queste esperienze sono illusioni. Nella pratica, tutte le associazioni sociali esigono dominio, e questa è una cosa buona [...] Qualsiasi storia che ci raccontano gli etnologhi a proposito di "tribù senza dominanti" è poco plausibile [...] Società significa dominio [...] La società non è piacevole, ma è necessaria».
Qualsiasi realtà storica e qualsiasi pensiero al di fuori dell'immaginazione condizionata dall'economia di mercato è «poco plausibile», e «se necessario» può essere spazzata via - non ne dubitiamo - per mezzo dei carrarmati e delle mitragliatrici. La società dev'essere, e deve rimanere, ciò che il capitalismo ne ha fatto: l'indigenza «necessaria», amara e artificialmente generata, che costringe l'individuo ad arrendersi alla «necessità» dettata dal mercato mondiale. Nel frattempo, anche l'ex sinistra occidentale, che si è trasformata in questo «realismo» capitalista, sta mettendo in evidenza questo punto nel modo in cui, con tremore antropologizzante, è riuscito a pronunciare un illustre vicepresidente verde del Bundestag tedesco: «Tutto comincia con i desideri dell'essere umano . Tutto comincia con la penuria. Tutto comincia con il fatto che l'essere umano non è da solo. Tutto comincia con l'inevitabile situazione concorrenziale relativa a tutti quelli che sono le basi dell'esistenza. Alimentazione, amore familiare, lavoro, spazio, aria per respirare, riconoscimento e dignità umana, tutto scarseggia [...] Pertanto, tutta la violenza proviene dall'intensità con cui desideriamo qualcosa e dal fatto che ci incontriamo con esseri umani simili a noi che condividono con noi gli stessi desideri con la stessa intensità. Perciò, la violenza in realtà è conseguenza della lotta per l'esistenza, come ha detto Nietzsche. La stranezza in questo processo consiste nel fatto che la lotta per l'esistenza non si infiamma solo nei momenti di necessità materiale, ma essa è possibile in qualsiasi momento nel quale semplicemente una situazione concorrenziale è data oppure sentita» (Vollmer, 1996).
Forse perfino Hobbes rimarrebbe imbarazzato da un'argomentazione talmente grossolana, visto che la sua premessa misantropica non era ancora semplicemente in cortocircuito con gli assiomi dell'economia capitalista. La modalità di argomentazione di Vollmer, la quale non rappresenta altro che una trasparente razionalizzazione di quella che è stata la sua stessa mutazione ideologica, si fa beffe di ogni conoscenza delle società storiche. Una concorrenza all'interno della società per cose come «il cibo», al di fuori di una situazione estrema di catastrofe naturale, sarebbe apparsa assurda a tutte le persone precapitaliste: non «dover mangiare tutto», e dare i resti ai maiali, veniva considerato come il minimo livello di autostima, perfino da quelli che erano i contadini più poveri. E gli effetti violenti della passione, come le azioni di guerra, neppure sotto tortura sarebbero stati giustificati a partire da una «concorrenza a causa della penuria», o dal piacere del «lavoro». Perfino l'«aria da respirare», nel senso di uno spazio personale su larga scala o di uno spazio sociale libero dalla concorrenza, la maggior parte delle persone l'ha sottratta al «profondo» principio della concorrenza capitalista e alla meschina contabilizzazione e all'attribuzione all'economia di mercato; per quel che attiene all'aria respirabile letteralmente fisica, la signora Vollmer riesce perfino ad anticipare quello che è il sistema di produzione delle merci, sebbene stia senza dubbio energicamente lavorando per trasformare perfino un «bene» talmente elementare in un «bene scarso» che possa essere razionato per mezzo dell'economia di mercato.
Nella storia dell'imposizione dell'economia di mercato, non solo il cibo, ma anche la violenza auto-affermativa sono diventati miserevoli. Hobbes (come più tardi Nietzsche) aveva in mente quanto meno la narrazione cupamente grandiosa di un vero predatore, mentre la concorrenza del ratto di Vollmer, per il formaggio, amore, «lavoro» e possibilmente perfino per briciole d'aria arriva ad essere un insulto anche per un'onesta misantropia. Il liberalismo costituzionale (e più tardi, nel XX secolo, democratico), nella storia delle idee, segna un punto di una bassezza insuperabile, degradando sia quelle che sono le ragioni della violenza quanto la loro critica, portandole al livello della malvagità finanziaria piccolo-borghese e di una sottomessa ed esasperata «paura di avere qualche seccatura» da parte delle autorità di polizia.
Più tardi, con il passaggio esplicito dall'egoismo individuale alla motivazione puramente concorrenziale dell'economia di mercato, e alla sua giustificazione in quanto motivazione «naturalmente necessaria», il liberalismo alterava quello che era l'equilibrio presente nella costruzione disumana di Hobbes. Hobbes stesso non era ancora arrivato ad argomentare «economisticamente» nel suo vero senso, dal momento che era rimasta aperta un'interpretazione assolutista o mercantilista del «Leviatano», visto come imprenditore capitalista virtuale totale. Da parte sua, il liberalismo non solo aveva assunto l'immagine dell'essere umano di Hobbes, ma anche quello che era il costrutto del «Leviatano», visto che il soggetto economico dell'imprenditorialismo capitalistico era stato introdotto come se si trattasse solo di un polo «necessariamente» indipendente. Pertanto, la dottrina liberale che aveva seguito Hobbes e che aveva ampliato la sua argomentazione si era solo limitata ad aggiustare in senso funzionalista la relazione fra economia di mercato e Stato, elaborando la dinamica propria alla concorrenza ed ai suoi soggetti, senza abbandonare il «Leviatano» in quanto forza di dominio. Il grande mostro deve garantire, repressivamente, il libero gioco delle forze della concorrenza, tanto a livello esterno quanto a livello interno. Riguardo all'ideale liberale, lo Stato può e deve continuare la concorrenza all'esterno, nella giungla delle nazioni predatorie, con mezzi militari, a partire dalle conquiste coloniali fino ad arrivare al massacro della signora Tatcher nelle Falkland. Inoltre, internamente, può e deve, ma deve incondizionatamente, con il pugno di ferro di un apparato di violenza fortemente armato, impedire alle vittime della concorrenza di organizzare una loro vita che possa essere differente da quella che viene loro imposta a partire dai dettami delle «leggi di mercato». Non c'era bisogno di un Pinochet per dimostrare che la dittatura sanguinosa, lo Stato di polizia e gli squadroni della morte sono veramente compatibili con un liberalismo economico coerente con una «libera» economia di mercato.
Il liberalismo ha così poca fiducia negli effetti benefici della sua stessa «libertà» da dover continuamente riaffidarsi al «Leviatano»: poiché da un lato considera l'«essere umano», vale a dire, tutte le persone senza alcuna eccezione, come dei combattenti isolati, che lottano fra di loro con un odio mortale, e che hanno bisogno dell'apparato dello Stato come moderatore per poter vivere; ma, dall'altro lato, il Leviatano viene usato anche per tormentare e flagellare tutti coloro che non si piegano e non si adeguano a quella che è l'immagine negativa dell'essere umano alla quale devono corrispondere, perché sanno che sono capaci di immaginare altre cose.
È per questo che il liberalismo non solo è emerso dal cervello dell'assolutismo, ma è anche in grado di tornare ad assumere, in qualsiasi momento, una forma assolutista. A questo proposito, inoltre, tanto il fascismo quanto il socialismo di Stato (e tutte le dittature modernizzatrici in generale) sono stati solo delle varianti o delle manifestazioni del Proteo liberale, il cui denominatore comune, come lo era già nella forma originale del XVI e del XVII secolo, è sempre stato l'ampliamento - e la pretesa socialmente usurpatrice - della forma merce e delle relazioni monetarie verso un'«economificazione» o una «valorizzazione» tendenzialmente totale della società.
Allo stesso modo delle forme originali dell'assolutismo e del liberalismo storico in Occidente, anche le origini del socialismo di Stato o della «liberazione nazionale» della modernizzazione ritardata nell'Est e nel Sud del mondo consideravano le popolazioni dei loro Stati come una «forza lavoro totale astratta», che doveva essere mobilitata e regolata ai fini della «creazione di valore» economico nazionale, indipendentemente dal benessere di tali popolazioni. E proprio allo steso modo in cui avveniva per la libera concorrenza dell'Occidente, che ha sempre comportato enormi apparati burocratici di Stato, anche la pianificazione burocratica dell'assolutismo tardivo del socialismo di Stato non poteva fare a meno di elementi di «incentivi monetari individuali», di concorrenza economica imprenditoriale e riforme dell'«economia di mercato». Dovunque, le persone vengono addestrate come se fossero animali da circo, per mezzo dei trucchi del denaro e del «lavoro astratto», bisogna anche che i domatori li minaccino con la frusta nel nome del potere e li blandiscano con mielose caramelle compensative. Sia storicamente che strutturalmente, il contrasto tra mercato e Stato, tra capitale privato ed economia statale, tra élite economiche e politiche è sempre e solo la tensione tra i due poli dello stesso campo sociale, con possibili balzi in qualsiasi momento. Il passaggio, quasi morbido e dolce, delle élite funzionali del socialismo di Stato al radicalismo neoliberista del mercato, dopo il 1989, non è affatto sorprendente. Il Proteo della «modernizzazione» ha solo cambiato forma ancora una volta, ma non ha cambiato la sua natura interiore. Fissarsi sulla mera opposizione esterna tra ideologia di mercato e ideologia di Stato è, per così dire, un trucco storico ed è un gioco di assolutismo-liberismo visto nella sua duplice natura cangiante. Si è capito come fare ad attrarre i movimenti di liberazione sociale in una trappola logica e culturale e, alla fine, cacciare ed uccidere il coniglio dell'emancipazione, stritolandolo in mezzo ai due porcospini dell'individualità monetaria e del potere statale.
Mentre Hobbes, come patriarca di questa ideologia, rappresentava ancora allo stesso modo entrambi i momenti, dopo di lui, da allora in poi, la polarità della «modernizzazione» repressiva è stata differenziata secondo i paesi e le epoche: l'Inghilterra, e più tardi il mondo anglosassone visti come un tutto sono considerati come se fossero la patria del liberalismo economico, mentre il continente europeo (in particolare la Germania) e l'Oriente vengono visti come la patria dell'assolutismo statale, sebbene i due elementi della moderna pretesa di potere siano entrambi permeati e condizionali l'uno dall'altro in tutti i modi. Il fatto che l'Inghilterra abbia svolto questo ruolo può essere spiegato a partire dalla storia, che Hobbes ha testimoniato ed interpretato: se, a partire dalla guerra civile inglese del XVII secolo (e di certo dando uno sguardo di traverso alla Guerra dei Trent'anni nel continente), egli ha rappresentato, in quanto pensatore disperato, la propria immagine atrofizzata dell'essere umano, i risultati di questa guerra civile avvenuta nel 1688, con la restaurazione moderata di una monarchia controllata parlamentarmente, che ha lasciato ai «signori privati» un sufficiente margine per le loro disastrose imprese, hanno fornito il punto di partenza sociale per lo sviluppo del liberalismo; dal momento che allora, in contrasto con il continente, nessun assolutismo centrato su un'economia statale avrebbe potuto emergere in Inghilterra, bensì una iniziativa privata orientata al mercato mondiale e appoggiata dallo Stato, il quale, evidentemente, nel XVII secolo, si basava ancora sulla proprietà privata della terra (la «gentry», la piccola nobiltà) e sugli affittuari privati, ossia, non esisteva in alcun modo imprenditoria in senso moderno. Ma era solo questo il terreno sul quale il capitalismo privato poteva svilupparsi più rapidamente e con il minimo di restrizioni. Il liberalismo economico anglosassone, che voleva strumentalizzare la macchina statale per gli interessi degli «imprenditori» capitalisti privati, dopo aver adottato in tal senso le idee di alcuni economisti francesi, che non erano state in grado di affermarsi in maniera permanente nella stessa Francia. Questi cosiddetti «fisiocratici», con a capo François Quesnay (1694-1774), che già a partire dal loro nome indicavano quello che era il credo liberale generale di una presunta «regola della natura» economica, richiedevano che l'economia venisse lasciata all'«ordine naturale». Gli individui atomizzati incatenati alla legge del denaro avrebbero dovuto essere altrettanto mobili di quanto lo era il denaro stesso e, sulle basi dell'emergente modo di produzione capitalista, avrebbero dovuto essere autorizzati ad agire come egoisti naturali, a loro discrezione e per il proprio beneficio; qui, «naturalmente», si pensava soprattutto a padroni delle fabbriche e del commercio, in quelle che erano le loro relazioni con lo Stato assolutista.
Questa dottrina, riassunta nel famoso slogan «Laissez faire et laissez passer, le monde va de lui-meme» («Lasciate fare e lasciate che avvenga, il mondo segue la sua propria strada»), o brevemente «Laissez faire», in Francia rimase un episodio fra l'economia statale assolutista di Jean-Baptiste Colbert (1619-1683), ministro dell'economia di Luigi XIV, ed il regime economico altrettanto ampiamente statale della Rivoluzione. Il liberalismo anglosassone, d'altra parte, aveva allargato sistematicamente questo slogan, accentuandolo in maniera decisiva nella storia della modernizzazione. Poiché le idee economiche liberali erano più vicine alla logica interna del modo di produzione capitalista nel modo in cui si sarebbe sviluppata nei due secoli successivi.
Vizi privati, benefici pubblici
All'inizio, tuttavia, c'era stata una certa difficoltà morale nell'ascesa del liberalismo e della sua «libera» economia di mercato. Per Hobbes, purtroppo, il concorrente individuale pseudo-naturale è determinato in maniera del tutto negativa, e visto come se si trattasse della natura predatoria dell'uomo che dev'essere addomesticata. L'uomo ideale capitalistico, qui appare ancora come una bestia mostruosa, mentre il lato positivo appartiene solo al domatore statale che, a sua volta, deve assumere i tratti di un mostro in modo da poter compiere la sua missione. Se tuttavia tale relazione venisse rovesciata e il soggetto stesso della concorrenza venisse determinato in maniera positiva, allora le qualità che fino a quel momento sono state considerate cattive, malevoli e basse nella storia dell'umanità si troverebbero ad essere elevate allo status di nobiltà morale. In questo senso, il liberalismo ha realizzato la «trans-valorizzazione di tutti i valori» assai prima di Nietzche.
La grande breccia nel muro di tutte le concezioni morali precedenti è stata fatta da uno dei più brillanti cinici del pensiero moderno, un eccezionale panflettista e un audace pubblicista, il quale, tuttavia, non sempre è stato considerato di buon grado come un grande ispiratore. Bernard Mandeville (1670-1733), inglese di origine olandese, medico, filosofo dell'Illuminismo e conoscitore delle condizioni del primo capitalismo nel continente e nelle isole britanniche, ha fornito un orientamento la cui chiarezza ed acutezza non è mai stata uguagliata. A ragion veduta, dal momento che Mandeville ha rinunciato a qualsiasi candeggio ideologico. La sua rigorosa giustificazione dell'economia di mercato ispira un cinismo talmente corrosivo che ancora oggi esistono dubbi se egli non abbia davvero voluto scrivere una nera satira della meravigliosa modernità capitalista. Sta probabilmente nella natura delle cose che qualsiasi aperta giustificazione neutra di questo sistema sociale possa essere letta anche come una critica devastante. Karl Marx, che amava tali cinici, definì Mandeville come una «mente brillante», «assai più onesto dei tanti filistei apologeti della società borghese». Mandeville aveva cominciato ad esporre il suo pensiero nel 1705, con l'aiuto di versi di quattro sillabe toniche, in un libello poetico che fino al 1723 non solo ebbe diverse edizioni, ma crebbe anche fino a formare un libro, dotato di note esplicative e commenti dell'autore, dal momento che era stato tradotto molte volte ed era riuscito ad ottenere un certo impatto all'interno del discorso illuminista. La cosiddetta Favola delle Api, tuttavia, non aveva niente a che vedere con l'antica e tranquilla immagine delle api viste come «animali diligenti»; o, al massimo, nel senso dell'amara caricatura che sarebbe poi diventato il marchio di fabbrica dell'autore. Il sottotitolo Vizi Privati, Benefici Pubblici, rivela già di cosa si tratta. Tutte le caratteristiche spiacevoli dell'egoismo, dell'avidità di denaro, dell'inganno reciproco e della concorrenza, persino sanguinaria, vengono presupposte come se fossero le uniche che rendono una società (e Mandeville pensa espressamente alla società inglese sua contemporanea) una «fiorente comunità». Come mostrano alcuni passaggi decisivi, l'immagine di una colonia di api amorali serve ad illustrare quest'idea di base:
«Così ciascuna parte era piena di vizi, ma l’insieme un paradiso;
adulate in pace e temute in guerra, erano rispettate dagli stranieri
e, prodighe delle loro ricchezze e delle loro vite, erano la bilancia di tutti gli altri alveari.
Tali erano le benedizioni di questo Stato: le loro stesse colpe contribuivano alla loro grandezza,
e la virtù, che dalla politica aveva appreso mille astuzie,
per questa felice influenza era diventata amica del vizio;
e, quindi, anche la peggiore delle api faceva qualche cosa per il bene comune. [...]
In questo modo il vizio alimentava l’ingegno che, col tempo e con l’industria,
aveva portato le comodità della vita, i suoi veri piaceri, conforti ed agi,
a un tale livello, che anche il povero viveva meglio del ricco di altri tempi,
e di più non si sarebbe potuto fare. [...]
Godere dei piaceri del mondo, essere famosi in guerra,
e pure vivere in pace, senza grandi vizi, è una vana UTOPIA dell’intelletto.
Frode, lusso e superbia debbono esistere fino a quando ne cogliamo i benefici.[...]
Così il vizio diventa benefico quando è sfrondato e corretto dalla giustizia.
Anzi, se un popolo aspira a essere grande, il vizio è necessario allo Stato quanto la fame per mangiare.
La virtù da sola non può far vivere le nazioni nello splendore;
coloro che vorrebbero far tornare l’età dell’oro insieme con l’onestà debbono accettare le ghiande.»
Perciò, Mandeville ha fornito il modello di base (che lui stesso ha definito uno «strano paradosso») per quella che è stata la canonizzazione liberale dei più bassi istinti antisociali. È ovvio che se il risultato generale della cattiveria individuale fosse il «benessere dallo Stato», ciò non significherebbe in alcun modo che si tratterebbe di benessere per tutti gli esseri umani. Poiché è stato proprio solo il capitalismo che è riuscito a piombare in una povertà, che è stata così tanto artificialmente e socialmente generata su scala mondiale, una massa di persone così grande che dovrebbe davvero «nutrirsi di ghiande». In ultima analisi, il buon risultato dei cattivi istinti dovrebbe applicarsi esplicitamente solo ai «migliori vincitori», così come all'astratto conteggio totale dello Stato. Purtroppo, però, come dice nelle sue dissertazioni sulla Favola delle Api, con un'ironia senza precedenti, Mandeville, massa del bestiame lavoratore umano dev'essere costretta a «lavorare» nella maniera più intelligentemente possibile:
«Tutti sanno che c’è un gran numero di garzoni di tessitori, di sarti e di molti altri artigiani, i quali, se riescono a mantenere se stessi con quattro giorni di lavoro alla settimana, difficilmente si lasceranno convincere a lavorare anche il quinto, e che ci sono migliaia di lavoratori di tutti i tipi i quali, anche se possono a stento sostenersi, si sottoporranno a mille sacrifici, litigheranno col padrone, reprimeranno la fame, faranno debiti, pur di non lavorare. Quando gli uomini mostrano una così straordinaria inclinazione all’ozio e al godimento, perché mai dovremmo credere che lavorerebbero, se non vi fossero costretti da un’immediata necessità? [...] Che cosa avverrebbe in queste condizioni delle nostre manifatture? Se il mercante volesse inviare stoffe all’estero dovrebbe produrle da sé, poiché il fabbricante non può ingaggiare un altro uomo oltre i dodici che abitualmente lavorano per lui. [...] Dal che si può dimostrare che tutto quello che procura abbondanza rende la manodopera a buon mercato, se i poveri sono ben amministrati: bisogna evitare che essi muoiano di fame, ma bisogna ugualmente evitare che essi accumulino risparmi. Se qua e là qualcuno della classe più bassa, con non comune laboriosità e con molti sacrifici, si solleva al di sopra della sua condizione, nessuno deve ostacolarlo, è anzi innegabile che il modo più saggio di comportarsi per ogni singola persona e per ogni famiglia privata è quello di essere frugali, ma è interesse di ogni nazione ricca che la maggioranza dei poveri non sia pigra e che, tuttavia, spenda sempre tutto quel che guadagna.» (Mandeville - Favola delle Api. Pag.467).
Qui, per la prima volta, diventa evidente una mentalità che da allora in poi, fino ad oggi, caratterizzerà il liberalismo come ideologia fondamentale, come il pensiero degli «imprenditori» capitalisti, dei funzionari, dei dirigenti, delle élite, di coloro che ereditano le ricchezze e dei rappresentanti della rispettabilità, della serietà e della solvibilità borghese: vale a dire, l'atteggiamento fondamentalmente provocatore e insolente di chi è nato per avere il meglio ed essere destinato alla «superiorità», nel senso di avere «capacità di imposizione» nell'economia di mercato e nel fare soldi, mentre ci deve essere una massa di materiale umano meno ricca, destinata fatalmente a «lavorare», ma per sua natura testarda e pigra in maniera assai poco ragionevole, e francamente «immorale», che richiede perciò la mano forte di un guardiano che abbia la potestà di condurla al suo destino subalterno. Mandeville non risparmia certo le parole. Afferma che la «simpatia e compassione per la disgrazia e la miseria altrui» sono un sentimento delle «menti più deboli», in particolar modo delle donne e dei bambini, al quale gli uomini del mercato non devono soccombere:
«Dove la carità è molto diffusa, raramente non serve a promuovere pigrizia ed indolenza, e in una collettività serve solo a creare vagabondi e a distruggere l'industria, Quanto più costruiamo collegi e asili per poveri, tanti più di loro noi avremo [...] Non ho alcun piano che sia crudele né alcun odore di disumanità. Quello di avere ospedali in quantità sufficiente per gli infermi e i feriti, lo considero un dovere indispensabile in pace e in guerra: bambini senza genitori, anziani senza aiuto e tutti quelli che non sono in grado di lavorare dovrebbero essere aiutati e curati con attenzione e alacrità. Ma così come, da un lato, non voglio che sia trascurato chiunque è invalido e realmente bisognoso, non essendo responsabile delle proprie condizioni; dall'altro lato, non vorrei neppure incoraggiare l'accattonaggio o la pigrizia dei poveri: tutti coloro che in qualche modo sono in grado di farlo dovrebbero lavorare; anche gli infermi dovrebbero essere esaminati; potrebbero essere trovate delle occupazioni per la maggior parte dei nostri storpi e dei nostri ciechi [...]» (Mandeville).
A tal proposito, a partire dal XVIII secolo, anche il «Bispensiero» e la «Neolingua» del liberalismo parla con doppiezza professionale: «In linea di principio», si confessa la fede nei «comandamenti dell'umanità», ma solo «nella misura di quel che è necessario»; e questa necessità dev'essere ridotta al livello più basso possibile, al fine di poter inserire perfino i vecchi, i malati e i deboli, i ciechi e gli zoppi, nella macchina della valorizzazione del capitale, per estrarre da tutti loro le ultime riserve. Si tratta della nera fonte ideologica cui oggi si abbeverano anche Ronald Reagan e Margaret Thatcher, Newt Gingrich o Count Lambsdorff. Nella loro resa dei conti con l'«esagerata compassione», Mandeville attacca perfino le «scuole di carità», che l'ipocrisia borghese e la colpevole coscienza hanno reso possibili. E, ancora una volta, i suoi argomenti sono talmente corrosivi che minacciano di cadere nella critica radicale: «Quello che in seguito dobbiamo considerare sono le abitudini e la civiltà che devono essere impiantate nei poveri della nazione da parte delle scuole di carità. Secondo la mia opinione, ammetto che possedere tale qualità è una frivolezza, quando non è un danno; per il lavoratore povero, non c'è niente che sia meno necessario. Da loro non ci aspettiamo complimenti, bensì lavoro e assiduità» (Mandeville),
Infatti, è sempre questo ciò che si pensa dietro la faccia gentile e liberale, e Mandeville ha il merito di averlo espresso con franchezza. E questo appare essere ancora più vero nelle sue perspicaci osservazioni riguardanti l'educazione scolastica vista come un lusso o una necessità: «A partire da quanto abbiamo detto, in una nazione libera dove non è permesso tenere schiavi, la ricchezza più sicura consiste in una moltitudine di poveri laboriosi: oltre al fatto che essi costituiscono una riserva inesauribile di uomini per le flotte e gli eserciti, senza di loro non ci sarebbe nessun piacere al mondo e nessun prodotto di alcun paese avrebbe valore. Per garantire la felicità a una nazione e la tranquillità alla gente anche in circostanze sfavorevoli, è necessario che un gran numero di persone sia ignorante e povero [...] Pertanto, il benessere e la felicità di ogni Stato e regno richiedono che la conoscenza dei lavoratori poveri resti confinata nei limiti delle loro occupazioni, e non si estenda mai (relativamente alle cose visibili) al di là di ciò che è legato alla loro professione. Quanto più un pastore, un bracciante, o un qualsiasi contadino saprà sul mondo e su cose estranee al suo lavoro ed occupazione, tanto meno sarà in grado di sopportare la fatica e la penuria con allegria e contentezza. Leggere, scrivere e saper far di conto sono cose molto necessarie a chi le adopera come strumento di lavoro, ma là dove la sussistenza della gente non dipende da queste arti, esse sono molto nocive al povero, costretto a guadagnarsi il pane con la fatica quotidiana. Ben pochi bambini fanno qualche progresso a scuola, ma nello stesso tempo sarebbero in grado di lavorare in qualche attività produttiva, cosicché ogni ora che questi ragazzi poveri passano sul libro è tempo perduto per la società. Andare a scuola è un’occupazione di tutto riposo in confronto al lavoro e quanto più tempo i ragazzi passano in questa vita piacevole, tanto più diverranno inadatti per un duro lavoro quando saranno cresciuti, per mancanza di forza e di attitudine. Gli uomini destinati a passare tutta la loro vita in una faticosa, noiosa e penosa condizione, si sottometteranno di buon grado a questo stato se vi saranno costretti quanto prima possibile[...] Un uomo che ha avuto una qualche formazione può dedicarsi all'agricoltura per suo piacere e allo stesso tempo essere diligente nel suo lavoro più sporco e penoso; ma, in un caso simile, è affar suo [...] Ma egli non sarà mai un buon lavoratore al servizio di un fattore per una paga miserabile; o quanto meno non sarà altrettanto adeguato di quanto lo potà essere un lavoratore che si è sempre solo occupato dell'aratro e del carretto del letame, e che non ricorda di aver mai vissuto in qualche maniera diversa. Quando è necessaria la sottomissione e la piaggeria, vediamo sempre che non vengono eseguire in maniera più allegra e volontaria di quando avviene che vengono svolte da degli inferiori verso i superiori; intendo inferiori non solo per ricchezze e attributi, ma anche in conoscenza e in intelligenza. Un servo non può avere alcun rispetto sincero per il suo signore quando ha abbastanza discernimento da percepire che è al servizio di uno sciocco. [...] Nessuna creatura si sottomette con soddisfazione ai suoi pari, e se un cavallo possiede altrettanta conoscenza di quella di un uomo, io non vorrei essere il suo cavaliere.» (Mandeville).
Se c'è qualcosa che qui appare «chiaramente», è la vera natura delle «nazioni libere» capitaliste occidentali, dove «non è permesso tenere schiavi» (che non sempre è la regola, come mostra la storia del capitalismo agrario fino ad oggi), ma il liberalismo ci ha lavorato sopra per quasi 300 anni ed è riuscito ad installare un nuovo tipo di schiavitù con catene invisibili. Allo stesso tempo, Mandeville apre ad una visione dell'anima della conoscenza capitalista: non deve mai essere conoscenza libera, ma deve restare sempre mera conoscenza funzionale, un'auto-compressione al fine di attuare un progetto mostruoso, al di là di qualsiasi conoscenza. Pertanto, in tutte le fasi della modernizzazione, l'accesso alla conoscenza «superiore» è stato ripetutamente soggetto a delle restrizioni; è sempre la stessa auto-compressione borghese, fondata sul nulla, la cui tortura viene patita dalla classe media - dal vertice fino al bambino più stupido «fatto della sua stessa carne e del suo stesso sangue» - attraverso migliaia di iniezioni di insegnamento obbligatorio, e sempre disposta , di fronte alla scarsità delle finanze pubbliche, a cancellare la frequenza gratuita delle scuole superiori o delle università, e perfino a togliere l'«uguaglianza delle opportunità» capitalista ai «figli dei poveri» (oppure a sottometterli preventivamente ad una «selezione di talenti» per la conoscenza del dominio). Inoltre, la conoscenza è stata sistematicamente ridotta, quanto più possibile, al «dominio del necessario», nel senso capitalistico della parola, e si è imbevuta di formazione all'obbedienza, nella misura in cui, a partire dal XIX secolo, per ragioni funzionali alla valorizzazione del capitale, si è sentito il bisogno di comunicare «verso il basso». Ciò che il poeta Rainer Kunze ha formulato correttamente, ma facendo riferimento solo all'esperienza della dittatura statale socialista della conoscenza, in realtà si applica a tutta la stupida conoscenza scolarizzata del sistema moderno della produzione di merci: «Ignoranti, per continuare ad essere ignoranti vi mandiamo a scuola». Inoltre, il capitalismo ha avuto successo nell'addestrare gli individui ad interiorizzare questa forma di conoscenza sotto forma di auto-instupidimento; ciò è testimoniato dagli attuali studenti di economia. aerodinamicamente conformisti e consapevoli della propria carriera, dal momento che non amano la conoscenza di per sé e vogliono solamente assorbire, il più possibile per via endovenosa, la conoscenza funzionale al successo di un qualche stupido «guadagno di soldi». Ragion per cui, qualsiasi cosa si possa studiare oggi, si tratta sempre solo di una variante dell'economia imprenditoriale.
Alla fine, Mandeville non lascia alcun dubbio circa la comunità canina (letterale in Hobbes) di una società che ha instaurato «vizi privati come benefici sociali» per uno scopo statale assurdo, ed è per far questo spietatamente disposta a sacrificare gli interessi vitali della maggioranza; cosa che ci riporta al Leviatano. Lo stesso sofisma che cerca di vendere la malevola ed avida capacità individuale di affermarsi sul terreno del mercato come se questa fosse una virtù della società, per cui tutti devono amare, insieme alla «libertà» di mercato, anche la prigione e la forca per quella inevitabile delinquenza presente in una società del genere:
«Questo è uno dei maggiori inconvenienti in città grandi e popolose come Londra o Parigi, che attirano furfanti e malfattori come insetti nelle stalle [...] E quando vengono arrestati, se le prove non sono evidenti, o in qualche modo insufficienti, e i testimoni non sono troppo convincenti, i giurati e i giudici si impietosiscono; i pubblici ministeri, per quanto all'inizio fossero energici, spesso si mostrano comprensivi prima che inizi il processo [...] Un uomo di buon cuore non si riconcilia facilmente con sé stesso quando prende la vita di un altro, anche se questo ha meritato la forca. Essere la causa della morte di chiunque, sebbene lo richieda la giustizia, spaventa la maggioranza delle persone, soprattutto gli uomini coscienti e probi, quando mancano di giudizio o di risolutezza; ed è questo il motivo per cui sono migliaia a sfuggire alla pena capitale che meritano, ed è anche questo il motivo per cui esistono così tanti delinquenti che rischiano sperando, se fossero arrestati, di poter riuscire ugualmente a scappare. Se gli uomini credessero e fossero intimamente persuasi di essere impiccati senza speranza di scampo appena commettano un’azione che meriti tali pene, le esecuzioni sarebbero molto rare e il più disperato criminale s’impiccherebbe da solo al momento di scassinare una casa» (Mandeville).
Affermare questa illusione della deterrenza, è diventato anche l'archetipo del pensiero liberale: non sono le cause sociali del crimine quelle che devono essere eliminate, ma ciò che va dimostrato è forza poliziesca e legale. La povertà generata dal capitalismo, viene ridefinita come un «problema di sicurezza». In mezzo alla miseria, i vincitori devono essere in grado di poter godere di tutti i frutti dell'assertività nell'economia di mercato, senza ostacoli né preoccupazioni. In questo modo, Mandeville ha completato il canone «etico» della dottrina liberale. Grazie alla crudele onestà con cui lo ha fatto, merita un apprezzamento storico ed posto d'onore nel pantheon dell'ingegnoso cinismo capitalista.
- Robert Kurz - Frammento da "Il Libro Nero del Capitalismo", 1999 -
fonte: EXIT!
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