lunedì 10 giugno 2019

Avere le rotelle a posto

Una conversazione di Roswitha Scholz con Kim Posster
- Intervista apparsa su Jungle World del 28/2/2019 -

Kim: Molte donne e molte "queer" sono indignate: vengono discriminate, attaccate, guadagnano meno, e molte delle loro attività, come il lavoro domestico e quello di assistenza, sono considerate come qualcosa di connaturato alla lavoro condizione. Altre invece si rifiutano di accettare che una situazione simile possa continuare in tal modo. Tuttavia, dicono, tutto questo è inevitabile a causa della struttura di base della nostra società. Perché?

Roswitha: Parto dal presupposto che la relazione di genere sia profondamente incastonata all'interno di quelle che sono le condizioni del patriarcato capitalista, costituendo, diciamo, qualcosa che assomiglia ad una struttura di base. Su questo, ho sviluppato la teoria della dissociazione-valore. E in questo appare evidente che non è solamente il lavoro astratto - il lavoro, in Marx - a determinare le condizioni, ma anche le attività riproduttive che nella sua teoria vengono trascurate, così come viene trascurato l'amore, l'attenzione, la premura. Tutte attività, queste, altrettanto necessarie per la preservazione del sistema, ma che vengono sottostimate ed ignorate. Tutto ciò non si limita solo alla divisione materiale del lavoro, ma si estende anche a livello socio-psicologico e culturale-simbolico. A livello culturale-simbolico, per esempio, le analisi del discorso mostrano come vengano prodotti sia il genere che il disprezzo per le donne. A livello socio-psicologico, possiamo verificare il modo in cui le donne e gli uomini assumono un'identità femminile o maschile. Inoltre, bisogna anche tenere presente che la dissociazione-valore non è qualcosa di statico, bensì di storicamente mutevole: negli anni '50, le cose stavano ancora diversamente, la parola chiave era il modello casalinga (per lei) e capofamiglia (per lui). Al giorno d'oggi, le donne si trovano ad essere doppiamente socializzate, poiché sono altrettanto responsabili sia della famiglia che della loro vita lavorativa.

Kim: Attualmente, c'è resistenza contro questa struttura di base. Lo sciopero delle donne di quest'anno era diretto anche contro la discriminazione e la dissociazione delle abilità e delle attività femminili. Ritieni che questa pratica di contestazione sia una forma di resistenza adeguata?

Roswitha: A mio avviso, la resistenza è molto importante, sebbene ritenga che uno sciopero delle donne non sia tutto. Possiamo comprenderlo, tuttavia, come un segnale. Ho constatato con enorme soddisfazione che negli ultimi anni c'è stata più resistenza da parte delle donne che meritano quel nome. Ed è proprio perché ho vissuto gli orribili anni '90, nei quali ha acquisito rilevanza il femminismo decostruzionista. Dal punto di vista decostruzionista, l'oppressione delle donne era un problema minore. Quel che contava era la produzione culturale di genere. E anche se allora sono state problematizzate molte forme di oppressione, quella che era l'oppressione individuale - e soprattutto l'oppressione individuale delle donne - non era poi così evidente.

Kim: In alcuni comitati locali di sciopero, ci sono state controversie se lo sciopero avrebbe dovuto essere chiamato «sciopero delle donne», o invece «sciopero femminista», a partire dal fatto che così sarebbe stato più appropriato al fine di tener conto di quelle che sono le molteplici identità queer.

Roswitha: Per me è indifferente che si tratti di uno sciopero delle donne o di uno sciopero femminista. Nella teoria queer degli anni '90, si diceva sostanzialmente: «Se fai continuamente riferimento a quest'oppressione femminile e a quella che è la relazione gerarchica di genere, con questo già la stai nuovamente causando.» In seguito è riemersa, secondo quella che è stata la mia percezione, intorno al 2005, in seguito ai fenomeni di crisi, una critica del capitalismo che fa fatto sì che "queer" diventasse "femminista queer". In qualche modo tutto ciò mi irrita, perché nel frattempo ciò che era la differenza ed il conflitto tra il femminismo materialista ed il femminismo decostruzionista - se questo può chiamarsi femminismo -  non è stata in alcun modo mantenuta. A partire da questo, ritengo semplicemente che sia problematico il fatto che il queer passi  per essere una critica del capitalismo.
Devo aggiungere che, a mio avviso, il femminismo non è solo la relazione di genere in senso stretto. Vengono considerate anche altre disparità, ma non nella forma in cui lo fa il queer, poiché dev'essere chiara la connessione fra dissociazione-valore e quelle che sono le altre discriminazioni. A tale riguardo, è importante chiarire in questo sciopero delle donne che non abbiamo niente a che fare con il razzismo, l'antisemitismo e l'anti-ziganismo, così tanto spesso trascurato. Ciò vale soprattutto per tutte le tendenze da fronte trasversale. Ritengo che dobbiamo porci in ogni circostanza contro un tale fronte, promuovendo una massiccia opposizione.

Kim: Il sottotitolo della convocazione dello sciopero è: «Quando smettiamo di lavorare, il mondo si ferma.» Nei tuoi scritti, ti sei ripetutamente posizionata contro la feticizzazione e l'ampliamento del concetto di lavoro - in special modo quando si parla di attività riproduttrici. Perché?

Roswitha: Il fatto è che queste attività riproduttive non si adattano al concetto di lavoro. Il nocciolo della faccenda è che nelle attività riproduttive, come ad esempio allevare i figli o nelle attività domestiche, si tratta di perdere tempo, contrariamente a quanto avviene nel processo lavorativo, e di produzione, nel quale invece si tratta di risparmiare tempo. Per me il problema sta qui. Poiché, a livello politico-pratico, il problema consiste nel fatto che tutti pensano in funzione di queste categorie del lavoro. E in realtà, al giorno d'oggi, anche attività come le cure geriatriche, infermieristiche e di assistenza sociale vengono realizzate all'interno del lavoro astratto. Direi che qui, nell'azione immediata, si potrebbe arrivare ad un compromesso. Mentre, tuttavia, il carattere delle attività riproduttive femminili, anche quando svolto professionalmente, non si adatta alla forma del lavoro astratto.

Kim: Oggi, ci sono molte donne che hanno un doppio incarico, in quanto oltre al lavoro riproduttivo svolgono anche del lavoro salariato. Ciò ha spinto i comitati di sciopero a mettere in discussione la relazione con i sindacati. Nei tuoi scritti, ti sei sempre collocata con veemenza contro i movimenti che si preoccupano solamente della giustizia distributiva. Come vedi una simile questione?

Roswitha: Direi: è chiaro che si può fare qualcosa con e nei sindacati. Ma bisogna sempre tenere in mente che si tratta solo di una particolarità. La mia comprensione del femminismo assume che, come punto di partenza, non vada solo considerata la preoccupazione, ma è necessario avere una visione più ampia, poiché è necessario rimanere aperti nei confronti di tutte le altre disparità sociali. Ed è di questo che una persona, in quanto attivista ed associativista, deve tener conto.
Questo, è importante sottolinearlo, così come è importante dire che le donne non sono solo attive nell'assistenza e nei servizi. Altrimenti ritorniamo su un percorso essenzialista come è stato quello del decostruzionismo. È anche vero che le donne svolgono, sebbene meno di quanto lo facciano gli uomini, attività di ingegneria o altre attività che non obbediscono a quello che è il loro stereotipo. Ma è anche vero che guadagnano meno e che hanno meno opportunità di carriera. Penso che tutto questo sia relazionato alla comprensione della femminilità e della maschilità nel contesto del patriarcato capitalista.

Kim: Una volta hai detto che senza lottare una donna non conquista niente. Come possono le donne lottare contro il patriarcato produttore di merci, oggetto della tua analisi, e, in questa battaglia, quali potrebbero essere gli alleati e i compagni di lotta?

Roswitha: Penso che non esista una leva centrale sulla quale possiamo fare forza. Tuttavia, penso che lo sciopero delle donne sia già un segnale. Anche nella vita quotidiana, come donna, si deve affrontare parecchio sessismo. Anche di questo si deve discutere. Ci sono livelli differenti. Il mio livello è quello della riflessione teorica, ma ho un po' paura che questo boom del movimento possa uccidere la riflessione su da dove provenga realmente la repressione. Per quanto riguarda i compagni di lotta, non penso che ci sia nessun soggetto o gruppo in particolare, nel senso che «ora lasciamoci guidare da loro». Dobbiamo semplicemente unirci a tutte le persone che abbiano ancora le rotelle a posto.

- Intervista apparsa su Jungle World del 28/2/2019 -

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