Domande sul passato tra Minosse e technicolor di Evans
- di Massimo Natale -
La vigilia della mia visita a Cnosso è una festa di paese, in una fortezza veneziana diroccata sul mare di Libia, nell’estremo sud dell’isola-gigante. Ci passo qualche ora, osservando un po’ in disparte i capannelli dei greci che cuociono carne, e soprattutto le danze. Uomini e donne si tengono per mano, e muovendosi disegnano un circolo, sospesi fra la serietà del gesto e un’allegrezza che trattiene qualcosa di malinconico. Si nutre, questa danza, come di un senso di perdita, un sentore incerto del tempo profondo da cui viene. Sono le stesse danze in cui in molti, fino a Karl Kerényi, hanno intravisto per un attimo l’ultima ombra di Arianna, la Signora del Labirinto cretese («anche Omero - ricorda il Kerényi di Nel labirinto - dice che giovani e fanciulle, danzando, “si tenevano per i polsi”»).
Una selvaggia e spoglia semplicità
Il giorno dopo l’aria delle cinque del mattino ha allontanato ogni aroma, il vento è fatto solo di se stesso. Batte potente, fa oscillare la piccola Matiz su cui mi sposto. Per raggiungere il sito archeologico, partendo dai dintorni di Chora Sfakion, servono quasi tre ore, si deve risalire fino alla costa opposta - quella settentrionale, più addomesticata, lungo cui si snoda la Strada Nazionale - fiancheggiando intanto gole e paesi, zigzagando fra strade spesso sterrate, su cui si rischiano le gomme. Le guide turistiche insistono sulla pericolosità delle strade dell’isola, ma in fondo è anche grazie a queste strade se molti luoghi, a Creta, restano intatti. Forse solo Creta, con la sua selvaggia, spoglia semplicità, ha la forza - magari inconsapevole - di continuare a mettere un bastone fra le ruote dei secoli, di far aspettare il capitale e il mercato come ospiti di nessun riguardo, lasciandoli ancora - almeno per un poco - fuori dalla porta. A questo penso, mentre raggiungo la Nazionale che congiunge l’Ovest all’Est, fino a Sitià, ma a me basta arrivare a Heraklion, uscire dalla strada principale e fare un’altra manciata di chilometri fino alla meta.
L’ultimo tratto è un susseguirsi di negozi, bancarelle e gru, asfalto e polvere, arbusti, supermarket dai nomi mitologici – Pasifae, Teseo -, è la prima periferia di una città mercantile greca. A Creta - specie nel sud, che ho appena lasciato - si ha spesso la tentazione di pensare alla Storia come a un’ipotesi pronta a essere abolita, un minuscolo intervallo nel battere e levare della Natura. I segni del passaggio degli uomini - anche i più recenti - mostrano tutta intera la loro provvisorietà. Mentre aspetto di vedere le indicazioni per il parcheggio, sfilo di fianco a Villa Ariadne. Sir Arthur Evans la fece costruire nel 1906, sei anni dopo l’inizio degli scavi sul colle di Képhala, e la scelse come alloggio. La sua ultima visita a Cnosso è del 1935 - Evans morirà novantenne, nel luglio del ’41. Due mesi prima, in maggio, un altro mostro infernale, dopo il Minotauro, mette Creta sotto scacco: l’esercito tedesco lancia l’Operazione Merkur per la conquista dell’isola. Lontana dal ruolo pensato per lei da Evans - che nel 1926 l’aveva donata alla British School of Archeology di Atene - Villa Ariadne è destinata a diventare il quartier generale delle truppe naziste. Proprio sulla strada che da Archanes - un villaggio a non più di un quarto d’ora di macchina - conduce fino a qui, nella primavera del ’44 il generale Heinrich Kreipe veniva fatto prigioniero da un maggiore inglese nemmeno trentenne, Patrick Leigh Fermor, che proprio alla Grecia - al Mani soprattutto, e al continente - avrebbe dedicato, molti anni dopo, alcune fra le sue più straordinarie pagine di viaggio. Storia antichissima e storia recente, in questa polvere, sembrano toccarsi.
Il busto in giacca e cravatta
Acquistato il biglietto d’ingresso mi fermo al bar, passo oltre il busto di bronzo in cui Evans è ritratto in giacca e cravatta, comincio disordinatamente la mia visita. Creta è l’isola del passato, un luogo che mette in questione il nostro rapporto con esso, rendendone così più chiara tutta la sua mutevolezza e inafferrabilità. Anche a Cnosso: la più moderna filologia - mentre non smette di lasciarsi affascinare dall'enigma del labirinto, emblema del luogo - ha prontamente condannato l’archeologo inglese e il suo rapporto disinvolto con la storia. L’accusa è chiara. Sul bianco e nero della pietra - per esempio quella della sala del trono di Minosse, riportata letteralmente alla luce il 13 aprile del 1900 - si è abbattuto il technicolor di Evans: colonne arbitrariamente rivestite di un rosso acceso, fregi su cui delfini di un blu intenso inseguono pesci più piccoli, pareti che vedono sporgersi le teste leonine dei grifoni a custodire il trono - mi chiedo se anche la sedia di gesso sia un falso. Tutto questo convive con i muretti irrimediabilmente spaccati, scale originali che aggettano sul vuoto, basamenti divelti. Nel Megaron della Regina - un’altra delle stanze più importanti dello scavo - dietro le figure di donne che vorrebbero restituire almeno un qualche sapore dell’arte minoica, si insinua la traccia dell’art nouveau, che affiora nelle pennellate di Emile Gilhéron, pittore svizzero praticamente coetaneo di Evans, che lavorò - ma le guide, a quanto pare, difficilmente lo raccontano - a integrare i più importanti affreschi del Palazzo. Ai viaggiatori italiani - peraltro molto fieri di altri e ben diversi scavi, quelli di Festo, a una cinquantina di km da Cnosso - il lavoro di Sir Arthur è parso presto di dubbia tenuta: «colori moderni da cartellone» - scriveva Mario Praz di questi affreschi rimaneggiati -, pittura degna di «decorare una nursery». Ma un posto di prima filaria i «nomi esecrandi» decretava, per Evans, soprattutto il Cesare Brandi del Viaggio nella Grecia antica, che si inaugura proprio con alcune pagine cretesi.
La fontana Morosini
Gli appunti di Brandi si trasformano in una vera e propria invettiva contro Evans, nella precisa e sacrosanta richiesta, per l’archeologo, di assolvere al proprio ruolo di conservatore mettendo a frutto la propria competenza di filologo, senza cedere alla voglia di seduzione - specie se molto arrischiata, come quella praticata da Evans. Ne rileggo qualche passaggio, verso la fine della mattinata, lasciato Cnosso e giunto ormai nel centro di Heraklion, seduto in un brutto bar di tendenza, non lontano dalla fontana Morosini - altro pezzo di Venezia trapiantato a Creta, altro tassello di passato scombinato, ora quasi muto. Non so perché, non riesco ad abbracciare del tutto il pur giusto sdegno di Brandi. Forse perché si sente in queste sue righe, al fondo, una fiducia nel rileggere il passato che resta sempre intera, troppo certa. Preferisco, ai toni di invettiva, lo sguardo che improvvisamente si getta sul fuori-dalla-storia, il Brandi distratto dalla potenza della natura primaverile. Lo sguardo che cattura le «grazie insinuanti di fiori inattesi: prati interi di anemoni bianchi e spauriti con un capino nero al mezzo, come pierrot lunari».
Lo si cerchi sotto una parete mal ridipinta o sotto la nuda pietra battuta dal sole, il senso del passato, la forma di un’intera civiltà della quale anche l’alfabeto ci resta per lo più indecifrabile, sembra non smettere di sfuggirci. Siamo condannati a lasciarlo scivolare via, sempre più altrove. Guardando una cartolina del disco di Festo - un altro enigma minoico, conservato nel Museo Archeologico di Heraklion, dove l’ho appena comprata - mi accorgo intanto che gli anemoni fioriscono anche sulla sua argilla. Uno sta proprio al centro del disco. Non sappiamo cosa significhi quel fiore, perno perfetto dei suoi pochi centimetri di diametro. Lo immagino bianco. Anche gli anemoni trascolorano in storia, in attesa di rifarsi natura? Sono prima storia o prima natura? Chissà.
- Massimo Natale - Pubblicato su Alias del 6/8/2017 -
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