L’intervento di Jason W. Moore al dibattito “Sovvertire il pianeta”, tenutosi lunedì 11 giugno 2018 allo Sherwood Festival di Padova
«Anche le creature dovrebbero diventar libere».
- Giustizia planetaria e origini della crisi biosferica –
di Jason W. Moore
«Anche le creature dovrebbero diventar libere». Queste parole furono pronunciate dal pastore radicale Thomas Müntzer nel 1524. Marx ne fu sufficientemente impressionato da citare Müntzer nel suo saggio La questione ebraica, ma pochi marxisti lo hanno preso sul serio. Le parole di Müntzer ci giungono dalla prima grande insurrezione della classe lavoratrice nella modernità, passata alla storia come la Guerra dei contadini tedeschi. Si trattava inoltre, benché né il marxismo anglo-centrico né quello anti-coloniale l’abbiano notato, della prima grande rivolta contadina contro le recinzioni.
Fu nell’Europa centrale che cominciò a emergere una nuova connessione, capitalistica e storico-mondiale, tra il denaro globale e la natura planetaria. Senza quell’argento che scorreva attraverso l’Europa, ci sarebbe stata scarsa fiducia nei nuovi strumenti di credito e nella carta moneta – e senza credito, non ci sarebbe stata nessuna conquista del Nuovo Mondo. Prima che la Spagna potesse conquistare il Nuovo Mondo e prima che i banchieri genovesi potessero dominare la Spagna, doveva costituirsi un nuovo rapporto tra moneta “pesante” e natura. Sempre nell’Europa centrale venivano prodotte le materie prime fondamentali per il capitalismo delle origini: rame, piombo e ferro. Cosa ancor più importante, le nuove tecniche minerarie e metallurgiche – che sostennero un’industrializzazione tanto prodigiosa quanto quelle che seguirono – permisero un incremento rivoluzionario della produzione di tutti i metalli estratti. Tra il 1450 e il 1530, essa quintuplicò.
In tutta l’Europa centrale, il nuovo capitalismo estrattivista ha perlustrato boschi e campagne alla ricerca di carburante, creando inquinamento diffuso e deforestazione. Persino Agricola (si tratta di Georg Agricola, scienziato e mineralogista tedesco vissuto nella prima metà del XVI secolo, ndr), il più grande “sponsor” dell’attività mineraria, osservò negli anni Cinquanta del Cinquecento che: «Boschi e boschetti vengono abbattuti perché c’è bisogno di una quantità infinita di legname per le macchine e la fusione di metalli. E quando boschi e boschetti vengono abbattuti, pure animali e uccelli sono sterminati: con loro scompare cibo piacevole e gradevole per l’uomo […]. Quando i minerali vengono lavati, l’acqua che è stata usata avvelena i ruscelli e i torrenti e distrugge i pesci oppure li caccia via”. (Agricola 1556, 8). Ma non c’è ragione di preoccuparsi, ha scritto Agricola. I profitti del settore minerario permetteranno a tutti di comprare il cibo e il legname che servono; e di sostituire gli uccelli con lussi più piacevoli. L’ideologia della crescita infinita, dello sviluppo senza fine, dell’accumulazione illimitata ha radici molto antiche.
Mentre l’attività mineraria esplodeva e gli alberi venivano ripuliti, l’attività di recinzione delle foreste avanzava. Nel 1524, Müntzer denunciò queste recinzioni, svelando la logica attraverso cui «ogni creatura dovrebbe essere trasformata in proprietà – i pesci nell’acqua, gli uccelli dell’aria, le piante nella terra: anche la creatura dovrebbe diventar libera» ( citato in Marx 1975, 172). Fino al 1450, le foreste erano state abbondanti; rari invece i conflitti tra signori e contadini. Nel 1525 «la situazione cambiò completamente» (Blickle 1981, 73). La Guerra dei contadini tedeschi del 1525 registrò non solo una formidabile protesta contro le recinzioni delle foreste da parte dei signori, ma anche la dura realtà dei rapidi cambiamenti nella vita, nella terra e nel lavoro.
A partire dagli anni Settanta del Novecento, alcuni studiosi radicali hanno individuato l’Anno Zero della crisi planetaria intorno al 1800, e il suo luogo d’origine da qualche parte in Inghilterra, la culla del vero capitalismo. Questo è un problema, dal punto di vista storico. Infatti né il capitale né tantomeno l’industria, la classe operaia, il degrado ambientale emergono nella loro forma moderna dopo il 1800. Tutto questo è emerso nel corso del lungo XVI secolo, che comprende all’incirca i due secoli successivi al 1450.
Il mito radicale convenzionale delle origini capitaliste – l’Inghilterra, intorno al 1800 – è anche profondamente problematico per ragioni politiche. Suggerisce che l’imperialismo moderno, la schiavitù, il razzismo, così come molto altro, siano elementi secondari per una politica rivoluzionaria. Semplicemente: il modo in cui concepiamo la storia del capitalismo ha moltissimo a che fare con il modo in cui immaginiamo un futuro giusto, sostenibile e socialista.
Siamo abituati a pensare alla crisi planetaria in termini di sostanze: troppi gas serra, troppe persone, troppe fabbriche. Esiste una versione mainstream di quest’immaginario: si tratta della retorica neomalthusiana dei “limiti della crescita”. L’idea di fondo è che i limiti stiano al di là dei rapporti sociali capitalistici: sarebbero limiti esterni. Esiste anche una versione radicale di questo modo di pensare: le contraddizioni del capitalismo sarebbero sociali e interne, mentre i rapporti biosferici e la crisi planetaria attuale sarebbero naturali ed esterni.
Le sostanze sono importanti. Di mestiere faccio lo storico ambientale, quindi mi piace studiare suoli, foreste, attività minerarie, apparati produttivi e città; come molte altre cose. Ma le sostanze non ci dicono nulla se vengono separate dai rapporti storico mondiali che le avvolgono. Oltre che storico sono anche marxista. Per me la più grande intuizione di Marx è stata quella di inserire lo studio della storia – questo include la storia della crisi attuale – all’interno di un quadro relazionale. Per parafrasare Marx: il carbone è solo una roccia nella terra. Solo all’interno di determinati rapporti storici e geografici il carbone diventa un “combustibile fossile”. Sono stati i rapporti tra scienza, impero e capitale che hanno fatto il carbone. Ma naturalmente anche il carbone ha fatto il capitalismo.
Cosa succede se consideriamo che le civiltà – o modi di produzione, per usare un linguaggio più vecchio – fanno due cose contemporaneamente? Se teniamo conto di come le civiltà creano ambienti e di come gli ambienti creano le civiltà? I modi di produzione, in altre parole, non solo producono nature, ma vengono anche prodotti dalla rete della vita.
Non è questa la realtà odierna del cambiamento climatico? Da un lato, il capitalismo spinge il cambiamento climatico attraverso la sua continua privatizzazione (enclosure) dei beni comuni dell’atmosfera. Dall’altro lato, il cambiamento climatico sta direttamente formando e influenzando le condizioni del rilancio (renewal) capitalistico. Ciò è chiaro, nel modo più evidente, nella stagnazione pluridecennale del modello proprio del capitalismo del cibo a buon mercato. L’agricoltura comporterà due terzi dei costi del riscaldamento globale lungo i prossimi tre decenni. Due terzi! Questo è determinante perché il rapporto fondamentale del mondo moderno è il modello del cibo a buon mercato che ha prodotto – per cinque secoli – sempre più cibo con sempre meno forza lavoro.
In altre parole, il capitalismo ha “prodotto” il cambiamento climatico attraverso le recinzioni (enclosing) e attraverso l’internalizzazione dei beni comuni dell’atmosfera. Al tempo stesso, il sistema climatico sta ora, in maniera crescente, “producendo” le condizioni negative dello sviluppo capitalistico – “negative” nel senso che il cambiamento climatico sta negando, sta minando, il Modello del cibo a buon mercato.
Naturalmente, il problema è molto più grande di così. Alcuni critici hanno sostenuto che tale tesi ignora le conseguenze disastrose che il cambiamento climatico ha sulla vita della grande maggioranza della popolazione. Chiaramente è una critica sprovveduta. Ho scritto per vent’anni su come le crisi del capitalismo producano condizioni di vita disastrose per la maggioranza degli abitanti del pianeta. Ma se vogliamo sapere come sfidare il capitalismo nel 21° secolo, allora abbiamo bisogno di capire le contraddizioni strategiche del capitalismo, i suoi punti di vulnerabilità. Così, per me, la crisi del sistema climatico e la crisi del cibo a buon mercato ci permettono di vedere come i movimenti per la sovranità alimentare possano sostenere progetti rivoluzionari per il capitalismo come sistema.
La idee, scrive Marx, possono diventare “forze materiali” quando sono afferrate, fatte proprie, dalle masse. Dunque, le idee contano. Non solo la storia delle idee radicali, ma anche la storia del pensiero borghese. Il socialismo prese forma nel 19° secolo, e si concentrò con enfasi sulle macchine della cosiddetta Rivoluzione industriale. L’ambientalismo prese forma negli anni ‘70 del ‘900, e pure in questo caso il suo punto di riferimento furono le macchine, la “società industriale” […]. E in più lo spettro della sovrappopolazione – che infatti significa sempre la sovrappopolazione dei popoli che non sono bianchi.
Le macchine, come i materiali, sono importanti. Ma il capitalismo non ha avuto bisogno della macchina a vapore per trasformare la vita del pianeta. Un cambiamento radicale nella scala, velocità e scopo del cambiamento territoriale si è verificato nel lungo 16° secolo. Questo cambiamento fu spesso dello stesso ordine di grandezza o anche più grande.
I tre secoli successivi al 1492 segnarono la più grande rivoluzione produttrice-di-ambiente (environment-making) dall’alba dell’agricoltura, avvenuta 12 mila anni prima. Ciò accadde non solo a causa del colonialismo, o del commercio, ma anche perché il capitalismo riorganizzò vita, lavoro e potere attraverso un dualismo selvaggio: Civiltà e Natura. Questo dualismo fu fondamentale per la violenza di genere, razziale e coloniale del primo capitalismo. Esso fu profondamente violento e oppressivo. Esso resta profondamente violento e oppressivo. E fu anche qualcosa di radicalmente nuovo: esso convertì l’idea di “Natura” esterna in una pratica materiale; e convertì la “Natura” in una forza di produzione.
Natura/Società divenne l’astrazione operativa per stabilire un’egemonia borghese globale che fece due cose contemporaneamente. Da un lato, essa ridefinì molta parte del lavoro umano nel capitalismo come non lavoro. Donne, popoli indigeni, africani e molti altri furono espulsi dalla Società, e collocati nella Natura – per essere meglio deprezzati (cheapened) nel doppio senso di questa parola, un correlato (entangled) progetto etico ed economico. Dall’altro lato, essa giustificò le continue appropriazioni, recinzioni e espropriazioni – collegate a genocidi ricorrenti – che permisero a tutta la vita e terra di essere deprezzate, o perfezionate, nei termini di Locke.
Qui si inizia a vedere la divisione delle attività (work) del capitalismo – non la divisione del lavoro (labor), sebbene le due siano collegate – : forza-lavoro salariata, lavoro umano non pagato, il lavoro della natura nel suo insieme. La “Società” diventa l’ambito degli imperialisti, degli scienziati, dei commercialisti, dei coltivatori, dei sacerdoti – quasi tutti bianchi e maschi. Ogni altro – donne, popoli indigeni, popoli di colore, lesbiche, gay – furono esiliati all’ambito della “Natura” […]. Al meglio sarebbero stati trattati a buon mercato (cheaply), sia in termini di svalutazione economica delle loro attività e delle loro vite, sia nel senso inglese del termine, cioè di essere trattati senza dignità e rispetto, di trattare le loro vite e le loro attività come superflui e sacrificabili (disposable).
Lontano dall’essere un dualismo innocente, la separazione tra “uomo” e “natura” è stata fondamentale per il dominio coloniale, il mutamento ambientale, il genocidio. Sin da quando Colombo raggiunse l’Hispaniola. L’idea dell’Umanità come l’agente della crisi ambientale – oggi cristallizzato nel linguaggio del cambiamento antropogenico – è stata un’indispensabile arma nell’arsenale del capitalismo.
Antropogenico (fatto dagli umani). Qui vediamo un vecchio trucco capitalistico che si realizza attraverso il discorso ambientalista: prendere un problema creato dall’1%, e poi dire che è colpa del 99%. L’attribuzione all’umanità della causa del cambiamento climatico è uno stile (brand) speciale del pensiero magico. Esso dice, in effetti, che le diseguaglianze e la violenza di razza, classe e genere sono preoccupazioni secondarie.
Antropogenico? O Capitalogenico?
Un’alternativa è riconoscere che il “cambiamento di stato” planetario individuato dagli scienziati del sistema Terra richiede un cambiamento di stato intellettuale. Questa è un’argomentazione che sostiene il concetto di Capitalocene piuttosto che quello di Antropocene. Il Capitalocene non sfida le argomentazioni relative alla storia geologica.
Parlare di Capitalocene significa sostenere che il capitalismo è un’ecologia-mondo, composta da potere, capitale e natura. Porre la questione in questi termini significa dunque enfatizzare le possibilità storiche e i limiti storici del capitalismo nella rete della vita.
Il pensiero marxista e quello ecologista – come i progetti politici a loro affini – hanno fallito molte volte nel trovare un terreno comune perché hanno attribuito quelli che Marx chiama ‘poteri soprannaturali’ (Marx 1970, 1) ad uno o all’altro elemento del dualismo Natura/Società. In genere prevalevano una forma di fondamentalismo del lavoro e una di fondamentalismo della natura. Sul versante politico, ciò si manifesta nell’assurdo – e falso – conflitto tra “lavoro” e “ambiente”.
La tragedia di questo falso conflitto è emersa ancora una volta nel settembre del 2016 attorno al completamento del progetto del Dakota Access Pipeline – un oleodotto di circa 1200 miglia che trasporta il petrolio greggio dal North Dakota al Sud dell’Illinois (Sammon 2016).
L’ AFL-CIO (il più grande sindacato di lavoratori del paese) ha invitato il governo federale a garantire il completamento del gasdotto (2016), anche se i Sioux di Standing Rock e i loro alleati hanno organizzato una forte opposizione. Questa volta, tuttavia, hanno anche trovato sostegno nel movimento sindacale, non ultimo nel National Nurses United, che ha dichiarato che il progetto dell’oleodotto è una “continua minaccia alla salute pubblica” (2016). Questa convergenza tra movimenti operai e sociali attorno alla difesa della riproduzione socio-ecologica (definita in termini ampi) suggerisce uno sviluppo intravisto da O’Connor già molti anni fa (1998). Poiché il capitalismo avanzato estende il nesso monetario ai domini chiave della riproduzione socio-ecologica, non solo minaccia il benessere delle nature umane ed extra-umane, ma stabilisce anche nuove condizioni della lotta anticapitalista. Queste “nuove condizioni” attivano le relazioni della riproduzione del capitalismo (assistenza sanitaria, educazione, ma anche i beni comuni planetari) e favoriscono una politica radicale del lavoro e della vita, che va necessariamente oltre l’economia – e verso il recupero e la reinvenzione di beni comuni globali di ogni tipo.
Se non si tratta del conflitto tra lavoro e ambiente, di cosa si tratta? Forse il pensiero di Marx sul lavoro ci fornisce una strada per andare avanti, sotto il profilo analitico, ma anche in termini strettamente politici. Ricordiamoci che il capitalismo organizza tre tipi di lavoro: il lavoro salariato nell’economia monetaria, il lavoro non pagato degli umani e il lavoro non pagato della natura nel suo complesso. Ognuno di questi campi è in crisi: ciò che rende la situazione attuale una crisi potenzialmente epocale è che ogni contraddizione, in ogni ambito della vita e del lavoro, è sempre più coinvolta nelle altre. È una crisi del lavoro, una crisi della vita del pianeta. Attraversa l’organizzazione capitalistica del lavoro, pagato e non pagato, umano ed extra-umano.
Riconoscere questa tripartizione del lavoro ci dà l’opportunità di immaginare una nuova politica rivoluzionaria per la giustizia globale.
Rielaborare il lavoro nel capitalismo – superando il fondamentalismo del lavoro – fornisce una via per uscire dalla sgradevole realtà di oggi. Una politica rivoluzionaria del lavoro che non può affrontare i problemi del lavoro di cura e della riproduzione sociale è destinata al fallimento; così come una politica del lavoro radicale è incapace di affrontare la crisi della biosfera. Una politica rivoluzionaria della natura che non riesce ad affrontare le questioni del lavoro precario e di quello pericoloso, dell’”umanità in eccedenza”, della violenza razzializzata, di genere e sessualizzata sarà destinata al fallimento. È giunto il momento di una discussione su come forgiare una visione radicale che assuma come premessa l’insieme organico della vita e della biosfera, della produzione e della riproduzione.
Di quali narrazioni abbiamo bisogno per trovare la nostra strada verso il cambiamento dello stato del pianeta? Credo che tali narrazioni abbiano bisogno di riferimenti precisi per la cura, la compassione e la connessione che mancano così profondamente nel mondo di oggi. Come agiamo, pensiamo, amiamo e organizziamo la nostra strada verso questo cambiamento? Un’indicazione fondamentale per l’ecologia-mondo è che abbiamo bisogno di pensare, lavorare e coltivare in nuovi modi, specialmente attraverso un’etica di cura, per gli esseri umani, per la rete della vita e per le interdipendenze tra più persone che rendono possibile una buona vita.
Ciò significa porre la natura al centro delle riflessioni sul lavoro, porre il lavoro al centro della nostre riflessioni sulla natura e mettere da parte la presunzione che l’organizzazione umana di ogni cosa (dalla famiglia alle corporation transnazionali) possa essere adeguatamente compresa separatamente dalla rete della vita. Partendo da queste fratture teoriche – ma sempre più che intellettuali – possiamo trovare dei modi per conversare, coltivare e curare nuove ecologie della speranza e della giustizia nel XXI secolo.
- Jason W. Moore - Pubblicato su GlobalProject -
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