Una storia dell'autodifesa popolare
- di Zones subversives -
Di fronte alla repressione, l'autodifesa collettiva diventa una questione importante. La violenza della polizia riattiva questa dimensione. Le Pantere Nere rimangono l'esempio più emblematico di questa pratica di autodifesa nei confronti della polizia e dello Stato. Ma esiste anche tutta una genealogia di quella che è la difesa nei confronti degli oppressori, a partire dagli schiavi, fino ad arrivare alla difesa da parte delle donne. La filosofa Elsa Dorlin, nel libro "Se défendre. Une philosophie de la violence.", traccia un'archeologia di questa pratica.
Gli inizi dell'autodifesa
Il porto d'armi rimane controllato dallo Stato. Ci sono delle legislazioni che codificano tale pratica al fine di controllarne la sua pericolosità. «Quello che si voleva fare , attraverso la gerarchizzazione dei regolamenti stessi, era distinguere le condizioni, sedimentare delle posizioni sociali, vale a dire istituire un accesso differenziato alle risorse indispensabili per la difesa di sé », osserva Elsa Dorlin. Inizialmente, il porto d'armi è riservato alla nobiltà. Gradualmente, la scherma diventa uno sport.
Nel 1685, il Codice Nero proibisce il porto d'armi agli schiavi. Dall'altro lato, i coloni possono utilizzare le armi. È un vero terrore quello che viene imposto ai neri per poter impedire qualsiasi rivolta. Gli schiavi non hanno neppure il permesso di riunirsi per praticare le danze che diffondono una cultura marziale. Però, la Francia utilizza i maschi colonizzati per fare la guerra. I tiratori scelti africani sono considerati obbedienti.
In Francia, il dibattito che precede la Prima guerra mondiale solleva il problema dell'autodifesa popolare. La classe dirigente preferisce basarsi su un'élite militare, piuttosto che preparare le masse alla battaglia. L'armamento delle masse popolari renderebbe difficile la repressione dei movimenti sociali. All'inizio del XX secolo, le suffragette inglesi sviluppano l'autodifesa moderna. A partire dal fatto che l'oppressione delle donne è direttamente legata allo Stato, osservano che la rivendicazione di un'uguaglianza civile e civica non può essere domandata pacificamente ad uno Stato che istituzionalizza le disuguaglianza sociali. Per cui queste donne praticano il ju-jitsu. Tali tecniche di combattimento permettono di occupare in maniera diversa la strada e lo spazio. L'autodifesa femminista sviluppa un altro rapporto con il mondo, un altro modo d'essere. «Così, imparando a difendersi, i militanti creano, modificano il loro proprio schema corporeo - che diventa poi il crogiolo di un processo di presa di coscienza politica», analizza Elsa Dorlin. L'autodifesa permette di utilizzare la forza dell'avversario. Quest'arte marziale permette ai deboli di difendersi contro i forti.
Nel 1942, viene creata l'Organizzazione ebraica di lotta, per permettere la difesa del ghetto di Varsavia contro i nazisti. La scelta di combattere malgrado sia stata programmata la loro morte, consente una politicizzazione della vita. Questi ebrei preferiscono morire con le armi in mano. «Si tratta quindi di preferire la lotta al suicidio: per la maggior parte dei resistenti. il suicida spreca delle pallottole che avrebbero dovuto essere destinate ai nazisti», sottolinea Elsa Dorlin. L'autodifesa ebraica si sviluppa nella Russia della fine del XIX secolo, contro i pogrom e contro l'antisemitismo. Il Bund raggruppa i socialisti rivoluzionari ebrei. Crea dei comitati di difesa insieme agli operai non ebrei. Questi servizi d'ordine vengono mobilitati anche nel corso delle manifestazioni e dei grandi scioperi. Contrariamente al Bund, il partito sionista valorizza la difesa della comunità ebraica, ma non tenta di combattere l'antisemitismo in seno al movimento operaio.
Protesta afro-americana
Negli Stati Uniti, a margine della giustizia, vengono organizzati dei linciaggi. Vengono spesso attaccati dei neri ed esprimono il razzismo degli Stati del sud. Di fronte a questa violenza, a partire dagli anni 1910, degli intellettuali neri insistono sull'autodifesa. Ma i sostenitori dell'autodifesa armata vengono considerati vicini ai comunisti.
A partire dagli anni '50, le associazioni dei neri sono divise riguardo la questione dell'autodifesa. Spesso sono alla ricerca di una certa rispettabilità, e non vogliono essere associati ai comunisti. «Privilegiando una politica integrazionista delle minoranze razziali, queste associazioni continuavano a prendere le distanze rispetto ad una coalizione di lotta contro l'imperialismo ed a dissociarsi dai movimenti rivoluzionari di liberazione e di decolonializzazione su scala internazionale», osserva Elsa Dorlin.
Robert Williams, al contrario, ritiene che la violenza sia necessaria, per una questione di sopravvivenza. Quando la giustizia non persegue la violenza nei confronti dei neri, non rimane altro che difendersi da soli. Quindi, Robert Williams ritiene che la violenza rimanga il solo mezzo per rovesciare l'ordine sociale. «Secondo lui, la strategia della violenza difensiva si lega ad una dinamica insurrezionale, la sola capace di modificare in profondità i rapporti di potere», afferma Elsa Dorlin.
Il dibattito sulla violenza è riemerso negli anni '60. Malcom X si oppone a Martin Luther King che viene accusato di lasciare indifesi i neri. Con il Black Power, l'autodifesa diventa una politica assertiva. Permette di rivendicare un diritto negato e ripristinare l'orgoglio delle minoranze oppresse. Nel 1966 vengono create le Black Panters, le quali partecipano alla politicizzazione dell'autodifesa. Tentano di unificare la comunità nera contro le brutalità poliziesche, ma anche contro il capitalismo ed il colonialismo.
All'inizio degli anni '70, negli Stati Uniti, le Pantere Nere diventano un modello di autodifesa. Per costruire la loro lotta, i gay si ispirano a questo movimento. Il Gay Liberation Front (GLF) partecipa a numerose azioni con il sostegno delle Black Panters. In questo clima di protesta «l'articolazione delle lotte anticapitaliste, antirazziste e antipatriarcali è uno dei pilastri dell'analisi politica di numerosi movimenti coalizzati», osserva Elsa Dorlin. La polizia diventa un nemico comune.
Ma in seguito il movimento gay denuncerà le violenze patriarcali ed omofobe degli afro-americani. I gay non esitano a chiamare la polizia per difendersi contro altre popolazioni oppresse. Tuttavia, le Pantere Nere fanno dei passi avanti sulla questione. Denunciano il machismo esistente all'interno dei loro ranghi. Huey Newton chiama ad un'ampia coalizione di tutti i movimenti oppressi insieme alle donne e agli omosessuali. «Noi dobbiamo acquisire la sicurezza di noi stessi e quindi avere rispetto e sentimenti per tutte le persone oppresse», considera Huey Newton.
Femminismo intersezionale
Il libro di Elsa Dorlin propone una riflessione su dei movimenti storici. Sviluppa delle connessioni fra lotte differenti al fine di tentare di collegarle per mezzo del concetto di autodifesa. Dall'altro lato, i passaggi più filosofici del libro rimangono astrusi. Le dissertazioni su Hobbes e Locke, oltre ad essere di difficile fruizione, non aggiungono granché al pensiero critico.
Elsa Dorlin si inscrive nella tradizione del femminismo intersezionale, da cui trae il meglio. Anche se questa corrente politica finisce per restare impigliata nella chiacchera filosofica o nell'obitorio sociologico, il suo approccio storico si rivela tuttavia stimolante. Elsa Dorlin si concentra sui movimenti reali e sulla loro esperienza di lotta. Riuscendo così a mostrare i punti di forza e le debolezze di ciascuna rivolta. Il suo femminismo intersezionale non consiste nel posare gli occhi su alcune oppressioni secondo una demagogia politica ben incarnata da Houri Bouteldja [Parti des Indigènes de la République (PIR)].
Al contrario, Elsa Dorlin cerca di prendere in considerazione tutte le forme di oppressione. Indica il razzismo che esiste presso alcune femministe. Sottolinea anche il machismo e la logica patriarcale che esiste nei movimenti afro-americani. Elsa Dorlin condivide le sue esperienze di autodifesa contro alcune specifiche oppressione. Ma tende a mostrare il loro orientamento a mettere sotto accusa tutte le oppressioni. L'autodifesa può quindi passare all'offensiva rivoluzionaria.
Elsa Dorlin sviluppa allo stesso tempo una certa concezione della lotta. Il suo libro permette di uscire dalla posizione della semplice vittimizzazione, oggi assai presente. Le campagne contro la violenza alle donne sono un buon esempio di questa posizione passiva della quale gli oppressi rimangono prigionieri. L'autodifesa permette alle vittime di organizzarsi per reagire e lottare. Alzare la testa ed affermare il proprio rifiuto.
Tuttavia, nonostante abbia tutte queste qualità, il libro di Elsa Dorlin riflette anche una certa sinistra postmoderna, con Foucault e Butler sullo sfondo. Questa corrente ideologica valorizza le micro-resistenze, piuttosto che i grandi movimenti di rivolta. L'intersezionialità consiste allora nell'aggiungere i collettivi che lottano contro delle oppressioni ben precise. Come la convergenza delle lotte, questa corrente vuole raccogliere i diversi settori isolati, continuando a mantenere le separazioni e le divisioni.
Al contrario, appare indispensabile affermare la necessità di un movimento di rottura con lo Stato, il capitalismo ed il patriarcato. Ciascuna lotta locale deve orientarsi verso una prospettiva globale. D'altra parte, dei movimenti di autodifesa possano isolarsi in una strategia identitaria o settoriale, senza prospettive trasversali. La valorizzazione di una cultura minoritaria rimane una posizione difensiva legittima. Ma essa deve anche sfociare in una prospettiva di trasformazione sociale. Le lotte femministe o antirazziste possono inscriversi in una prospettiva di rottura con il capitalismo. Questi movimenti sociali rendono quindi possibile diffondere delle pratiche di lotta che possono estendersi e generalizzarsi.
(Elsa Dorlin, Se défendre. Une philosophie de la violence, Zones - La découverte, 2017)
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