martedì 17 luglio 2018

Muri e Paradossi

Berlino

Estate 1962: da un anno il Muro divide la città di Berlino, e la sua popolazione, in due. È ormai sempre più difficile per gli abitanti di Berlino Est scappare verso l’Ovest democratico bucando i checkpoint o cercando di scavalcare il Muro: gli “incidenti” alla frontiera contano sempre più morti, che le propagande dell’Est e dell’Ovest si rinfacciano a vicenda.
Ma se si assottigliano le possibilità di oltrepassare il confine, si può sempre provare a passarci sotto: diversi gruppi di giovani iniziano a progettare tunnel che dal più sicuro Ovest corrano sotto il Muro e sbuchino a Est, permettendo ad amici, parenti ed emeriti sconosciuti di espatriare. Per portarli a termine occorrono nervi saldi, braccia robuste e, soprattutto, soldi.
Entrano così in scena due emittenti televisive americane rivali, la NBC e la CBS, ognuna intenzionata a finanziare la realizzazione di un tunnel, in cambio dell’esclusiva sulle immagini della fuga. Ben presto iniziano le riprese e le manovre degli scavatori, all’ombra minacciosa della Stasi, degli infiltrati e delle microspie.
Ma in questo complesso dramma spionistico deve ancora fare la sua comparsa un ultimo, fondamentale attore: John Fitzgerald Kennedy, che in piena guerra fredda non può certo permettere a una televisione americana di foraggiare piani di fuga da Berlino Est. D’altra parte, come ha detto ai suoi collaboratori, «per quanto non sia una soluzione piacevole, quel maledetto Muro è comunque meglio di una guerra».
Fra allagamenti ed esplosioni, omicidi e colpi di scena, Greg Mitchell racconta i presupposti, la realizzazione e la sorte dei Tunnel di Berlino, schiacciati tra il tremendo potere della polizia segreta della DDR e i dilemmi di un presidente costretto a censurare i media di fronte alla minaccia di una guerra nucleare.
Ma in questo saggio avventuroso e documentato, dove le atmosfere dei romanzi di Le Carré si fondono al respiro di una tragedia sofoclea, a brillare davvero è il potenziale sovversivo del singolo: dall’acclamato ciclista di Berlino Est che si riconverte in passeur all’informatore gay che decide di tradire i suoi compagni; dall’ingegnere-scavatore che avrebbe poi lavorato al canale della Manica fino alla giovane donna che si ostina a scappare con indosso il suo amato vestito da sposa di Dior, strisciando nel fango del sottosuolo verso lo sbocco del tunnel e il sogno di un futuro migliore.

(dal risvolto di copertina di: Greg Mitchell: Tunnel. 1962: fuga sotto il muro di Berlino, traduzione di Luca Fusari, Utet, pp. 420.)

Prima e dopo il Muro degli equivoci
- di Luca Crescenzi -

Ci sono luoghi, scriveva Walter Benjamin nel suo colossale frammento su Parigi, capitale del XIX secolo, la cui esistenza invisibile rimanda al passato-presente della città, contribuendo a quella simultaneità di storie – trascorse, oniriche o mitiche – che compongono nel loro insieme l’identità segreta delle metropoli. Anche per questo il XXI secolo europeo ha eletto Berlino a specchio di se stesso e della sintesi inconclusa del proprio presente; e trent’anni dopo la sua scomparsa vede ancora nel Muro il più significativo dei suoi passages: è come se quello sbarramento fra est e ovest attraversi ancora la città e debba seguitare ad attraversarla per permettere a Berlino di definire se stessa al di là della sua stratificata storia.

Fruttuoso incrocio di dati
Non per nulla la letteratura sul Muro è ricchissima e costituisce ormai un genere a sé che produce di continuo nuovi frutti. L’ultimo di questi è la brillante ricostruzione di Greg Mitchell in Tunnel. 1962: fuga sotto il muro di Berlino (ottima traduzione di Luca Fusari, Utet, pp. 420). Il tema non è nuovo; ma la ricostruzione di Mitchell ha il pregio, comune a molti dei migliori esiti della storiografia attuale, di «incrociare i dati» e comprendere nel quadro complessivo oltre alle azioni delle spie orientali a ovest e alle microstorie degli «scavatori» e di coloro a cui essi permisero di attraversare «il muro più controllato del mondo», anche la competizione fra le grandi reti televisive americane, la politica kennedyana su Berlino nel suo intreccio con la questione cubana, la tenace opposizione al pugno di ferro della Ddr del sindaco Willy Brandt e del fido Egon Bahr e altro ancora. Il tutto a partire da documenti degli archivi della Cia e della Casa Bianca de-secretati dopo il 2014 e diventati «fonte» indispensabile per qualsiasi storiografia berlinese.
In questo modo, il libro toglie al Muro l’aura di barriera travolta dalla volontà popolare acquisita con la definitiva caduta del 1989, lo libera dall’identità simbolica che l’immaginario contemporaneo gli attribuisce quale metafora di tutte le libertà possibili, e gli restituisce la temibile consistenza originaria, con il risultato – ormai quasi paradossale – di capovolgerne la leggenda: quel muro riuscì davvero a separare le persone e a dividere il cielo di una sola città; e la sua caduta non fu la conseguenza di un’incontenibile pressione di popolo, ma l’epifenomeno più appariscente del collasso di una politica di potenza.
Chi oggi si appella al Muro di Berlino come rappresentazione ideale dell’impossibilità di dividere ciò che si appartiene, fraintende il suo stesso esempio, rimuovendo il dolorosissimo (e fin troppo attuale) passato della città e separandolo dalla forma complessiva della sua identità storica.
Una rimozione analoga patisce Berlino riguardo alla sua storia postbellica prima della costruzione del Muro. Gli anni compresi fra il 1945 e il 1961 sono, nella coscienza storica europea e della stessa Germania, quelli dei governi di Adenauer, dell’aggancio a occidente e della ripresa economica. C’è anche il ricordo – sfumato dagli eventi successivi – del ponte aereo su Berlino del 1948 e della sfida alleata all’isolamento della città voluto da Stalin; ma anche quell’episodio non è registrato, in fondo, che come il prodromo della divisione della città durato per i successivi quarant’anni.

Non è dunque un caso che proprio in Germania, per opera della casa editrice Aufbau, sia stato riscoperto un romanzo pubblicato negli Stati Uniti nel 1959 da Verna B. Carleton – amica di importanti intellettuali tedeschi come Anna Seghers, Egon Erwin Kisch, Gisèle Freund e Walter Benjamin – che racconta proprio la dimenticata Berlino degli anni Cinquanta e la storia (vera) del lento ritorno di un uomo da un esilio esistenziale durato vent’anni alla città da cui è fuggito, cancellando la propria storia, i propri ricordi e la memoria stessa della propria lingua materna. Ritorno a Berlino – questo il titolo del romanzo (traduzione di Irene Abigail Piccinini, Guanda, pp. 348, euro 19,00) – racconta, in un certo senso, la storia dei molti romanzi mai scritti dagli scrittori tedeschi di quegli anni: della difficile ricostruzione intellettuale, politica e morale della Germania nel primo, lunghissimo decennio di pace dopo la fine della guerra e del Reich hitleriano. Ciò che distingue, infatti, il romanzo di Verna Carleton da tutti quelli apparsi in Germania negli anni Cinquanta è lo sguardo dall’esterno, la prospettiva quasi ingenua della narratrice, americana, che assiste, prima frastornata e poi attonita, alla catabasi del suo protagonista, al conflitto interiore fra colui che è stato e colui che ha scelto di essere e, infine, allo scontro diretto con i residui dell’orrore da cui ha potuto salvarsi.

Paradossi del tempo
Letto oggi il romanzo di Verna Carleton può apparire superato; ma è l’effetto di un paradosso del tempo. In realtà la Germania ha cominciato a rappresentare a se stessa il proprio passato solo un decennio dopo la fine dell’epoca descritta nel romanzo. E mai con la nitidezza e la lucidità che Ritorno a Berlino conserva, nel suo stile limpido e oggettivo, che ricorda – soprattutto nello splendido inizio e nel sofferto finale – i romanzi di Anna Seghers.
Qui, non sono protagonisti i destini dei reduci – tema ambiguo e prediletto dalla narrativa del dopoguerra – ma gli insanabili conflitti fra gli artefici di una storia tanto recente quanto difficile da superare. E lo sfondo berlinese della vicenda, la rappresentazione minuziosa e quasi topografica della città, con i suoi confini rigidi e al tempo stesso labili, con i suoi panorami di macerie alternati a scorci di sommarie ricostruzioni, si adatta benissimo alle contraddizioni della vicenda: come un documento della Berlino ante-Muro che si presti per un momento a diventare il palcoscenico di un dramma destinato a superare i confini della storia.

- Luca Crescenzi - Pubblicato su Alias del 12.11.2017 -

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