Sulle soglie della modernità, la povertà fa la sua comparsa sulla scena pubblica. E la fa, almeno inizialmente, in posizione di soggetto. Soggetto politico: perché il problema che pone non è più quello religioso della salvezza, ma quello secolare della conservazione della stabilità sociale. Le autorità municipali del Vecchio Continente cominciano allora a elaborare una serie di normative tendenti a una riorganizzazione radicale dei sistemi di assistenza, tradizionalmente demandata alla carità dei privati o all'iniziativa ecclesiastica. Il libro di Coccoli prende in esame i dibattiti che accompagnarono questo delicato passaggio, caratterizzato dalla laicizzazione della figura del povero e dalla necessità per i governi di affrontare politicamente la problematica dell'indigenza, divenuta una "questione sociale". Un saggio storico che non manca di offrire spunti al presente, vista anche la crescente rilevanza che il tema della povertà assume nella nostra attuale congiuntura.
(dal risvolto di copertina di: Lorenzo Coccoli, Il governo dei poveri all'inizio dell'età moderna. Riforma delle istituzioni assistenziali e dibattiti sulla povertà nell'Europa del Cinquecento, Jouvence.)
Sulla pelle degli ultimi, la costruzione di un disciplinamento
- di Vincenzo Lavenia -
Tra gli anni ’60 e gli anni ’70 del secolo scorso, grazie alle indagini di storici come il futuro eurodeputato polacco Bronisław Geremek, riemerse un dibattito poco noto che aveva diviso i fronti nel lontano secolo della Riforma. Protagonisti della disputa alcuni teologi, umanisti e giuristi celebri e meno celebri (un nome per tutti: quello di Thomas More). Il tema discusso era la gestione della povertà e della carità in anni di crescita urbana e di incipiente inflazione, quando cioè la miseria aveva cominciato ad apparire sempre più come una minaccia all’ordine, e la mobilità come il veicolo di infezioni al tempo stesso medicali e sociali.
A Lione, nel 1539, si era parlato per esempio di «navi lasciate andare senza pilota lungo il Rodano e la Soana», con un orribile carico di «gente affamata, e più smagrita e secca dei cadaveri preparati per la lezione di Anatomia»: un’autentica minaccia per la città e i traffici. Erano navi dei folli, come quelle raffigurate nei testi di Sebastian Brant; imbarcazioni che oggi ci evocano quelle di un Mediterraneo ridotto a lago di cadaveri e a scia della disperazione. Non ci sono dubbi, pertanto, sull’urgenza di un libro come quello che Lorenzo Coccoli ha dedicato a una questione in apparenza remota ne Il governo dei poveri all’inizio dell’età moderna. Riforma delle istituzioni assistenziali e dibattiti sulla povertà nell’Europa del Cinquecento (Jouvence, pp. 248, euro 22). Perché nel XVI secolo, come ai nostri giorni, la pietà stava cedendo il passo alla forca, la libertà di muoversi alla reclusione, la marginalità all’obbligo di lavorare: ovvero alla messa a frutto della miseria.
Sapevamo che un passo di Erasmo aveva suonato l’allarme: il mendicante – aveva scritto l’umanista all’inizio del Cinquecento – non poteva più sperare nella tolleranza delle autorità cittadine. Sapevamo che Lutero aveva introdotto un testo che denunciava i presunti inganni dei vagabondi per gabbare i fedeli e per ottenere l’elemosina vivendo pigramente; sapevamo, grazie a Piero Camporesi, che la letteratura proto-moderna sulla pitoccheria fu carica di risvolti picareschi e di significati disciplinari. Coccoli tuttavia ci riporta in quel contesto e riparte da un’opera del coltissimo Juan Luis Vives (scappato egli stesso da Valencia per sfuggire alle persecuzioni inquisitoriali) che nel 1526, quando ancora i cadaveri dei contadini e degli anabattisti concimavano le campagne tedesche, propose alle municipalità delle prosperose Fiandre di introdurre una polizia della povertà. All’elemosina individuale, come precetto di carità e mezzo di salvezza, si doveva sostituire una cassa pubblica e centralizzata delle offerte; all’aiuto sporadico l’assistenza regolare; alla sovvenzione indiscriminata quella oculata e capace di distinguere veri e falsi poveri (i borghesi in difficoltà che impoveriti perdevano l’onore contro le furbe maschere della marginalità da sorvegliare e da castigare). Le istituzioni pie della Chiesa avrebbero perso funzione in favore di reclusori governati da magistrati secolari; il povero l’aura di alter Christus a vantaggio della criminalizzazione e della coazione al lavoro e alla disciplina religiosa e sociale. Prima delle famigerate Poor Laws inglesi e delle istituzioni totali del XVII secolo, mentre infuriava lo scontro fra protestanti e cattolici, alcune città governate da Carlo V o poste sotto la Corona francese introdussero regolamenti e ordinanze per stabilire un nuovo governo della carità, nuovi ospizi per i poveri e una distribuzione controllata e punitiva delle sovvenzioni per i più bisognosi.
Non si trattò di un passaggio riuscito: tali disposizioni rimasero lettera morta in molte città europee; né le soluzioni proposte da Vives e da alcuni religiosi furono accettate unanimemente. Autorevoli membri degli Ordini mendicanti (come il frate domenicano Domingo de Soto, teologo di Salamanca) censurarono quelle idee e quelle norme facendo apologia di un’immagine più tradizionale e più paternalistica della carità e della povertà; le bollarono alla stregua di eresie che colpivano il precetto cristiano dell’elemosina, criminalizzavano i poveri e sottraevano alla Chiesa un campo che le era proprio. Tuttavia i novatori seppero difendersi dando vita a una controversia che Coccoli ricostruisce minutamente ed elegantemente (il libro si segnala anche per la sua scrittura limpida) non per amore dell’erudizione, ma per parlarci dei dispositivi disciplinari di ieri e di oggi; per ricordarci che l’obbligo di lavorare già alcuni secoli fa venne proposto come una soluzione contro i presunti fannulloni; che quelle discussioni prefiguravano un governo pastorale moderno e al tempo stesso coercitivo; che progettavano nuovi poveri in un momento in cui, nelle Indie di là, nasceva l’encomienda e nell’Europa cristiana tramontava una teologia della ricchezza e della povertà che studi come quelli di Peter Brown e di Giacomo Todeschini ci hanno aiutato a comprendere. E infatti il libro – che non inquadra più quella discussione in modo ottimistico come nucleo originario delle idee sul welfare – si chiude nel nome di quel Michel Foucault che, a molti anni di distanza dalla sua morte, continua a interrogarci tutte le volte che parliamo di polizia, di marginalità e di disciplina.
- Vincenzo Lavenia- Pubblicato sul Manifesto del 7.11.2017 -
Nessun commento:
Posta un commento