Lo spettro della fine degli studi classici si aggira fra noi da molto tempo. Ovunque, in Occidente, ci si dispera per il declino della fortuna del greco e del latino nelle scuole, per la chiusura delle facoltà di lettere antiche. Si vorrebbe addirittura che l'Unesco dichiarasse le lingue classiche «patrimonio dell'umanità», quasi fossero delle rovine preziose o una specie in via di estinzione. In questa decadenza, però, vi è qualcosa di paradossale: infatti, se da un lato i classici sono in declino «per definizione» (lo sono, cioè, da sempre), dall'altro sul loro destino il dibattito fra gli specialisti sembra non conoscere requie. E, soprattutto, sembra non lasciare alcuna speranza. Questo probabilmente perché continuiamo a guardare al mondo antico con rimpianto e nostalgia, o perché non riusciamo a liberarci dal timore di non poter preservare ciò che amiamo. Forse è la paura di veder svanire il fondamento della cultura occidentale. La nostra identità. Fare i conti con i classici ci invita a guardare alla cultura e alla storia greca e latina con occhi diversi. E a sottrarci al luogo comune secondo cui il dialogo con gli autori antichi sia un «dialogo con i morti». Innanzitutto perché studiare i classici significa confrontarsi non soltanto con la letteratura, la poesia, la filosofia, il teatro del mondo greco-romano, ma anche con tutti coloro che nel corso dei secoli li hanno affrontati, citati o ricreati. E poi perché in questo dialogo i veri interlocutori siamo noi. Noi che come ventriloqui diamo voce a ciò che gli antichi hanno ancora da dire, proiettiamo su di loro angosce e desideri, non smettiamo di interrogarli sui grandi temi-concetti-parole che da oltre duemila anni definiscono il nostro orizzonte culturale. E misuriamo senza posa la distanza che ci separa dal loro universo. Al quale, nonostante tutto, rimaniamo inevitabilmente legati. Perché la tradizione greca e latina non è qualcosa da imparare a memoria e declamare, ma è qualcosa con cui interagire e battagliare. Qualcosa che invita al confronto, all'avventura e alla sfida, nel tentativo di ritrovare quella connessione creativa capace di liberare tutta l'energia e la tensione di cui i classici sono ancora intrisi.
(dal risvolto di copertina di: Mary Beard: Fare i conti con i classici, Mondadori.)
Mary Beard, recensire all’inglese il mondo antico
- di Carlo Franco -
I libri sul mondo antico, contro ogni previsione, sono ancora numerosi. In più, l’italica apertura alle traduzioni rende in parte accessibile la produzione estera. Ciò aiuta a vedere le cose in modo diverso: per esempio con umorismo. Difficile immaginare un professore nostrano scrivere che il Canopo nella villa di Adriano a Tivoli è «una via di mezzo tra il pastiche colto per invitati sofisticati e una sorta di “proto-McDonald’s”, con i Big Mac serviti dentro una specie di Cappella Sistina con tanto di fontanelle ornamentali e luci colorate». Sono davvero brillanti gli antichi raccontati da Mary Beard in Fare i conti con i classici Leggerli, studiarli, amarli (traduzione di Carla Lazzari, Mondadori, pp. 392, € 25,00). Il libro raccoglie una trentina di saggi, quasi tutti usciti come recensioni di libri nella «London Review of Books», nel «Times Literary Supplement» o nella «New York Review of Books». A essere discussi sono (con una eccezione) libri anglosassoni; con recensioni destinate pure a lettori anglosassoni, che contengono ampi riferimenti a fattori culturali o a prodotti massmediatici di area, appunto, anglosassone. Eppure, Beard riesce nel compito difficile di far leggere con piacere e profitto analisi di libri che difficilmente sono stati letti in Italia (forse da qualche addetto ai lavori, o da qualche anglomane).
I pezzi per i giornali sono ordinati per macro-temi introdotti da una «cornice», preceduti da un saggio sul destino dei classici e seguiti da uno sull’arte della recensione. La scrittura è leggera, talora ironica, ma i temi affrontati sono seri. Si ragiona sulla fortuna dei classici, dalle riletture ideologiche a quelle pop del fumetto (Asterix), dagli effetti – non sempre evidenti – dello stereotipo storico-artistico (Laocoonte) agli abusi dello stereotipo turistico (Cnosso, la Grecia, Pompei). Importanti aperture sono dedicate al lato «basso» del mondo antico (la cultura della plebe, la religiosità popolare, l’uso delle lingue nell’impero romano). Viste le competenze dell’autrice, c’è più Roma che Grecia, c’è più storia che letteratura o archeologia. Sempre acuta però, che si parli di Tucidide mal interpretato o abusato; dell’uso storico del racconto di Tito Livio; dei problemi posti dalle orazioni di Cicerone usate come fonti; del complicato periodo seguito alla morte di Cesare, e così via.
Dalla discussione escono malconce alcune biografie: Beard è feroce circa i libri su Alessandro Magno, o Cleopatra, o Adriano, che cercano «una risposta alle stesse domande – quelle tradizionali – con un approccio identico e un’identica documentazione», e finiscono per concedere troppo all’immaginazione o alla espansione di dati limitati e frammentari. Tra osservazioni e battute talora taglienti si discute di quanto contava il popolo nella Roma repubblicana, o se sia possibile scrivere una storia degli imperatori romani. Di alcuni quesiti Beard ammette che non conosceremo forse mai la soluzione. Ma abbiamo pur sempre il dovere di porre buone domande, e di cercare risposte utili, se non esaustive. Se il rapporto tra imperatore e senato resta il tema classico della storia romana, è proficuo meditare la riflessione di uno storico tedesco: «i senatori dovevano comportarsi come se detenessero un potere che non avevano più, mentre l’imperatore doveva esercitare il proprio potere in modo tale da nasconderne il possesso».
In altre recensioni si toccano questioni oggetto di recentissime polemiche mediatiche. Una grande quadriga in bronzo presso Westminster Bridge a Londra celebra una figura antica, suggestiva forse, ma evanescente, come Boudicca. La regina degli Iceni, ribelle contro gli invasori romani, fu una icona dell’orgoglio «nativo» britannico. Come l’enorme Hermannsdenkmal di Detmold, verrebbe da dire. Ma il suolo britannico ospita a Bath e Manchester anche monumenti dedicati a Giulio Agricola, efficace e subdolo realizzatore della conquista romana: conquista che il «politicamente corretto» deve descrivere come un massacro imperialista e una devastante deculturazione. Eppure non si è ancora levato un sacro moto di ripulsa, e le statue del cattivissimo Agricola non sono state abbattute (come qualche settimana fa negli USA per altri personaggi). Osserva onestamente Beard, che è ora di abbandonare l’immagine dei barbari buoni e dei romani feroci soldati: brutali erano i nativi, e brutali i conquistatori, e «anche se avessero vinto i ribelli, la vita non sarebbe stata molto divertente». La storia trattata come tribunale di buonismo non può fare molta strada.
Si parla anche del mondo classico mediato dalle rappresentazioni di testi antichi (magari rivisitati in coerenza con la domanda politica del momento), o dagli studiosi che a quel mondo si sono dedicati. Illuminanti ritratti sono tracciati di sir James Frazer (Il ramo d’oro) e James Collingwood (Il concetto della storia). Più controversa la figura del filologo Eduard Fraenkel: nell’immagine ufficiale del grande grecista e latinista, costretto dalle leggi razziali a rifugiarsi in Gran Bretagna, e autore di libri fondamentali (su tutti, il commento all’Agamennone di Eschilo), si è poco parlato del fatto che egli usasse comportarsi con le studentesse in modi oggi improponibili. Beard si interroga sui limiti del dettaglio biografico e sul peso esercitato dai professori emigrés sulla cultura britannica dagli anni trenta del secolo scorso.
In ogni pagina del libro c’è qualcosa su cui riflettere, senza pedanteria. Disturbanti però sono le numerose e sgradevoli improprietà della traduzione, opera di mano titolata ma capace di sviare spesso il lettore inesperto di mondo antico. Si va dalla «restaurazione» degli affreschi di Cnosso, al carattere «incrementale» di una certa opera (ma non siamo in matematica: è un commento a Tucidide). Sconcertante è leggere che Alessandro Magno, nel mosaico di Pompei, ha appena «impalato» un nemico (quasi fosse il visir del Ponte sulla Drina). D’alta parte, Cicerone ha «soppresso» da par suo la congiura di Catilina, e quando andò in esilio lasciò «la sua scrivania a Roma» (davvero multiformi le valenze di «desk»…). Che dire delle sculture di Alessandria in Egitto, recuperate sott’acqua ma «infestate» dai molluschi? I tecnicismi della letteratura soffrono di particolari guasti. Saffo non ha mai scritto un «poema», di Cicerone non ci sono pervenute delle «terribili rime», e il suo epos autobiografico non era «in tre volumi»: ovviamente, e pur concedendo l’etimologia, era in tre «libri».
Anche con titoli e nomi non va benissimo. «Hanno» richiama l’ultimo infelice rampollo dei Buddenbrook, non il generale cartaginese che in Italia un tempo si usava chiamare Annone; «Mago» è la forma inglese o latina del nome punico «Magone». Certo, sono equivoci di uno studente del ginnasio. Eschilo scrisse una Orestea, mentre è meglio lasciare l’«Orestiade» (in appunti) a Pasolini. «Oxoniano» e «cantabrigiano» suonano non bene, e quando si legge «la cattedra oxoniana» va anche peggio (non si poteva dire «a Oxford»?). Leggere che Nicola di Damasco è uno storico «siriaco» depista certamente il lettore che non abbia sulla scrivania (desk?) i frammenti dello storico, che scriveva in greco… Ma perché tanta sciatteria?
Le pagine iniziali del libro, sul futuro degli studi classici, molto danno da pensare. L’analisi è sensibile (ecco un poco di italiano inglesizzante!) e contesta la «retorica del declino». Di ‘fine degli studi di greco e latino’ si parla da molto tempo, e questo, secondo Beard, per la nostra paura «di non riuscire a preservare ciò che amiamo»: questi studi si connotano da sempre per «il senso di perdita, il rimpianto e la nostalgia». Davvero continueremo a proiettare sugli antichi i nostri temi e problemi, perché così si fa nella cultura occidentale? Non è così sicuro che i greci e i latini reggeranno alla sfida della global history e agli assalti anticulturali dell’economia. Beard è fiduciosa: «una delle caratteristiche degli studi umanistici è sempre stata la capacità di ogni nuova generazione di congratularsi con la stessa per la riscoperta della cultura classica e, simultaneamente, lamentare il declino di quella stessa cultura». Può essere. Certo l’Italia odierna è al riparo da una simile ambiguità: v’è ben poco di cui congratularsi, e non solo nel campo degli studi umanistici. E quel «simultaneamente»? Well, in italiano, quando ancora si usava quella lingua con proprietà, si sarebbe detto: «allo stesso tempo».
- Carlo Franco - Pubblicato su Alias del 10/12/2017 -
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