domenica 1 luglio 2018

Il freddo dei buchi neri

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Grazie Stephen
- La grandezza di Hawking -
di Carlo Rovelli

Stephen Hawking non è più con noi. Ci mancano il suo sorriso sornione e l’irriverenza ragazzina che non ha mai perso neanche da vecchio e malato. E quanto malato... Sono trascorsi solo tre mesi e dieci giorni dalla sua scomparsa, ma possiamo forse già provare a chiederci, serenamente e al di là delle reazioni immediate, che cosa ci ha davvero lasciato, nella fisica e non solo.
Provo a farlo, in punta di piedi, in nome dell’amicizia e della grande ammirazione che ho per lui. Stephen è stato per prima cosa un ottimo fisico, uno fra quelli davvero bravi della sua generazione, non il grande scienziato del secolo, il novello Einstein o il novello Newton delle tante esagerazioni, esagerazioni che lui stesso non ha esitato un attimo a nutrire nella sua giocosa sfacciataggine. Inizio quindi provando a dire quali sono stati i suoi risultati scientifici importanti.
La scoperta maggiore, quella che resterà legata al suo nome, è stata la dimostrazione che i buchi neri si comportano come fossero caldi: irraggiano calore come una stufa. Vi è arrivato nel 1974 con un calcolo complesso e delicato che mescolava abilmente tecniche di relatività generale e di teoria delle particelle elementari. La temperatura che ha calcolato si chiama oggi «temperatura di Hawking»: dipende da quanto è grande il buco nero. Più un buco nero è grande, più è freddo. I buchi neri caldi sono quindi quelli piccoli.
Il risultato ha suscitato sorpresa negli anni Settanta, rendendo Stephen, poco più che trentenne, assai noto fra i fisici teorici. Prima, nessuno si aspettava che ci potesse essere una temperatura per un buco nero. Neanche lui, prima di terminare il conto. Il calore irraggiato dai buchi neri caldi è chiamato oggi «radiazione di Hawking». Non è mai stato osservato, e sarà difficile sia osservato presto, perché è debole. Ma la sua esistenza è stata poi derivata nuovamente in molti modi diversi, ed è oggi accettata come molto plausibile dalla larga maggioranza degli scienziati. Ci sono tentativi di riprodurre qualcosa di simile in laboratorio, ma senza i veri buchi neri, usando sistemi che ne mimino alcuni aspetti.
Perché è importante la «radiazione di Hawking»? Perché è un fenomeno che coinvolge tanto la struttura dello spaziotempo quanto la meccanica quantistica. Questo lo rende un indizio importante rispetto al grande problema aperto della fisica contemporanea: trovare una teoria di «gravità quantistica», cioè una teoria che descriva tutti gli aspetti «quantistici» dello spazio e del tempo. Molta ricerca attuale fa quindi uso del risultato di Hawking, o cerca di approfondirlo. Nel gruppo di ricerca dove lavoro, per esempio, stiamo ora cercando di usare una possibile teoria di gravità quantistica per calcolare che cosa succede a un buco nero dopo essersi consumato irraggiando radiazione di Hawking. C’è una formula bellissima che riassume il risultato di Hawking. Non è la formula che dà la temperatura, ma quella che dà l’entropia S del buco nero (da cui la temperatura deriva) in funzione dell’area A della sua superficie. La formula, semplice, è questa:
La bellezza di questa formula consiste nella sua semplicità, ma soprattutto nel fatto che combina le 4 costanti che stanno alla base dei quattro capitoli fondamentali della fisica: la costante di Boltzmann k alla radice della termodinamica, la velocità della luce c della relatività, la costante di Newton G che caratterizza la gravità, cioè la struttura dello spaziotempo, e la costante di Planck è alla base della meccanica quantistica. Nessuna altra formula nota mette insieme così elegantemente tutti i capitoli di base della nostra fisica. Stephen ha chiesto, a ragione, che questa formula sia scritta sulla sua tomba.
Fra i risultati minori di Stephen, i più rilevanti sono due. Da giovane, in collaborazione con il grande matematico inglese Roger Penrose, ha dimostrato che la teoria di Einstein prevede che l’universo sia nato da un «big bang»: punto singolare dove la teoria non funziona più. Questa conclusione era stata ottenuta precedentemente solo assumendo, poco realisticamente, che l’universo sia esattamente omogeneo. Il teorema di Penrose e Hawking mostra che la semplificazione non è necessaria. Questo ha reso il Big Bang più credibile.
Stephen è poi tornato sulla questione del Big Bang negli anni Ottanta, cercando di mostrare come una teoria quantistica possa effettivamente descrivere la nascita dell’universo. Ha costruito un affascinante modello intuitivo di gravità quantistica e l’ha applicato all’inizio dell’universo. Il modello è oggi considerato una delle possibilità, ma altre idee, forse più plausibili, sono oggi discusse.
C’è un filo che unisce questi risultati. Da ragazzo Stephen si è appassionato alla grande teoria di Einstein. Allora le applicazioni erano poche e la ricerca era matematica. Le previsioni fisiche spettacolari come buchi neri e Big Bang erano ancora considerate esoteriche e sospette. Penrose le aveva rafforzate mostrando che i buchi neri si formano di sicuro quando abbastanza materia si concentra, e Stephen ha avuto l’idea di usare le tecniche di Penrose per studiare la nascita dell’universo. L’idea è stata che in fondo la nascita dell’universo è un po’ come un collasso di un buco nero visto a ritroso nel tempo. Aver chiarito che dentro i buchi neri e nell’universo primordiale la relatività generale di Einstein diventa insufficiente ha spinto Stephen a cominciare a considerare effetti quantistici. In questo modo è arrivato alla radiazione di Hawking. Poi negli anni successivi ha cercato di usare pienamente la meccanica quantistica per rivedere il problema dell’inizio dell’universo alla luce dei quanti. Tutti questi problemi, sia chiaro, non sono ancora risolti. Ma in una discussione oggi su di essi non è raro sentire citato il nome di Hawking o una qualche sua idea.
Questi cenni non esauriscono l’attività teorica di Hawking, ma spero possano dare il senso di quello che ci ha lasciato nella fisica.
La vera grandezza di Stephen, però, io credo sia altrove. La sua grandezza è stata umana. Inchiodato su una sedia a rotelle, ha progressivamente perso il controllo di tutti i muscoli del corpo. L’ultima volta che l’ho incontrato, a Stoccolma, riusciva a muovere appena gli occhi. Comunicava muovendoli: un sistema elettronico leggeva il movimento dei suoi occhi con una piccola telecamera, e grazie a questo Stephen controllava un computer e metteva laboriosamente lettere in fila, per costruire parole, che venivano infine pronunciate da un sintetizzatore vocale. Uno strazio, guardarlo in questo processo faticoso e lentissimo. Eppure la voce di quel sintetizzatore vocale è arrivata al mondo intero. Quella voce metallica così caratteristica, Stephen è riuscito a farla sua e farne il tramite quasi naturale della sua brillante intelligenza e della sua ironia.
Non si è perso d’animo. Ha continuato a produrre fisica di grande qualità, mentre lo stato del suo corpo non faceva che deteriorare. In condizioni che rasentano l’impossibile, è riuscito a comporre un libro di immenso successo (Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo). Nei trent’anni dalla sua pubblicazione ha venduto oltre 10 milioni di copie, e continua a essere letto. Attraverso questo libro ha parlato ai giovani del mondo intero, incantandoli e ispirandoli a studiare l’universo.
Nell’estrema sfortuna di una simile disabilità, Stephen ha avuto anche non poche fortune: un’intelligenza molto rara, un’ottima famiglia dell’intellighenzia inglese, un’educazione di primissimo ordine, un decorso della malattia lento nonostante catastrofiche previsioni iniziali. Il suo valore scientifico, poi la sua fama, gli hanno permesso quello che altri con simili infermità non possono permettersi. Ma anche tenendo conto di tutto questo, Stephen, nel suo modo un po’ sfacciato da eterno ragazzetto impunito, ha dato al mondo una lezione umana straordinaria. Una lezione di amore per la vita, per l’intelligenza, per la curiosità.
Il giorno successivo al piccolo meeting di Stoccolma dove era così difficile e straziante comunicare con lui, Stephen dava una conferenza nel più immenso teatro della città. Gremito all’inverosimile di giovani che pendevano dalle sue labbra. È arrivato sul palco con il suo sorriso mite, la sua mitica sedia a rotelle, e ha fatto partire la registrazione della sua conferenza, preparata muovendo i muscoli degli occhi. Ha raccontato i suoi ultimi tentativi di comprendere il futuro dei buchi neri, ha scherzato, preso in giro i francesi, giocato sul senso della vita, irrispettoso, ribelle, con un sorriso fra le labbra che traspariva da ogni frase. L’immenso pubblico ne era stregato. Le parole finali erano ancora una dichiarazione di amore per la vita, come sempre giocata sull’ambiguità: dai buchi neri si può uscire.
Stephen era certo che la vita non continua in alcun modo dopo la morte. Come molti scienziati, amava usare «Dio» per frasi a effetto, ma era limpidamente e risolutamente ateo, senza ambiguità o incertezze, e non ha esitato a dirlo chiaramente. Non era in consolazioni trascendenti che trovava forza. Era prigioniero della più debilitante delle infermità, legato al resto di tutti noi da un filo sempre più esile. Eppure ha continuato a vivere fino all’ultimo istante con intensità bruciante, a scherzare, a parlare al mondo intero, a comunicare allegria e gioia, a trascinare la gioventù nei suoi entusiasmi. Non è questa una straordinaria lezione di vita per tutti noi lagnoni? Non è questo il dono infinitamente prezioso che Stephen ci lascia? L’irresistibile luminosa forza della vita, della curiosità, del pensiero, dell’intelligenza.
Ora quel filo esilissimo si è spezzato. Prima di sparire del tutto, come succede a ogni cosa, sciogliendosi nell’immensità di quello sterminato cosmo che tanto amava, Stephen resta ancora per un po’ vivo e operante nella nostra scienza, nella nostra memoria, nelle nostre emozioni, nei nostri pensieri. Grazie, Stephen.

- Carlo Rovelli - Pubblicato sulla Lettura del 24/6/2018 -

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