Nel 2002, Fredric Jameson pubblica un libro, "Una modernità singolare", nel quale discute la modernità a partire da alcune questioni sollevate, dieci anni prima, da Perry Anderson, nel suo libro "A Zone of Engagement". Anderson - commenta Jameson - propone la Modernità come "un campo di forza triangolato da tre coordinate principali":
a) Convenzionalismo e Accademicismo, nel campo delle Arti (norme di produzione e di condotta).
b) Innovazione tecnologica.
c) Prossimità (immaginata) di una rivoluzione sociale.
Come ha fatto spesso, altre volte, Jameson recupera Balzac, per dar conto di questo campo di forza della Modernità, nel corso del diciannovesimo secolo - sebbene Anderson, invece, citi specialmente Manet, Baudelaire e Flaubert; così Jameson sottolinea la capacità di alcuni autori/opere (Balzac, Flaubert. Stendhal) di riuscire a captare una nuova dinamica non ancora visibile (o, geograficamente rappresentativa) ma che incideva direttamente sulle forma di vita allora nascenti. Ed è, in parte, quest'inquietudine della rottura imminente, a dare enfasi ad alcuni romanzi di questi autori: le contraddizioni della città, il divario tra i desideri dei personaggi e quello che vedono e vivono, la stupidità palese insita nei modi tradizionali di concepire il mondo, la letteratura, l'arte, il sesso, i corpi, ecc.
La Modernità non si risolve con le dicotomie, bensì nella fluidità delle contraddizioni nei casi specifici.
La città è la liberazione dalla mentalità provinciale, ma è anche il terreno delle illusioni, dell'inganno e dell'impotenza - insieme al sesso, che è sia liberatorio e fonte di conoscenza, quanto gioco di potere e assoggettamento. Il finale de "L'educazione sentimentale" di Flaubert rimane paradigmatico: nell'immagine dei due amici che si recano al postribolo, si condensa il sesso, la politica, la rivoluzione, la mappa della città e la temporizzazione delle aspettative e dei desideri. Dopo tutto, stanno solo ripetendo una scena precedente, ma la ripetizione della scena annuncia la ripetizione della Storia. La sua irreversibilità, la matrice autofagica della nostra concezione del tempo.
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