mercoledì 21 marzo 2018

Debiti

Dostoevskij

Non una sola lettera di Dostoevskij fu scritta col pensiero che essa potesse essere letta da altri che non fosse il destinatario o persona a lui vicina. Eppure, quando lo scrittore iniziava a scriverne una, non se ne staccava fino a quando non avesse detto tutto quel che gli riempiva l’animo in quel momento. È proprio questa necessità spirituale, questa maniera di confidarsi nelle lettere che rende l’epistolario una fonte esegetica imprescindibile per comprendere la genesi delle singole opere e del complesso dell’arte di Dostoevskij tanto da un punto di vista prettamente letterario quanto biografico psicologico. 

(dal risvolto di copertina di: Fëdor Dostoevskij: I demoni quotidiani. Lettere, a cura di Ettore Lo Gatto, Aragno, 2 voll., pp. 930, euro 30,00)

Notizie da un Io smisurato quanto i suoi debiti
- di Valentina Parisi -

Se si volesse individuare il luogo di un climax speciale nelle lettere dostoevskiane curata da Ettore Lo Gatto nel 1950 e riproposte ora da Nino Aragno con il titolo I demoni quotidiani (2 voll., pp. 930, euro 30,00) lo si troverebbe probabilmente nella missiva del 24 marzo 1870 indirizzata da Dresda ad Apollon Majkov. Qui Fëdor Dostoevskij, benché sprofondato nella stesura dei Demoni («Quel che scrivo è una cosa tendenziosa. I nichilisti e gli occidentalisti diranno che sono un retrogrado! Che il diavolo se li porti…»), comunicava già all’amico l’idea per il progetto che l’avrebbe occupato nell’ultimo decennio della sua esistenza e cioè quel romanzo chiamato provvisoriamente La vita di un grande peccatore che si sarebbe poi tramutato nei Fratelli Karamazov. Mai la esuberante immaginazione dello scrittore era stata mobilitata contemporaneamente su tanti fronti, a evocare visioni che andavano dalla figura tormentata di un protagonista «ora ateo, ora credente, ora fanatico e settario, ora di nuovo ateo» alle mura di un eremo dove avrebbe voluto convocare Belinskij, Caadaev e Puskin (ovviamente sotto mentite spoglie) a discutere della Russia e dei suoi destini. Ricatti editoriali. D’altronde, se i propositi creativi si succedevano nella sua mente a una velocità così vertiginosa, ciò era dovuto più che altro a una circostanza che lo avrebbe accompagnato lungo tutto l’arco della sua carriera e che emerge con flagrante evidenza anche dalla lettera a Majkov: «E intanto sono positivamente in una posizione terribile (mister Micawber). Non ho una sola copeca e dobbiamo vivere fino all’autunno, quando avremo il denaro». Paragonandosi ironicamente al personaggio tragicomico creato da Charles Dickens in David Copperfield, il romanziere russo sottolineava una costante («ho lavorato tutta la vita a causa del denaro e tutta la vita sono stato in bisogno») che rendeva la sua situazione ben differente da quella dei colleghi aristocratici, in primo luogo Ivan Turgenev e Lev Tolstoj. Così, non c’è da meravigliarsi se le «vili» questioni economiche tornano nelle sue lettere con un’insistenza che conferma la convinzione espressa da studiosi come Donald F. McKenzie secondo cui l’opera letteraria è anche il prodotto della contrattazione talora spietata con quegli intermediari chiamati editori.
Estraneo alla dolorosa, lancinante introspezione psicologica che caratterizza altri carteggi (uno su tutti, anche se il contesto è ovviamente diverso, quello di Marina Cvetaeva), l’epistolario di Dostoevskij, fin dalle prime lettere indirizzate al fratello Michail negli anni quaranta, è innanzitutto una viva testimonianza di come funzionava il sistema editoriale russo verso e oltre la metà dell’Ottocento, tra contratti-capestro, scadenze angoscianti e anticipi che spesso servivano agli autori esclusivamente per saldare i debiti precedenti. Per non parlare della censura di Stato, più potente e temibile di qualsiasi critico. Oberato dalla necessità di provvedere alle esigenze della propria famiglia e a quella del fratello prematuramente scomparso, pungolato da un amor proprio almeno pari al proprio talento e incalzato in continuazione dagli editori, al di là del lavoro creativo Dostoevskij difficilmente prendeva la penna in mano se non per cercare di strappare prestiti agli amici, impietosire i creditori e proporre ai redattori delle riviste le sue opere ancora non scritte, eppure già quantificate in fogli di stampa.

A Apollinarija Suslova
Ciononostante, le sue lettere si leggono a tratti come un autentico romanzo, soprattutto là dove l’autore tende a sottolineare (non senza un certo autocompiacimento) la propria estraneità all’odiato «buon senso» borghese e all’attaccamento filisteo al denaro, anche nelle situazioni di indigenza più estreme. Emblematiche, a questo proposito, sono le missive inviate da Wiesbaden alla sua amante Apollinarija Suslova, prototipo per il personaggio di Polina nel Giocatore. Dopo aver sperperato alla roulette fino all’ultimo centesimo, lo scrittore si era letteralmente asserragliato in una stanza d’albergo che non poteva più pagare e, nutrendosi soltanto di un tè «cattivissimo», attendeva nervosamente che da Ginevra Aleksandr Herzen gli spedisse del denaro per uscire da quella situazione imbarazzante. Proprio in quei giorni, tormentato dal disprezzo dei camerieri tedeschi che gli lesinavano perfino le candele per scrivere di notte, Dostoevskij mise a punto la trama di Delitto e castigo.
Una analoga sensazione di accerchiamento emerge dalla lettera del 23 aprile 1867 indirizzata sempre a Suslova, in cui le comunica di essersi risposato con la stenografa che l’aveva aiutato a consegnare il Giocatore in soli ventiquattro giorni e di essere precipitosamente partito con lei alla volta di Dresda per evitare di finire in carcere per debiti come mister Micawber. Sebbene il soggiorno all’estero, prolungatosi per ben cinque anni, avesse permesso a Dostoevskij non solo di sfuggire ai creditori, ma anche di riprendersi dalle crisi epilettiche che a Pietroburgo lo perseguitavano con sempre maggior frequenza, la nostalgia per la Russia, non smise mai di attanagliarlo. Di converso, l’immagine che dell’Occidente affiora dal carteggio con gli amici Majkov e Nikolaj Strachov è quantomeno desolante, anzi: fa quasi fatica a emergere rispetto al ricordo, ampiamente idealizzato, della madrepatria. Già nel settembre 1863 Dostoevskij aveva riferito della singolare impossibilità di scrivere di Roma, pur trovandosi nella Città Eterna ormai da qualche giorno, a tal punto le preoccupazioni russe lo sovrastavano. A maggior ragione, questa reticenza varrà per quei luoghi in cui lo scrittore, benché disgustato dalla routine familiare, vivrà barricato tra le quattro mura domestiche, pur di evitare i suoi compatrioti emigrati, da lui invariabilmente tacciati di liberalismo e russofobia.

Le tappe europee
Così, Ginevra gli appare «noiosa, tetra, una stupida città protestante con un clima orribile»; Vevey dannosa per i nervi suoi e della moglie; Firenze «bella ma molto umida». Dal canto suo, Dresda ha l’unico vantaggio di essere meno cara di Pietroburgo, mentre Milano gli nega anche quel conforto che almeno gli concedeva la Svizzera, vale a dire poter uscire di casa per leggere i giornali russi al caffè. Consapevole di frustrare le aspettative dei suoi corrispondenti con sfoghi eccessivamente irruenti e biliosi, Dostoevskij ammetterà nel 1865 ad Aleksandr Vrangel: «Io non so scrivere lettere e non so scrivere misuratamente di me stesso». Ed è forse proprio questa smisuratezza a rendere il suo epistolario tanto più interessante, elevandolo a riflesso fedele di un’esistenza braccata e inquieta.

- Valentina Parisi - Pubblicato su Alias del 1° ottobre 2017 -

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