domenica 17 agosto 2025

Traducibilità…

   Nel suo saggio "Sul dicibile e l'idea", contenuto nel libro "Che cos'è la filosofia?", Agamben si interessa di ciò che ... "quasi" si può dire o si può esprimere; quel punto in cui si annuncia... la "certezza", senza che tuttavia essa arrivi mai a completare definitivamente quel suo ciclo. Così, in tal modo, l'idea spinge il dicibile verso un'astrazione che riguarda il linguaggio. E tuttavia, questo linguaggio non si riferisce a un linguaggio specifico, quanto piuttosto alle possibilità relative a «tutti i nomi e a tutte le lingue». Come esempio, Agamben si avvale dello storico Arnaldo Momigliano, e si riferisce alla sua idea secondo cui «il limite dei Greci, consisteva nel fatto che non conoscevano le lingue straniere»; cosa che, peraltro, costituisce anche il limite di ogni pensiero unilaterale. Ed è per questo motivo che Agamben propone l'ipotesi secondo la quale  il dicibile - «l'elemento linguistico proprio dell'idea» - non sia semplicemente il «nome», ma piuttosto la traduzione, «o ciò che in esso è traducibile». Pertanto, la traduzione emerge come se quello fosse un compito allo stesso tempo etico ed estetico, che attraversa i diversi ambiti che regolano la convivenza degli esseri in comunità. Però, la traduzione si sviluppa anche lungo un paradosso: noi comprendiamo il senso generale di un testo – la trama di romanzi quali Don Chisciotte o Moby Dick, per esempio – proprio allorché ne leggiamo una traduzione; ma, attraverso la lettura, quel che "capiamo" è anche che nessuna di quelle parole è stata scritta dall'autore. La consapevolezza della "artificialità" della traduzione, tuttavia, non impedisce al lettore di godere del testo, e di portarlo con sé per il resto della propria vita, cucendolo alla propria soggettività (come fece Jorge Luis Borges, il quale, da bambino, lesse per la prima volta il Chisciotte in inglese, e poi in seguito ebbe a dichiarare come fosse stato invece l'originale spagnolo a essergli sempre sembrato una traduzione).

   Per Agamben (sempre in questo saggio "Sul dicibile e l'idea"), è la "traducibilità"a garantire il movimento del pensiero nel tempo, ponendolo all'incrocio di una possibilità e di una impossibilità, e situandolo così «sulla soglia che unisce e divide i due piani del linguaggio»; quello semiotico e quello semantico (il piano della materialità e il piano del significato). Ed è stato per questo motivo che Walter Benjamin ha sempre sottolineato la "rilevanza filosofica" della traduzione; cosa che poi Agamben sviluppa in dettaglio. La possibilità di tradurre costituisce, in larga misura, un atteggiamento verso il mondo e verso l'altro, verso il diverso, verso il lontano (ed ecco perché, per il Novecento, il caso di Joseph Conrad è paradigmatico e suscita così tanti commenti e riutilizzi narrativi). In quest'ottica, ecco che la "traducibilità" fa parte della consapevolezza che dobbiamo avere a proposito del fatto che la mia lingua non è il centro del mondo; ovvero, non è l'istanza regolatrice degli affetti e degli orizzonti: riconosco i limiti del mio mondo esercitando il desiderio di tradurre ciò che ancora non conosco. È pertanto, a questo punto della traducibilità che si trovano le riflessioni di Agamben su Hölderlin e sulla lingua, pur provenendo esse da dei contesti e da delle pubblicazioni diverse: ciò perché è anche a partire dalla traduzione che Hölderlin si situa di fronte al proprio tempo; oltre che a una contemporaneità obbligatoria nei confronti di alcune figure dello stesso periodo (Hegel, Napoleone), Hölderlin stabilisce - attraverso la traduzione - una contemporaneità all'antichità che non è contemporanea; nello specifico quella a Pindaro e Sofocle.

fonte: Um túnel no fim da luz

sabato 16 agosto 2025

La "Educazione" di Hannah Arendt, e quella di Donald Trump !!!

   Spesso, appare difficile comprendere in che modo il mondo accademico, e in particolare il mondo filosofico (in quelle che sono oltretutto le sue tendenze che pretendono addirittura di essere le più democratiche), finisca poi per partecipare alle forme più autoritarie della politica. Così, le recenti misure, in America -  volte a eliminare l'”affirmative action” nelle università, o semplicemente a tornare al principio di segregazione, che si pensava fosse stato definitivamente abbandonato a partire dagli anni '50, non sono l'unico risultato di una governance che è diventata improvvisamente dittatoriale, o che ha completamente abbandonato i principi di razionalità.

   Ma questo tipo di posizione lo si trova anche nella letteratura della filosofia e delle scienze umane, proprio tra gli autori che sono i più commentati o i più insegnati, vale a dire i più autorevoli oggi nel campo della teoria politica. Questo è purtroppo ciò che Kathryn Belle ci dimostra, a proposito degli anni '50, nel suo libro su "Hannah Arendt e la questione nera", tradotto in francese da Benoît Basse, nella raccolta diretta da Emmanuel Faye (la versione originale inglese è stata pubblicata nel 2014 da Indiana University Press con il nome dell'autrice Kathryn B. Gines).
L'autrice e l'editrice si chiedono come una teorica politica, nota per le sue critiche all'antisemitismo, all'imperialismo e al totalitarismo, possa prendere posizione, con le sue "Riflessioni su Little Rock", contro le leggi volte a porre fine alla segregazione nelle scuole pubbliche americane, contro la decisione della Corte Suprema e contro tali posizioni dei liberali. Come e perché, agli afroamericani negli stati del sud, dovrebbe essere negato l'accesso alle scuole pubbliche? Come possiamo assumere una posizione che è oggettivamente la stessa di "quella dei bianchi razzisti"? In nome di quale visione dell'educazione e della società futura, si chiede Emmanuel Faye nella sua prefazione?

   Il filosofo francese nota infatti che lo scritto di Arendt – per non parlare del commento di K. B. Gines – viene preso assai poco in considerazione dalle scienze dell'educazione: viene lasciato da parte, o, quando viene citato, ciò avviene nel tentativo di minimizzarne il contenuto. Si dice che Arendt abbia ritirato dalla rivista Commentary, che intendeva associarlo a una risposta critica di Sydney Hock, il suo articolo su Little Rock. La teorica americana ebbe comunque a pubblicare il testo due anni dopo su un'altra rivista, senza una risposta da parte del suo avversario. Molti altri intellettuali americani, e non solo neri, discussero pubblicamente contro la posizione politica di Arendt - così come fecero Sydney Hook, James Baldwin e Ralph Elisson - senza però che Arendt rispondesse in modo soddisfacente alle loro argomentazioni. In questo modo, secondo Faye, Arendt avrebbe «schivato il dibattito» (p. 13). In sostanza, Hannah Arendt ritiene che la segregazione scolastica – a differenza dei diritti matrimoniali, per esempio – non sia un problema politico, ma solo un problema sociale. Scrive che «la discriminazione è un diritto sociale [tanto indispensabile quanto l'uguaglianza è un diritto politico]» (cit., p. 12) La questione non è abolire la discriminazione, ma mantenerla nella sfera sociale, laddove è legittima. E questo perché la società americana è segnata dalla "tradizione della schiavitù". La segregazione è «radicata nella tradizione americana, e questo è tutto» (citato a p. 51). Relegare la discriminazione razziale a essere solo una questione sociale,  è questo ciò che Belle critica, in quanto, così com'è anche per molti altri autori, essa costituisce una questione politica, allo stesso modo in cui lo è l'antisemitismo. Inoltre, Belle è indignata a causa del ritratto condiscendente, dato dalla teorica americana, a proposito delle persone di origine africana, che vengono descritte come "parvenu", anziché come dei "paria consapevoli". Le rimprovera di non essersi messa nei panni delle donne nere e delle famiglie nere, e di non essere informata circa le loro motivazioni. Di conseguenza, Belle non si concentra sulla problematica relativa a Little Rock, che è poi il punto di partenza del libro, e la cui trattazione occupa i primi tre capitoli.

   Si impegna piuttosto a rileggere anche gran parte dell'opera di Arendt, vedendola dal punto di vista di quella che lei chiama la "questione nera", così come viene affrontata in "Vita activa. La condizione umana"; in "Sulla rivoluzione"; e in "Sulla violenza" (capitoli da 4 a 7). La questione nera riguarda tutto ciò che tocca la schiavitù, la segregazione, il colonialismo, l'imperialismo, la parità di diritti. Belle la distingue dal problema nero, nel senso che, per lei, come per Richard Wright in passato, «non esiste un problema nero negli Stati Uniti, ma c'è solo un problema bianco» (citato da Jean-Paul Sartre, p. 25). E questo è il problema del razzismo. Si tratta, ad esempio, del razzismo sistemico nei sistemi educativi, e non della presenza di studenti neri che ne abbasserebbero il livello. È il fatto di considerare gli studenti neri come degli esseri incompetenti e violenti (p. 238); si tratta di non considerare - nella Rivoluzione americana -  la contraddizione tra libertà e schiavitù (p. 153); si tratta di limitarsi a denunciare la violenza anticoloniale e negare che esista qualsiasi forma di ribellione, o di rivoluzione, contro la colonizzazione; il che inoltre contrasta con le osservazioni fatte sulla necessaria resistenza ebraica (p. 229).

    Il libro di Kathryn Belle è il risultato di un'indagine meticolosa e sincera, condotta secondo un approccio scientifico irreprensibile. Una lettura del genere appare indispensabile fin dal momento in cui si intenda affrontare la teoria politica di Arendt e, più in generale, le questioni del razzismo e della segregazione in relazione alle scienze umane. La questione non riguarda tanto il pensiero di Arendt in quanto tale, o le sue posizioni di intellettuale, ma piuttosto l'uso che intendiamo fare oggi della sua teoria politica, e della sua concezione dell'educazione e della segregazione. Lungi dall'essere intellettualmente autorevole, il riferimento a Hannah Arendt rischia di apparire piuttosto problematico per i sostenitori dell'uguaglianza nelle scuole pubbliche, per i teorici della democrazia, per i difensori del pensiero critico e più in generale per i progressisti e i liberali. Somiglia piuttosto, nel momento in cui scriviamo, a quelli che sono i discorsi e le decisioni politiche del governo degli Stati Uniti, e non solo in quelli che sono i suoi obiettivi – il diritto alla segregazione, o il rifiuto di porvi fine – ma gli somiglia anche nella forma, vale a dire, nell'eludere l'argomentazione e il dialogo e nel mettere al bando l'approccio scientifico.

- Alain Patrick Olivier - Pubblicato su Raison présente 2025/2 N° 234 -

- Kathryn Sophia Belle, Hannah Arendt et la question noire, Traduit de l’américain par Benoit Basse, avant-propos d’Emmanuel Faye, Paris, 2023, Kimé, collection « Philosophie critique », 280 pages, 25 € -

venerdì 15 agosto 2025

4 Precauzioni !!

«Non possiamo scegliere tra combattere l'antisemitismo e condannare Israele per Gaza»
-  Eva Illouz, Haaretz, 8 agosto 2025 -

In genere, nelle società occidentali gli intellettuali non hanno una vita difficile. Di solito, osservano il normale caos delle vicende umane, ed emettono verdetti che ricordano alla comunità i valori fondamentali. Eppure la situazione che oggi si trovano ad affrontare gli intellettuali ebrei contemporanei appare molto più tesa: essa si confronta non solo con delle follie umane radicalmente contraddittorie, ma anche con quelle che sono delle lealtà contrapposte. Quando si gira la testa verso sinistra, non si può non notare lo spettacolare ritorno dell'antisemitismo anche all'interno delle società democratiche occidentali. Questo fenomeno è palpabile nell'aumento vertiginoso dei crimini d'odio contro gli ebrei, in tutta l'Europa occidentale e negli Stati Uniti: nella diffusa ossessione pubblica per Israele e per le sue azioni, nella demonizzazione del sionismo visto come ideologia particolarmente criminale, e nel boicottaggio degli israeliani e ci ricorda la stigmatizzazione e la ghettizzazione degli ebrei in passato. Tutto questo, con il pretesto di affermare che l'antisemitismo non esiste, che è un argomento manipolatorio usato dagli ebrei o, meglio ancora, è solo una reazione comprensibile a causa delle azioni di Israele. Dopo il 7 ottobre, l'intellettuale ebreo è stato costretto a tornare sobrio, e a riconoscere che l'antisemitismo - la forza irrazionale che governa gli affari umani - proviene dai ranghi di quelli che oggi sono i suoi attivisti apparentemente più democratici. Ma quando quello stesso intellettuale gira la testa a destra e guarda Israele, vede una società il cui governo crede che Dio sia personalmente coinvolto nelle sue decisioni antidemocratiche. E questo governo ha dichiarato lo stato di guerra senza fine contro i palestinesi, preferendo la forza alla diplomazia. A partire da un misto di negligenza e di incompetenza, insieme a un inestinguibile desiderio di vendetta, alimentato dall'eccezionale crudeltà con cui gli ebrei (e alcuni non ebrei) sono stati massacrati il 7 ottobre, questa società si rifiuta di vedere e registrare le morti e la fame che ha causato. (Le immagini degli ostaggi torturati, servono a far rivivere periodicamente l'agonia collettiva degli israeliani). Quello che vede, è pertanto un governo che ha di fatto seppellito l'idea di Israele in quanto stato ebraico e democratico. Di fronte a questa realtà a due facce, su quali valori si deve fare affidamento? Quale gruppo si dovrebbe rappresentare e difendere?
Come ha proposto il filosofo Raphaël Zagury-Orly *, non dobbiamo scegliere tra la lotta contro l'antisemitismo, e la condanna di Israele per i suoi misfatti. Dobbiamo mantenere comuni questi due fili. Sì, questo compito richiede che abbandoniamo le logiche binarie e facili rispetto a questo conflitto. Oggi, ci troviamo di fronte a una nuova sfida, e bisogna che la nostra critica debba impegnarsi su due fronti: rimanere costantemente vigili a proposito della storia univoca di questo conflitto, esaminandone attentamente la terminologia utilizzata, in modo da dargli un senso. Consiglio quindi di prendere le seguenti precauzioni.
La prima è storica: Israele non è nato nel peccato. La sua creazione, non è stata una vendetta per l'Olocausto. Né tantomeno è stata "colonialista", nel senso in cui i tedeschi o gli inglesi si erano appropriati della Namibia o dell'India. Gli ebrei hanno sempre avuto un legame storico con Israele, e ci sono sempre stati; il che rende inappropriato il concetto di colonialismo. Questo paese è stato creato legalmente, a partire da una vittoria militare contro gli eserciti arabi che avevano respinto la decisione dell'ONU di riconoscerlo, nel 1947. I suoi 7 milioni di cittadini ebrei non avevano alcuna altra patria a cui tornare. Se la parola giustizia ha un significato, permettere a uno dei popoli più perseguitati della storia di vivere in pace su un minuscolo fazzoletto di terra, dovrebbe sicuramente essere un imperativo morale per il mondo. Se i cristiani, gli indù e i musulmani godono di milioni di miglia quadrate, è responsabilità morale del mondo garantire agli ebrei un territorio grande quanto il New Jersey in modo da poter assicurare la loro esistenza nazionale. Qualsiasi messa in discussione delle origini legittime dello Stato di Israele va respinta e abbandonata.
Seconda precauzione: sin dalla sua creazione, Israele si trova in uno stato di guerra permanente; un fatto questo, intimamente legato all'odio singolare che gli ebrei e Israele sembrano suscitare. Dopo la seconda guerra mondiale, milioni di persone sono state sfollate,  e le loro sofferenze sono state in gran parte dimenticate. Rispetto a quella di altri gruppi di sfollati, la storia del popolo palestinese deve essere vista in questa luce. Dobbiamo chiederci perché sono stati apolidi per così tanto tempo, quale ruolo gioca Israele in tutto questo, ma anche quali responsabilità hanno in questo tragico destino il mondo arabo, i palestinesi e le organizzazioni internazionali.
Terza precauzione: bisogna prestare attenzione alla realtà sul campo. L'Europa vive in pace, ma non è così per gli israeliani, né ora e né in passato. Hanno dei veri e propri nemici, i quali rendono miserabile la loro vita quotidiana. L'attuale dibattito sul fatto che Israele stia commettendo un genocidio, dimentica che se Hamas avesse liberato gli ostaggi civili che deteneva, avrebbe di fatto posto fine alla guerra e, con essa, anche alla distruzione delle vite dei palestinesi. Sì, anche Israele ha una certa responsabilità per le sofferenze dei palestinesi a Gaza, e ha causato distruzioni sproporzionate, ma Hamas ha certamente una responsabilità politica. Il 7 ottobre, Hamas sapeva che la risposta israeliana sarebbe stata feroce. Tuttavia, non ha mai offerto i suoi tunnel alla propria popolazione in modo che potesse lì rifugiarsi. Si rifiuta di rilasciare gli ostaggi: cosa che alimenta la politica militare estremista del governo israeliano. Come riferisce Ahmed Fouad Alkhatib, un palestinese nato a Gaza e direttore di Realign Palestine, gli abitanti di Gaza sono furiosi con i combattenti di Hamas, i quali saccheggiano il cibo in spregio degli abitanti di Gaza. «La loro rabbia è diretta principalmente contro Hamas, che viene ritenuta responsabile di aver messo il popolo di Gaza in questa situazione, a causa del suo persistente rifiuto di porre fine alla guerra che ha scatenato.» Israele è impegnato in una guerra che non ha iniziato. Dobbiamo perciò riconoscere che i palestinesi sono degli attori politici con interessi, e che spesso ricorrono alla violenza per raggiungere i loro obiettivi. Riconoscere il loro diritto a uno Stato, come faccio io, non significa che siano vittime pure e innocenti. Anche 22 Stati membri della Lega Araba hanno riconosciuto questa realtà chiedendo ad Hamas di disarmare la scorsa settimana, in una dichiarazione che storicamente è decisiva e senza precedenti. Così facendo, la Lega Araba ha dimostrato di sapere ciò che molti progressisti occidentali sembrano incapaci di capire: Hamas è un attore politico pericoloso, determinato a destabilizzare l'intero Medio Oriente.
La quarta precauzione è quella per cui non dobbiamo fare a Israele delle richieste he non siano state rivolte a nessun altro paese. Il boicottaggio degli israeliani in quanto israeliani, è puramente e semplicemente razzista. Chi mai penserebbe di boicottare gli accademici iraniani a causa del loro regime canaglia? Chi si sognerebbe di boicottare gli americani a causa delle molte guerre di dominio politico ed economico condotte dal loro paese? Come mai gli oltre 85.000 bambini che sono morti di fame nello Yemen, a causa della guerra civile negli ultimi dieci anni - oppure i milioni di sfollati in Sudan - non hanno toccato la sensibilità degli artisti, degli intellettuali e degli studenti occidentali, curiosamente assenti da queste tragedie?  

  Il mio punto di vista è pertanto relativamente semplice: spesso la critica di Israele diventa pericolosamente vicina all'antisemitismo, e deve essere esaminata attentamente. Molti benefattori riciclano inconsapevolmente delle visioni del mondo antisemite. Coloro che hanno un minimo di conoscenza della storia del conflitto, dovrebbero smettere di incolpare Israele per la tragedia in corso. E in questo caso, la nostra compassione per i civili, palestinesi o israeliani, non può essere la nostra unica guida morale e intellettuale. L'Unione europea e gli Stati Uniti devono chiedere congiuntamente un cessate il fuoco da entrambe le parti. Incolpare solo una parte, qualunque essa sia, non ci porterà lontano. Le masse di israeliani che lottano per la loro democrazia, e contro le politiche del primo ministro Benjamin Netanyahu devono essere sostenute, e non boicottate. Allo stesso modo, i palestinesi che sostengono una riforma dell'Autorità Palestinese per sostituire Hamas, devono essere sostenuti da Israele e dal resto del mondo. Gaza deve essere ricostruita in modo che si possa creare uno Stato palestinese vitale che non minacci l'esistenza stessa di Israele. Nonostante le difficoltà, bisogna stabilire una forma di fiducia tra due popoli profondamente traumatizzati. Il mondo ha bisogno di linee rosse. Se il governo Netanyahu cerca l'occupazione permanente di Gaza minando, come sta cercando di fare, il suo sistema giudiziario – e quindi democratico – le garanzie e le sanzioni potrebbero allora essere una risposta adeguata. Nel frattempo, gli amici di Israele non devono chiudere un occhio sulla natura del governo di Gerusalemme, sulle sue priorità sbagliate, sulla sua incompetenza e sulla sua ormai ingiustificabile guerra a Gaza. Ma dobbiamo anche tenere a mente che l'estremismo interno di Israele è alimentato dall'antisemitismo esterno.

-  Eva Illouz, Haaretz, 8 agosto 2025 - fonte: https://www.lapaixmaintenant.org/

Gli Ebrei, e i loro Amici…

Gli ebrei mi lasciano perplesso
- di Ruben Honigmann -

   Negli ebrei, c'è qualcosa che non smetterà mai di stupirmi: la loro capacità di rimanere sorpresi per l'ostilità nei loro confronti. A ogni omicidio, a ogni attacco, a ogni massacro o pogrom antisemita, è come se cadessero dalle nuvole. La mancanza di empatia da parte del solito affabile fruttivendolo ci offende, ci indigna la reazione del segretario generale dell'ONU, e le contorsioni semantiche di Jean-Luc Mélenchon - degne dei migliori studenti della Yeshivah - ci appaiono insopportabili: la solitudine radicale del popolo ebraico perseguitato ci muove alla rivolta. Ogni volta, ci stropicciamo gli occhi - come se quello fosse il primo giorno - nel vedere dei figli di papà di Harvard che denunciano il  «genocidio in corso a Gaza», o nel vedere i "Queers for Palestine" che strappano i manifesti in cui si vedono gli ostaggi israeliani. L'aria si fa soffocante, nel sentire quattro pagliacci del collettivo Tsedek prendere il posto della  clownesca "Unione Ebraica Francese per la Pace" svolgere il loro ruolo di utili ebrei per l'antisemita Houria Bouteldja, mentre fingiamo stupore quando scopriamo che, non appena viene invitato il coefficiente ebraico, tutte le inter-sezionalità diventano un gioco a somma zero. Ma per l'esattezza, cosa c'è esattamente di così sorprendente in tutto questo? Che cos'è che ci si aspetta – messianicamente  – che ci dovrebbe rivelare una delusione così ingenua? In nome di che cosa, si spera che tutto ciò che finora è sempre stato, potesse cessare miracolosamente di continuare a verificarsi?

   Per quale miracolo, coloro che hanno bruciato gli ebrei di Strasburgo nel 1349, che hanno assassinato i loro vicini a Barcellona nel 1391, o che hanno bruciato le abitazioni ebraiche a Baghdad nel 1948, avrebbero smesso di continuare ad avere dei successori nel 2023? Chi mai può credere che i cosacchi, le Einsatzgruppen, gli agenti di Stalin o le truppe degli Almohadi avrebbero agito solo per dei motivi, e in circostanze, peculiari di quello che è stato un determinato tempo, o di uno specifico gruppo? Di quale schizofrenia collettiva soffriamo se, nel mentre brandiamo l'indistruttibilità del popolo ebraico, allo stesso tempo rimaniamo scossi a causa di ogni tweet antisemita da parte dell'ultimo influencer in voga? E soprattutto, che senso ha commemorare, a Purim, l'archetipo del progetto genocida di Haman, cantare ad Hanukkah l'oscurità dell'esilio, e ricordarci solennemente, nel corso del Seder di Pesach, che «in ogni generazione, esse (le nazioni) si sollevano contro di noi, per farla finita con noi»? A quale mascherata stiamo giocando quando leggiamo, nel corso di tutto l'anno, gli avvertimenti di Mosè a proposito delle «madri che mangeranno i propri figli» [*1], o  le imprecazioni di Isaia contro il suo popolo infedele, e le lamentazioni di Geremia sulla decadenza di Israele, se poi non siamo capaci di farle nostre nel momento in cui la realtà viene a scontrarsi con i testi? Legittimamente, si può anche non dare alcun credito a questi testi. Ma non possiamo dire che i nostri antenati - proprio coloro i quali ci hanno reso ciò che siamo, e che sono gli artefici di quei «4000 anni di Storia» di cui noi così tanto ci vantiamo, non vedessero alcun senso in tutto questo.

   Ma c'è in me uno stupore ancora più grande: quello che mi viene suscitato da coloro i quali, con discrezione e nobiltà, con parole e piccoli gesti sfidano la legge antisemita della Storia. La dignità del genitore di uno studente della scuola pubblica dove vanno i miei figli, con il quale non si era mai andati oltre quella fase minima delle chiacchiere e che, dopo diversi giorni di riflessione, mi ha scritto la sua compassione con parole semplici, scusandosi per non aver scritto prima, perché «tutte le parole sono goffe». L'eleganza di quell'amico arabo che, durante un pranzo programmato da tempo, si guarda bene dal tirare fuori "la situazione", ben sapendo che questo porterebbe solo a un dialogo tra sordi, il quale non potrà fare altro che alterare un'amicizia che ci sta a cuore. Infine, il coraggio del compagno non ebreo di un amico, un eminente artista le cui opere circolano in un ambito unanimemente pro-Hamas, e che sceglie di soffrire in silenzio, e vivere nella sua carne la solitudine ebraica dei propri cari. In nessun caso si tratta di persone che traboccano sionismo o filo-semitismo. Semplicemente, intuiscono, nell'intimità del loro essere, il mistero di Israele. La tradizione ebraica definisce questo tipo di persone con una formula: “hassid oumot haolam”. "Oumot haolam",  sono le nazioni del mondo. “Hessed” - la radice di "hassid" - significa semplicemente generosità o pietà (da cui “hassidim”).

   Ma il suo significato primario indica un eccesso [*2], uno straripamento, qualcosa che fa saltare in aria l'ordine naturale - e quindi crudele - delle cose. Insomma, si tratta di una violazione che sconvolge le coordinate della realtà. L'odio verso gli ebrei è la regola, e non c'è da stupirsi. Ma ciò che è sconcertante è il contrario: coloro che sconvolgono il corso intangibile della Storia. E poi c'è il colpo di martello, quello che ha offuscato tutti i nostri radar morali e mentali. Mi riferisco al gesto - incredibile e insopportabile - compiuto al momento della liberazione dell'ostaggio Yocheved Lifschitz, 85 anni, consegnata dal suo carceriere di Hamas alla Croce Rossa. L'anziana signora, prima di separarsi dallo scagnozzo armato e mascherato, lo vuole salutare. Si gira verso di lui, e gli porge la mano. E il terrorista l'afferra e l'accarezza con un gesto inconfondibilmente caloroso. Certo, si può tranquillamente invocare la sindrome di Stoccolma, la follia della vecchia, o la cinica strategia di comunicazione di Hamas, e continuare ad andare avanti. Ma nessuno può negare che quest'uomo, per due secondi, si sia trovato a essere animato da un brivido che assomiglia all'umanità. La scena mi ha ricordato un passaggio di "Maus", in cui Spiegelman padre racconta come ad Auschwitz egli abbia stretto "amicizia" con una delle guardie delle SS, un po' meno crudele delle altre, con cui gli capitava di parlare del più e del meno durante i momenti rubati alla quotidianità infernale del campo di sterminio.

   Ora, questo tizio di Hamas, nei prossimi giorni, verrà certamente liquidato dall'IDF, così come avverrà con la maggior parte dei suoi compari, e io sarò l'ultimo a commuovermi. Il suo gesto non lo salva, né tantomeno lo esonera da nulla. Quaggiù non c'è la minima traccia dell'amore di Cristo per il nemico, da andare a cercare. Rappresenta solo un segnale per cui anche coloro che definiamo, in mancanza di una parola migliore, come barbari e selvaggi, possono essere anch'essi attraversati da qualcosa che, contro la loro stessa volontà, ci meraviglia. Ma lo stupore si trova sempre a essere, letteralmente, all'origine stessa del mondo. Nel secondo versetto della Torah, l'universo è "Tohu-Bohu"; un hapax biblico, questo, di cui nessuno conosce il significato. Rashi - in quella che è la prima delle migliaia di glosse, in francese medievale, che scandiscono il suo commento alla Torah e al Talmud - introduce, nel caos semantico, il discernimento: "Tohu", scrive, significa "estordison", vale a dire, ciò che accade nel momento in cui un uomo viene colpito dallo stupore e dalla meraviglia [*3].

   Così, gli ebrei, e i loro amici, sono quelli che si stupiscono, quelli che non vengono mai a patti con il mondo così com'è, e loro stessi, a loro volta, sono stupefacenti. Quella che è la popolazione più anziana  del mondo, si trova a essere perennemente stupita, come un neonato, stupefatta in ogni momento da tutto ciò che la circonda. Ed è questo - questa insaziabilità, questa incapacità di essere sazi di significato - che non le viene perdonato.

Ruben Honigmann - Pubblicato il 1° novembre 2023 su https://k-larevue.com/

NOTE:
1    Deutéronome ch.28, v.57
2    Cf Lévitique 20,17 et Pirqé de Rabbi Eliezer, traduit et annoté par Marc-Alain Ouaknin et Eric Smilevitch, Verdier, 1992, p130, note 6.
3    Cf Alain Weill, Quand Rachi parlait français. Les laazim de Rachi dans le Tanakh. 2023, p.17

mercoledì 13 agosto 2025

«L’archeologia è un mezzo per conoscere sé stessi» !!!

La ricostruzione di un capolavoro investigativo senza pari nella recente archeologia europea.
Una sepoltura rituale. Una donna, un bambino. Le circostanze della morte inspiegate. Scoperta dai nazisti nel corso degli anni trenta e usata per i loro scopi di propaganda razziale, la tomba – rinvenuta nel cuore della Germania e risalente a 9000 anni fa – è poi caduta nell’oblio. Ora il caso irrisolto della sciamana di Bad Dürrenberg viene riaperto. E si tratta di uno dei ritrovamenti archeologici più interessanti d’Europa. I nazionalsocialisti avevano scambiato lo scheletro per quello di un vecchio dalla pelle chiara, un antenato degli ariani. In realtà, appartiene alla donna più importante della sua comunità: aveva la pelle scura, ed è stata una delle ultime “donne magiche” a vivere nell’Europa centrale ai tempi dei cacciatori-raccoglitori del Mesolitico, prima che Homo sapiens diventasse stanziale. Harald Meller e Kai Michel ricostruiscono, con l’aiuto di tecnologie all’avanguardia, l’avvincente destino di una donna avvolta dal mistero, si addentrano nelle radici della spiritualità di una comunità scomparsa nel pieno dei grandi stravolgimenti dell’evoluzione della nostra specie e ci mettono di fronte alle nostre origini di esseri umani. Ma mostrano anche come l’ideologia possa manipolare la ricostruzione della preistoria umana stravolgendo il passato. Conoscere la storia della sciamana ci aiuterà a capire chi siamo.

(dal risvolto di copertina di: HARALD MELLER e KAI MICHEL, "Il mistero della sciamana. Un viaggio archeologico alla scoperta delle nostre origini". FELTRINELLI, Pagine 366, € 24)

La maga di pelle nera era l’antenata dei nazisti
- di Fabio Genovesi -

   Un mattino di maggio nelle campagne di Bad Dürrenberg, Sassonia, un operaio scava per piazzare una conduttura dell’acqua nel nuovo parco termale. L’inaugurazione si avvicina, c’è poco tempo e deve sbrigarsi, ma ecco che un tempo diverso e lontanissimo arriva a fermare i lavori. Quando la terra sotto la vanga diventa rossa, e da quel colore magico spuntano delle ossa. L’operaio chiama l’istituto di preistoria di Halle, e in un attimo studiosi e soldati contornano la fossa, si affacciano a scoprirne il contenuto e si ritrovano a fissare, muti e increduli, uno specchio. In realtà hanno scoperto la sepoltura di un uomo che tiene in braccio un neonato, contornati da un corredo così vario e ricco per quantità e qualità che un romanzo fantasy non saprebbe aggiungerci altro. Eppure quegli uomini osservano uno specchio. Perché è il 1934, siamo nel Reich Millenario di Hitler. Che invece di Mille anni ne sarebbe durati una dozzina, ma quel mattino era nel pieno del suo delirante furore. Così l’istituto di preistoria ammira, chiara e inesorabile davanti a sé, la prova che gli occorreva, e annuncia al mondo che le vere origini degli Ariani non vanno cercate in India, in Tibet o uno di quei posti lontani, scomodi e diversi, bensì nel cuore della Heimat: gli Ariani devono la loro esistenza a «uno sviluppo completamente autoctono in Germania». Ecco cosa vedono nella tomba gli studiosi nazisti, esattamente quello in cui credono, quello che gli occorre, quello che sono. Insomma, osservano uno specchio. Non si curano del neonato che il loro Ariano regge in braccio, né del ricchissimo corredo di denti e ossa animali, utensili e misteriosi oggetti votivi. Vedono le ossa di un uomo, bianche come la pelle che un tempo certamente le copriva, fiero come il suo trionfo sulle difficoltà naturali quando diede inizio al disegno voluto dal Destino: il dominio del popolo germanico, antichissimo, autoctono, superiore.

   Ecco perché, dopo quella dozzina d’anni, sparito Hitler e sparite le svastiche, la tomba di Bad Dürrenberg è sparita con loro, dimenticata da una società che adesso la trovava poco interessante e addirittura scomoda. Fino agli anni Novanta del Novecento, quando è stata riscoperta, perché dopo mezzo secolo di oblio si sono posati su di lei occhi nuovi e diversi, che ci hanno visto qualcosa di nuovo e diverso, e tanto suggestivo: ancora una volta, insomma, osservavano uno specchio. Come i nazisti si emozionavano a vederci un originario combattente ariano, la moderna umanità resta incantata ad ammirare i resti di un antico sciamano. Gli sciamani, negli anni del consumismo e dell’economia al potere ci attraggono, ci ammaliano, ci seducono. Forse perché «la visione scientifico-meccanicistica del mondo ha reso muta la natura. Il silenzio del mondo, causato dalla perdita delle reti umane e animistiche, ha portato a un dolore fantasma che ci affligge senza che ne conosciamo veramente il motivo. Siamo tormentati da un desiderio appena cosciente e indefinibile, dietro al quale si cela un bisogno di risonanza sociale». Gli sciamani ci chiamano dal profondo di questo nostro desiderio mistico, e credere di averne trovato uno in questa tomba è una tentazione irresistibile, anche per studiosi severi come Michel Kai e Harald Meller autori de Il mistero della sciamana (Feltrinelli): oggetti misteriosi, maschere di corna di cervo, doni votivi che abbondano intorno alle sue ossa, già a una prima occhiata tutto accende in noi il fuoco dell’entusiasmo, e su questo fuoco i successivi test scientifici rovesciano altra benzina, illustrandoci uno scenario che non solo smentisce le certezze dei sogni nazisti, ma le ribalta nel loro incubo più nero. Nero come il colore dei capelli del loro ariano, nero come la sua pelle.

   A quei tempi infatti, nove millenni fa, gli abitanti della futura Europa avevano la pelle scura, e a sbiancarla — con un senso dell’ironia che solo la realtà possiede così acuto — sarebbero arrivati i popoli dal sud, i primi contadini provenienti dall’Anatolia, che portarono con sé l’agricoltura, il bestiame, la ceramica, e il colore chiaro dell’incarnato. La pelle bianca, invece di essere bandiera di purezza e identità, lo è del nostro passato migratorio. Ma la tomba risale a un tempo precedente, infatti vi è sepolto un uomo di colore. Anzi, la realtà è ancor più spiazzante, perché si tratta di una donna. La cui sepoltura sontuosa in un luogo speciale ci mostra quanto fosse ascoltata, rispettata, venerata dalla sua comunità. Testimonianza di un mondo lontano, prima che l’agricoltura imponesse i meccanismi soverchianti della proprietà, delle differenze sociali, del patriarcato. Questa donna ci guarda da un’epoca in cui l’uomo sopravviveva perché collaborava, perché una comunità aiutava quelle vicine nelle stagioni in cui la terra era più generosa con lei, per poi ricevere la stessa attenzione nelle opposte occasioni. Senza classi sociali a separare gli individui, e senza differenze di genere. Nessuno era destinato per nascita a badare alla casa — che nemmeno esisteva — e donne e uomini cacciavano, vagavano, esercitavano le arti curative. Insomma, nella tomba dove i nazisti vedevano il loro fiero ariano originario, oggi c’è una donna di colore che dispensa conforto e cure alla comunità, trovando comunque il tempo per essere una madre amorosa, che dopo millenni ancora stringe al petto il suo bambino.

   Niente potrebbe risultare più appetibile al palato della nostra epoca, eppure la tomba ci riesce. Abbiamo detto infatti che la signora di Bad Dürrenberg è una sciamana. Contornata di oggetti mistici e sacri, era un’anima speciale, in contatto con gli spiriti della Natura e dell’Aldilà, possedendo doti e conoscenze che forse risiedono in tutti noi, ma solo qualcuno è in grado di accedervi. Gli sciamani, anche la loro storia è molto cambiata nel tempo. Il nome deriva da figure specifiche dell’area siberiana, raccontateci con spregio dai colonizzatori e dai sovietici come la forma più antica di quei sacerdoti che sostenevano gli interessi delle élite, responsabili della cacciata dell’uomo dal paradiso del «comunismo primitivo». Poi il ribaltamento: dagli scritti degli anni Cinquanta ai movimenti hippy e New Age, da Mircea Eliade a Jim Morrison, gli sciamani diventano guide e spiriti superiori, tanto preziosi nel silenzio di un mondo che ha perso le sue reti umane e spirituali, in preda al dolore di una perdita così lontana che non riusciamo a ritrovarne il motivo, consumandoci in un desiderio che inutilmente proviamo a soddisfare con la ragione e il materialismo. Lo sciamanesimo ci promette una fuga dal soffocante grigiore dell’oggi, verso un passato ancestrale e un mondo ultraterreno, un richiamo così forte nel silenzio tecnologico della solitudine contemporanea.

  E allora, appassionati e incantati, percorriamo fino alla fine le pagine di questo libro, scritto con l’accuratezza degli scienziati ma insieme con la suspense di un’indagine da detective, su un cold case che da nove millenni attendeva di essere risolto. La soluzione, oggi, è che la tomba di Bad Dürrenberg ci mostra effettivamente un’antica sciamana, come negli anni Trenta ci ha mostrato un guerriero ariano, e chissà se diventerà qualcos’altro un giorno nel futuro. In ogni caso, sarà quel che ci occorre. Perché l’unica certezza è quella che i due autori scrivono solo di passaggio: «L’archeologia è un mezzo per conoscere sé stessi». Proprio in come guardiamo il mondo e gli altri, noi capiamo cosa cerchiamo, cosa vogliamo, cosa siamo. Intorno a noi, davanti ai nostri occhi, il mondo è un enorme castello degli specchi. Cerchiamo, ammiriamo, descriviamo, ma mentre pensiamo di riflettere, inevitabilmente noi ci riflettiamo.

- Fabio Genovesi - Pubblicato su La Lettura del 21/7/2024 -

domenica 10 agosto 2025

Il Cerotto sul dito del “Capitano” Olivier Lek Lafferrière

Appunti sull'ultima alzata d'ingegno, da parte di Olivier Lek Lafferrière con la sua grandiosa e indigeribile tesi a proposito dell'auto-antisemitismo degli Ebrei
- di Clément Homs -

   Udite, udite, Olivier Lek Lafferrière - della UJFP-Tsedek - ha appena pubblicato sul suo blog un nuovo testo dal titolo: "Il principale fattore di identificazione tra Israele e gli Ebrei, è il Sionismo" [*1]. Detto in altre parole – visto che quando il pensiero balbetta attraverso degli slogan, diviene necessario tradurlo: attraverso questa perversa equazione, «sionismo=antisemitismo», che viene rimaneggiata per essere riproposta con la regolarità di un pappagallo sindacalizzato (come tanti altri prima di lui [*2]), stiamo assistendo a un capovolgimento patologico delle responsabilità, che dev'essere diagnosticato come qualcosa che non può in alcun modo essere definita intellettuale. In questo comodo capovolgimento, l'antisemitismo non sarebbe più colpa e responsabilità di chi lo professa, di chi lo diffonde o lo trasforma in azione, ma piuttosto di alcuni Ebrei europei, forse persino di alcuni loro compagni di merenda, o familiari, allorché hanno avuto la sfortuna di non leggere i testi giusti. Perché il nemico, in questa logica, non è più l'antisemita, bensì l'ebreo politicamente sospetto a causa dei suoi comportamenti socio-politici (il suo "sionismo"!!), il cui sionismo immaginario o supposto – oppure reale, o ereditato, o mal formulato – diventa l'innesco universale dell'odio. E nel mentre che egli viene accusato, il vero antisemita può dormire sonni tranquilli: non c'è più bisogno che esista, è stato sostituito da una figura più pratica: l'Ebreo responsabile della sua propria persecuzione. È questo il bello di questo metodo: la storia viene riscritta a vantaggio del boia, grazie alla penna di Lek Lafferière intinta nella buona coscienza. Per il nostro teorico, di livello mondiale, dell'antisemitismo – autoproclamatosi tale mentre se ne sta seduto sullo sgabello traballante della sua lucidità –  gli antisemiti contemporanei di Issoire, di Châteaudun o di Pétaouchnok, non odiano veramente gli ebrei per convinzione ideologica, ma sarebbero piuttosto vittime di un'ipnosi involontaria, schiavi di una stregoneria narrativa proveniente dal CRIF (Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia), da Netanyahu o - al culmine della loro perfida raffinatezza - dai "sionisti di sinistra" (se non addirittura da Jonas Pardo da sé solo!). Si pensava che l'antisemitismo fosse radicato nella storia e nella coscienza feticizzata delle relazioni sociali capitalistiche (nel senso di Moishe Postone), ma ora viene invece qui ridotto a un fraintendimento mediatico. Rimane da vedere se ora verrà chiesto un risarcimento danni per manipolazione intellettuale! Per questa sorta di professore-formatore (militante, naturalmente, visto che, per l'infallibilità, il diploma non è più sufficiente), l'antisemitismo in quanto ideologia di crisi autonoma rispetto a quello che è contesto delle relazioni sociali capitalistiche, o come loro coscienza feticizzata, insieme alle sue forme fenomeniche, quali sono l'antisemitismo secondario del rifiuto della colpa, l'antisemitismo di sinistra e di destra, gli antisemitismi interclassisti, di crisi e di proiezione risentita, o l'antisemitismo nazionale e quello religioso (ivi compresi tutti gli antisemitismi extra-europei), ecc., non esistono affatto.

   Nel mondo, così come lo sogna Lek Laférière, non si diventa antisemiti né per storia, né per struttura, e nemmeno per convinzione: no, è solo un incidente mediatico. Ti alzi la mattina, leggi una dichiarazione del CRIF, ovvero una dichiarazione di Netanyahu e ... puf! ecco che si diventa antisemiti. La spiegazione è semplice, diretta, comoda: l'antisemita non coltiva odio, non fa parte delle relazioni sociali capitaliste, ma ha solo un abbonamento a delle pessime riviste. Nessuna ideologia della crisi, nessuna proiezione feticistica legata a un trattamento ideologico antiebraico di quelle che sono le proprie sofferenze, e delle insopportabili richieste legate alla storia della modernizzazione, nessuna dinamica sociale del capitalismo di crisi: si tratta solo di un malinteso, di un equivoco intercorso tra un lettore ingenuo e un comunicato mal redatto. Antisemitismo? Una reazione allergica al sionismo, niente di più. Ai suoi occhi, quello che è l'agente dell'azione antisemita contemporanea non è più l'antisemita in carne e ossa, e nemmeno l'ideologia della crisi antisemita autonoma, la quale, tuttavia, la si può vedere solidamente ancorata nella coscienza feticizzata delle relazioni sociali capitalistiche. Piuttosto, secondo questo genere di imbecille aggregato, l'antisemita sarebbe diventato una vittima. Un brav'uomo ingannato. Un poveraccio che si è perso tra due comunicati stampa della CRIF e un reportage su Gaza. Non ha una sua propria volontà, ma solo un telecomando in mano e nelle orecchie i propagandisti del governo israeliano di estrema destra. su BFM-tv. Insomma, un antisemita accidentale, anacronistico, disorientato; come se la coscienza feticizzata si fosse ritirata lasciando il campo a un thread di Twitter letto male. E dal momento che ora l'antisemita è innocente, a causa della confusione geopolitica, ecco che la colpa, naturalmente – ancora una volta, come nei libri cattivi, prima del 1945 – è nuovamente degli Ebrei.

   È questa l'ultima scoperta, sua e della sua galassia: la riabilitazione morale dell'antisemita per mezzo del trasferimento della colpa; un gioco di prestigio dialettico nel quale l'Ebreo viene gettato sotto l'autobus della storia, mentre allo stesso tempo si sostiene che l'autista che lo guida sarebbe egli stesso che invece si è perso. Non si tratta più semplicemente di quella vecchia ginnastica nella quale la vittima diventa a sua volta il carnefice degli altri; no, l'attuale abilità retorica è assai più raffinata: la vittima dell'antisemitismo (Ilan Halimi, Mireille Knoll, i bambini di Tolosa, i clienti dell'Hyper Cacher, ecc.) viene trasformata in un carnefice di sé stesso, in una complice per procura, in un'antisemita di rimbalzo. Viene emessa la sentenza: l'antisemitismo che sostenete di subire, siete voi stessi. Ecco la genialità dialettica a cui si attiene, nell'ambito di una devozione de-coloniale mal ripassata, Olivier Lek Lafferrière. In tal modo, contro l'antisemitismo, ricicla diligentemente il ricatto morale di Bouteldja: «diventate antisionisti, altrimenti noi finiremo per essere tutti antisemiti». Come a dire, trattenetemi, altrimenti -  come Mohamed Merah (di cui dice di aver riconosciuto un po' di sé: “riciclaggio” obbligatorio, capisci a me!!) - sparerò a quel ragazzino con la kippah un colpo in testa. Ma il fatto che Bouteldja affermi di aver riconosciuto una parte di sé in Mohamed Merah ormai non sorprende più; ciò che invece stupisce è che altri se ne facciano portavoce senza battere ciglio.  In tal modo, Lek Lafferrière porta avanti - con lo zelo di un maestro militante bisognoso di una causa pura - il vecchio ritornello dell'UJFP-Tsedek: questa organizzazione sull'orlo della liquefazione riflessiva, la cui storia ci ricorda soprattutto i suoi ripetuti eccessi antisemiti (segnalati dalle organizzazioni di sinistra antisemite dei rivoluzionari ebrei, dalla "Réseau d'Actions contre l'Antisémitisme et tous les Racismes" (RAAR), da Golem France et Belgique, etc.), così come le sue negazioni e l'invenzione di quello che appare come un "concetto miracoloso": l'Auto-Antisemitismo ebraico, come dire, una soluzione definitiva a un problema che nelle conferenze "antisioniste" era troppo imbarazzante. Lo sport preferito di Lek Lafferrière – nel quale egli eccelle con la resistenza di un maratoneta ideologico – consiste nell'attribuire sistematicamente la totale mancanza di responsabilitànella a ogni e qualsiasi antisemita, in Europa e dovuque. Ai suoi occhi, l'antisemita non è mai un autore, ma è sempre e solo un lettore e un ascoltatore fuorviato; non è mai agente, ma sempre e solo reattivo; mai carico d'odio, ma solamente irritato; dagli Ebrei, naturalmente, i quali, come tutti sanno, si ostinano a esistere.

   L'attuale ideologia antisemita autonoma? Un miraggio. La lunga storia dell'odio? Una distrazione. La struttura del capitalismo e delle sue forme feticizzate? Un dettaglio, a condizione però che l'antisemitismo non venga visto come una sua produzione autonoma. Perché sta tutto in questo: per Lek Lafferrière, per l'UJFP e Tsedek, l'Ebreo dev'essere a tutti i costi reso responsabile dell'odio che nutriamo per lui. È questo il più antico Ideologema del bestiario antisemita, riciclato fin dall'antichità a tutt'oggi sotto la forma della "colpa ebraica" – come se la vittima, mostrandosi, parlando o semplicemente essendo, stesse già provocando l'aggressione [*3]. Questo gioco di prestigio intellettuale ha deliziato l'estrema destra del XIX° secolo, ma anche la sinistra virtuosa: l'antisemita non odia, "reagisce": reagisce ai Rothschild, reagisce allo Stato di Israele, reagisce a un presunto atteggiamento, reagisce a un nome pronunciato male, reagisce a una presenza troppo visibile. In altre parole: l'ebreo è il fiammifero, e l'antisemita è solo il fumatore nervoso. E che dire dell'UJFP-Tsedek? È il produttore di accendini. Lek Lafferrière, da buon erede del pensiero a circuito chiuso, non ha inventato assolutamente nulla (non più di quanto abbia fatto Pierre Stambul, il suo gemello nel radicalismo riciclato). La loro scoperta, questa solenne inversione di responsabilità – dove gli ebrei vengono designati come i piromani del fuoco che li consuma – ha già fatto carriera; a partire dal dopoguerra, nell'antisionismo sovietico e nella sua "sionologia" accademica: questa scienza del nemico interno, fabbricata affinché l'antisemitismo possa indossare le vesti della virtù proletaria. In seguito, la ritroviamo poi, in vestaglia e in pantofole ideologiche, nella casa di Roger Garaudy, un negazionista pentito nell'Islam politico, che afferma tranquillamente che, alla fine, l'antisemitismo è stato provocato dagli ebrei stessi: a causa del loro sionismo, della loro presunta arroganza, della loro ostinazione nel voler esistere, e non in silenzio.

   Nel riprendere oggi questa tesi, e additando il comportamento politico-sociale degli ebrei come se fosse la causa del "nuovo incendio" antisemita in corso in Francia e altrove, Lek Lafferrière e il suo "think tank" in decomposizione non fanno altro che rovistare nella pattumiera antisemita della storia, con quel macabro giubilo che ostentano coloro che scoprono un cadavere, credendosi archeologi. Ma a forza di rovistare nei rifiuti dell'ideologia, si finisce  sempre per dare da mangiare ai topi. E qui - come altrove - l'antisemitismo si nutre assai bene degli avanzi che gli vengono serviti, mentre spiega che questa volta non è proprio così. E così ora Lek Lafferrière non può che contorcersi morbosamente nella cattiva coscienza accumulata dai «Ceci dit» (sic), rivolgendosi alle sue stesse truppe che non riesce più a tenere a bada: la spiegazione antisemita dell'antisemitismo, è parte integrante di lui. E per anni, tutti questi problemi, che con altri contribuisce a creare nel suo pubblico, li ha trascinati in giro come fosse il miserabile cerotto incollato al dito del capitano Haddock: sempre lì, grottesco, imbarazzante e impossibile da strappare via, sempre pronto a erigere dighe contro l'insensatezza, l'assurdità e i boomerang delle proprie tesi, senza riuscire a vedere il problema della negazione dell'antisemitismo reale radicato nella coscienza capitalista feticizzata. Un ripetere sterile, quasi patetico, qualora la stupidità meritasse di essere compatita.Gli ci vorrà ancora molto tempo per svuotare dall'acqua, con la sua eterna scodella di «detto ciò», la barca bucata del suo odio antisemita verso sé stesso, mentre imbarca, uno ad uno, gli antisemiti che lo circondano sulla sua zattera d'onore bucata. E affonderà, come sempre; e non malgrado i suoi sforzi, ma proprio a causa di essi.

- Clément Homs, 7 agosto 2025 - Pubblicato su  Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

NOTE:

[1] Il testo qui commentato da Lek Lafferrière: https://blogs.mediapart.fr/.../le-principal-facteur...

[2] Prendo Olivier Lek Lafferrière solo come esempio, non perché sarebbe il più originale, ma proprio perché non lo è. Egli incarna il sintomo perfetto, l'esemplare standard, il prodotto finito di un'intera galassia di quella che il teorico marxista Joseph Gabel chiamava la "falsa coscienza antisionista", dove il pensiero critico è collassato su sé stesso – specialmente nella galassia dei franchisee della ditta PIR-PDH, per la quale Lardon ha appena preso il proprio biglietto. Va anche notato che questo signore è, a quanto pare, aggregato; a quanto pare, ovviamente, aggrega solo ossessioni mal digerite. Per quanto riguarda l'Educazione Nazionale, lo lascia di fronte agli adolescenti, senza casco, senza istruzioni o antidoto.

[3] Carol Iancu, I miti fondatori dell'antisemitismo, dall'antichità ai giorni nostri, Toulouse, Privat, 2003.

venerdì 8 agosto 2025

- Reindustrializzazione, e Critica dell'Economia Politica Antisemita -

«Nella misura in cui, e man mano che il capitalismo industriale raggiunge dei gradi sempre più elevati di sviluppo, la naturalizzazione immanente che riguarda il feticismo della merce acquisisce, a sua volta, nuove dimensioni. La forma Capitale, così come la forma della Merce, viene a essere caratterizzata a partire dalla relazione antinomica tra concreto e astratto, i quali appaiono, entrambi, come naturali. Ma, tuttavia, questo carattere "naturale" cambia con lo svilupparsi - sempre più - del capitalismo.

Il Capitale è il Valore che si valorizza; e viene caratterizzato da un continuo e incessante processo di auto-espansione del valore. Il capitale, che non ha alcuna forma fissa, definitiva, può apparire sia sotto forma di denaro sia sotto forma di merci. Con l'industrializzazione, vediamo che questo processo di auto-valorizzazione implica e reca in sé dei cicli rapidi, su una scala sempre più importante di produzione e di consumo, di creazione e di distruzione. In tal modo, il capitale appare sempre più come se fosse un processo in atto che si cela dietro una molteplicità di forme apparenti; di conseguenza, anche la sua dimensione concreta evolve: i lavori individuali smettono di costituire delle unità interdipendenti, ma diventano - piuttosto e gradualmente - come una sorta di componenti cellulari costituenti un vasto sistema, complesso e dinamico, il quale ingloba quegli individui e quelle macchine, in modo da farle tendere a un obiettivo; vale a dire alla produzione per il solo fine di produrre.

La totalità sociale alienata, arriva così a eccedere la somma degli individui che la costituiscono, e pertanto persegue una finalità che rimane esterna rispetto a essa. Questo fine, costituisce un processo su cui non opera alcuna restrizione. La forma-Capitale, che viene così assunta dalle relazioni sociali, finisce allora per diventare un processo cieco, procedurale e quasi organico. Il carattere assunto dalla forma-capitale nel corso del XIX° secolo ci ha sempre più indotto a comprendere il processo sociale e storico in termini biologici (qui, tale aspetto del feticcio-capitale, non verrà però sviluppato).

Secondo la nostra analisi, sono queste le implicazioni che devono essere notate e che riguardano il modo in cui il capitale può essere percepito. Come già indicato in precedenza, è il "duplice carattere" della merce a farla apparire come se essa fosse un'entità puramente materiale, anziché come la materializzazione delle relazioni sociali da essa mediate.

In connessione con questo, viene fatto apparire - a sua volta - un lavoro concreto, del quale si vuole far credere che starebbe svolgendo un processo puramente materiale, creativo e separabile da  quelle sono le relazioni sociali capitalistiche. Al ivello logico del capitale, un tale "duplice carattere" fa sì che la produzione industriale appaia come se essa facesse parte di un processo materiale, creatore ("il processo del lavoro"), separabile dal capitale; il quale invece, poi, viene esso stesso compreso esclusivamente nei termini della sua dimensione astratta; vale a dire, nella sua forma di capitale finanziario, "senza radici", e "parassita".

La forma fenomenica di ciò che è  concreto sembra così essere ora più organica. E tutto ciò fa sì che si sviluppino delle forme di "rivolta", e di "anticapitalismo" nelle quali l'esaltazione di alcuni presunti elementi pre -moderni - la "natura materiale", il sangue, il suolo, il lavoro e la comunità (Gemeinschaft) - possano andare di pari passo con l'affermazione positiva di fenomeni moderni quali  l'industria e la tecnologia. Tutto ciò può essere considerato come appartenente al cosiddetto lato "confuso" dell'opposizione.

In tal modo, la nozione di "anticapitalismo feticizzato" ci consente pertanto di capire in che modo possano essere afferrati e mischiati tutti questi disparati elementi (sia "moderni" che "premoderni"). E come, tutti insieme, essi appaiano come se fossero gli opposti "sani" dell'astratto, che così farebbero quindi parte tanto del "concreto" quanto dell'organico.»

- Moishe Postone, da "La Shoah et la trajectoire du XXe siècle" ( in "Le Pèril antisemite", edizioni Crise & Critique, 2025) -

giovedì 7 agosto 2025

La “Merce Universale” e l’”Altro universale” !!

Denaro e antisemitismo: follia strutturale nella modernità produttrice di merci
- di Robert Kurz -

1. Il feticismo del denaro
Il denaro costituisce il fluido onnipresente della modernità, il lubrificante generale della società, la forma onnicomprensiva della riproduzione: «Il denaro fa girare il mondo».
Il denaro è anche la forma universale della ricchezza, poiché con il denaro si può (presumibilmente) comprare tutto; esso apre un accesso apparentemente illimitato, per coloro che hanno la capacità di pagare, alle possibilità del mondo, e pertanto rappresenta anche l'oggetto universale del desiderio. Per  tutte queste ragioni, il denaro viene elogiato dagli ideologi dell'economia moderna, in quanto sarebbe l'invenzione più intelligente e più benefica per l'umanità. Ma, allo stesso tempo, il denaro è anche la forma di quello che viene vissuto come un terrore universale ed è così, in quanto il contrario della ricchezza, anche la formula di una mostruosa povertà mostruosa, la quale così non nasce più dalle condizioni naturali, ma viene artificialmente prodotta dalla società. Il denaro appare quindi come se fosse un potere sinistro,dal momento che esso è una "cosa astratta", indifferente a tutti i contenuti sensibili, rispetto all'essere umano e alla natura, ai sentimenti e ai legami personali. Il denaro può rappresentare tutto e niente, visto che esso comprende tutte le cose del mondo, eppure è completamente vuoto, come se fosse una sorta di nirvana economico. In questa astrazione sociale del denaro, non appena esso si impone realmente contro il mondo sensibile, si nasconde un enorme potenziale distruttivo: «Far valere le astrazioni sulla realtà significa distruggere la realtà» (Hegel). Nel denaro, in forma paradossale, le relazioni sociali e materiali vengono simultaneamente invertite: in quella che è la loro relazione sociale reciproca, gli esseri umani non rappresentano sé stessi,quanto piuttosto una quantità di pseudo-materia sociale astratta (oro, monete, banconote, impulsi contabili). Marx ha definito questa assurda relazione come "feticismo" della produzione di merci. Il denaro viene prodotto solo grazie a una divisione sociale delle funzioni, nella quale l'attività finalizzata alla riproduzione della vita grazie al  «processo di metabolismo con la natura» (Marx), non viene consapevolmente organizzata in comune, ma si verifica come produzione privata separata finalizzata a dei mercati anonimi. La produzione diventa sociale solo più tardi, attraverso gli atti di scambio, il cui cieco mezzo è il denaro (la "merce universale"). Il denaro rappresenta i beni comuni astratti di quelli che sono dei prodotti qualitativamente diversi: il loro cosiddetto valore, il quale a sua volta non rappresenta altro che il dispendio della quantità di energia umana socialmente necessaria alla loro produzione. Socialmente, è necessario astrarre dalla forma concreta di questa spesa, perché essa può riferirsi solo all'equivalenza astratta delle merci. Orientato fin dall'inizio a questa generalità astratta del valore, e alla sua forma di manifestazione, il denaro, vediamo che il lato astratto dell'attività si determina a partire dal cosiddetto "lavoro" (semplice dispendio di energia umana), ivi compresa anche quella che è una "indifferenza universale", da parte dei produttori, relativamente al contenuto della loro produzione. L'importante è "fare soldi". Naturalmente, il lato distruttivo del denaro e la sua "astrazione reale" (Sohn-Rethel) non rimangono nascosti alla società, e ai suoi individui. Fin dalla più tenera età, questa contraddizione ha dato origine al tentativo di distinguere, ideologicamente, tra denaro "buono" e denaro "cattivo". Il momento distruttivo e astratto doveva essere separato, e proiettato su un potere esterno, negativo, come è avvenuto nei confronti delle comunità ebraiche, che sono state così definite, fin dal tardo Medioevo (sulla scia del risentimento religioso contro gli "uccisori di Cristo"). L'antisemitismo cerca pertanto di mantenere la forma del denaro, e tuttavia di definire la sua strana e irrazionale mancanza di contenuto, come se questa fosse una presunta "caratteristica ebraica", e facendo così degli "ebrei" dei capri espiatori. È la reazione irrazionale immanente all'irrazionalità del feticismo della merce e del denaro.

2. La miseria della concorrenza
Tuttavia, questo feticismo diventa una relazione generale e comprensiva solo attraverso la moderna trasformazione del denaro in capitale produttivo: il denaro viene riaccoppiato a sé stesso per "valorizzarsi" (per fare due di uno); e diventare così il "soggetto automatico" (Marx) di un nuovo modo di produzione. «Il mezzo è il messaggio» (McLuhan); il mezzo di scambio si trasforma in un fine in sé, che si impossessa gradualmente di tutta la riproduzione. Nell'interdipendenza tra "il lavoro astratto" e la "valorizzazione del valore", sorge un nuovo tipo di "socializzazione negativa", nella quale l'attività sociale viene individualizzata, e resa assolutamente dipendente dalle leggi autonome del movimento della "cosa astratta", a cui tutti i membri della società devono sottomettersi in quanto "individui isolati". In tal modo, le persone entrano in un rapporto reciproco di concorrenza totale, dove le forze produttive si sviluppano secondo una dinamica mai vista prima, in modo compulsivo, paradossale e distruttivo, che si scarica in delle crisi e delle catastrofi. Ed è logico che questo paradosso sociale dinamico - la cui struttura non è molto diversa dalla follia clinica (sebbene in una forma sociale oggettivata) - produca una miscela esplosiva di paura e di desiderio. La liberazione da questa illusione strutturale potrebbe consistere solo nel sostituire il feticismo del "lavoro", del valore e del denaro con una nuova struttura di autocomprensione sociale cosciente, alla quale tutti gli esseri umani partecipino (ad esempio, sotto forma di un sistema di consigli o di comitati) e decidano insieme l'uso sensato delle loro risorse e delle loro forze produttive. Tuttavia,  al di là della modernità produttrice di merci, l'umanità non è ancora riuscita ad arrivare a questa prassi della ragione sociale e materiale-sensibile Le leggi coercitive del "lavoro" e del denaro, sono state interiorizzate in un processo di diversi secoli di oppressione, violenza, "educazione" e "diligenza" astratta (industrializzazione) e, in un certo senso, trasformate in tabù: chiunque critichi direttamente la struttura fondamentale feticista e voglia abolirla è considerato pazzo. Nella storia dell'imposizione di questo sistema di produzione di merci, sono perciò emerse varie idee e forme di reazione immanenti, presumibilmente per porre fine alle contraddizioni e alle crisi del feticismo moderno, però sul suo stesso terreno (senza una vera trasformazione). Contro la razionalità del liberalismo, che propaga (ancora oggi) la corsa cieca della competizione - e, così facendo, accetta l'esclusione di masse sempre più crescenti di persone - la razionalità del socialismo di Stato è stata posizionata, da Bismarck a Lenin, da Keynes a Castro, al fine di superare gli effetti critici della concorrenza in quelli che sono dei diversi sistemi di regolamentazione statale, più o meno estesi (spesa in deficit, Lo Stato sociale, lo Stato come imprenditore generale, ecc.), senza tuttavia mai abolire la produzione di merci, il mercato e la forma monetaria. Ma tutti questi tentativi di socialismo di Stato, nelle loro diverse varianti, hanno dovuto fallire ripetutamente (e oggi, definitivamente), perché lo Stato è sempre e solo l'altro polo della generalità astratta feticistica, e alla fine rimane sempre dipendente dalle leggi cieche della moneta capitalizzata. Sotto il mantello della regolamentazione statale, la concorrenza continua a fermentare, ed esplode con ancora più violenza (sia nell'economia interna che nelle relazioni esterne). Dal momento che il socialismo di Stato, basato sul sistema di produzione di merci che non è stato abolito, è troppo debole per riuscire a essere in grado di superare l'irrazionalità della struttura feticistica, e del sistema di concorrenza ad essa associato, ecco che a partire dal XIX secolo abbiamo visto sorgere, contemporaneamente, diverse correnti socio-politiche di quella che era un irrazionale "proseguimento della concorrenza con altri mezzi", al cui centro ideologico si è posto l'antisemitismo: La proiezione sugli "ebrei", delle caratteristiche astratte e distruttive della forma monetaria, continua definendo l'ebreo in quanto alieno "esterno" della concorrenza. Nella "guerra di tutti contro tutti" (Hobbes), la paura esterna genera il desiderio di un "noi" più chiaro, che malgrado la competizione si ponga al di fuori della competizione, e venga immaginato sotto forma di meta-soggetto contro tutti "gli altri", come se si fosse in un sistema di inclusioni ed esclusioni sociali, dove "l'ebreo" figura come se fosse "l'Altro universale", lo Straniero, che riunisce in sé tutte le qualità negative del denaro e della concorrenza. L'antisemitismo ha pertanto ripetutamente assorbito degli elementi, sia del liberalismo che del socialismo di Stato, in modo da formarsi così socialmente (e storicamente, nella forma del fascismo e del nazionalsocialismo). Ciò rivela sia tanto le differenze quanto le affinità e le sovrapposizioni tra il liberalismo, il socialismo di Stato e l'antisemitismo, che esprimono tutti, in modi diversi, la medesima irrazionalità razionale, ovvero lo stesso irrazionalismo, sul terreno comune del moderno sistema feticistico.

3. La naturalizzazione del sociale
L'auto-movimento cieco e sciolto della "cosa astratta", resa totalmente sociale sotto forma di capitale, ha portato gli ideologhi di questo sistema, fin dall'inizio, non solo a equiparare la "seconda natura" della socializzazione feticistica (priva, nella sua determinazione della forma, della volontà umana ) alla "prima natura"; ma a identificarla direttamente. Del resto, i classici del liberalismo e della "economia politica" consideravano le leggi cieche del denaro e del mercato come leggi naturali. La "macchina del mondo" fisica, dell'universo meccanico di Newton, trovò il suo equivalente nell'altrettanto meccanica "macchina del mondo" economica, ovvero, nella «bella macchina» (Adam Smith) del capitale. La metafisica del denaro è diventata così la fisica del mercato universale. Mentre, nel contesto della sua critica del feticismo, Marx considera ancora negativa questa pseudo-fisica delle categorie di un sistema produttore di merci, e formula la sua presentazione come una critica radicale, il socialismo di Stato (anche nella sua variante "marxista"), è ricaduto invece nel positivismo delle "leggi" feticistiche, le quali - "indipendenti dalla volontà umana" - sembrano essere presupposte come quasi naturali. Ma questa naturalizzazione pseudo-fisica del sociale continuò, poco dopo, in una biologizzazione dello sviluppo sociale e delle caratteristiche sociali. L'epocale scoperta di Darwin dell'evoluzione biologica, venne immediatamente cortocircuitata socialmente (anche da Darwin stesso) e trasferita sulla storia umana, come se si trattasse di un "processo di selezione" pseudo-biologico e come "sopravvivenza del più adatto". Questo "darwinismo sociale", era diretto contro le persone con delle disabilità e contro le cosiddette "vite senza valore", che dovevano essere soffocate alla fonte grazie a una rigorosa "igiene razziale" (controllo statale dell'ereditarietà, ecc.). In tal senso, il darwinismo sociale penetrò in profondità anche nel movimento operaio marxista, e venne difeso apertamente dai suoi principali ideologhi (ad esempio, da Karl Kautsky). Lo stesso socio-biologismo - con il suo slogan della "lotta per la vita" - ha segnato anche l'interpretazione della concorrenza generalizzata, e del conseguente sistema di inclusione ed esclusione sociale. Nel mentre che il liberalismo sosteneva un processo di selezione individuale socio-darwiniana, secondo dei criteri capitalistici, contemporaneamente si sviluppò anche un razzismo biologico onnicomprensivo, che trasformò ideologicamente la sindrome della competizione segnata dalla paura in una lotta tra razze "superiori" e razze "inferiori"; e inventò il mito della "razza ariana" (Graf Gobineau). L'antisemitismo, è stato rapidamente integrato in questa visione biologica e razzista del mondo. Mentre i cosiddetti popoli di colore (Africani, Asiatici, ecc.) erano definiti come razze "inferiori" o "sub-umane", invece "gli Ebrei" figuravano, al contrario, come la "razza superiore del male" e come il grande avversario spettrale degli "Ariani". Proprio allo stesso modo in cui l'antisemitismo aveva già proiettato  su un essere "ebreo" la negatività strutturale del "dominio del denaro" e della competizione, gli "ebrei" erano ora diventati semplicemente gli "altri" biologici per natura; ai quali è inerente il male della socializzazione negativa e astratta, non solo storicamente o culturalmente, ma anche direttamente proprio nella loro esistenza fisica, biologica e "di sangue". L'antisemitismo completava così la naturalizzazione del sociale, presente in tutta l'ideologia affermativa del moderno sistema di produzione di merci, portandolo fino alle sue estreme conseguenze.

4. L'obbligo di lavorare e l'ossessione per la prestazione
La base, e in un certo senso il fuoco interiore, la forza motrice dell'incessante "valorizzazione del valore", rimane il "lavoro" astratto, vale a dire, quello che è l'altrettanto instancabile dispendio di energia umana, indifferente non solo al contenuto concreto di tale dispendio (in linea di principio, al capitale e ai suoi produttori non importa se producono torte di cioccolato o mine anticarro), ma anche alle conseguenze, ai "rischi" e agli effetti collaterali della razionalità (economica) a esso associata. I fini umani coscienti, non si traducono in attività ugualmente coscienti e organizzate in comunità, ma piuttosto, al contrario, i fini umani dipendono dal fine in sé del processo di valore e di "lavoro", in quanto come sua forma astratta di movimento. Nonostante una simile assurdità, fin dall'inizio dell'era moderna, il concetto astratto di "lavoro" è stato visto come un nobile obiettivo etico. Mentre in tutti i modi di produzione premoderni il fatto di sussumere delle persone all'astrazione di un'attività determinata da altri, veniva considerata negativa e inferiore, nell'"etica protestante", invece, il "lavoro" è asceso al traguardo, paradossalmente positivo, di quella che viene vista come un'autorealizzazione umana sotto lo sguardo di Dio.Tutto ciò, annunciava la secolarizzazione della religione, sotto forma di sottomissione alla "macchina mondiale" capitalistica. Sia il liberalismo che il socialismo di Stato (marxista), hanno dimostrato di essere gli eredi di questa "etica protestante". Con lo sviluppo progressivo del sistema produttore di merci, il "lavoro" astratto, e le altrettanto astratte "virtù secondarie" a esso associate (diligenza, disciplina, puntualità, ecc.), si sono propagate secondo quello che era il fine in sé della "cosa astratta", e pertanto la definizione di "benessere" è stata fatta dipendere da esse, senza tuttavia tener alcun conto del significato sociale, e del benessere reale degli individui. L'obbligo di lavorare, e l'ossessione per la prestazione, finalizzati a delle "costruzioni piramidali" sempre più assurde, fatte in nome del denaro -  il quale è diventato fine a sé stesso - hanno determinato che le possibilità positive di sviluppo delle forze produttive siano state ripetutamente sperperate. Invece di attaccare questa relazione feticistica, e il suo concetto astratto di attività, il movimento operaio storico è riuscito ad arrivare solamente a quella che è rimasta una critica immanente del sistema, e ha fatto proprio il punto di vista del "lavoro". Benché,  fosse esso stesso un'astrazione e, come tale, era realmente determinato solo dal fine, astratto in sé, del denaro, il "lavoro" (in particolare l'attività produttiva immediata) appariva piuttosto come "concreto" e significativo, in opposizione al mondo astratto della forma monetaria. "Capitale" e "lavoro" non erano, pertanto, intesi come se fossero le due facce della stessa medaglia, ma erano invece visti come se fossero esternamente in opposizione. Anziché una critica della forma feticistica della società, quella che è sorta, è stata la critica del "non lavoro", oppure quella del "lavoro improduttivo", del "reddito senza lavoro", del "parassitismo", dei "fannulloni", dei "profittatori", ecc. Ironia della sorte, il liberalismo ha sviluppato dei criteri assi simili, sebbene usando altri attori (in questo caso, i lavoratori salariati ribelli, che lottavano per la riduzione della giornata lavorativa, venivano visti come un "gruppo pigro"). Sebbene August Bebel definisse l'ideologia antisemita come "l'anticapitalismo degli imbecilli", l'antisemitismo riuscì a collegarsi sia alla "etica protestante" di base, e all'ossessione liberale per la performance, che alla critica riduttiva al capitalismo, da parte del movimento operaio. Non a caso, sul cancello di Auschwitz c'era scritto «Il lavoro rende liberi». Alla positivizzazione del "lavoro" e alla stigmatizzazione del "non lavoro", dell'"ozio", ecc. - per adattarsi alla visione antisemita del mondo - mancava solo di ricevere, insieme ai rispettivi attributi, anche una connotazione biologica. In tal modo, veniva ripetuta l'attribuzione naturalizzante del negativo: gli africani, gli slavi, ecc., venivano tutti definiti come gli «inferiori avversi al lavoro», mentre gli "ebrei" erano invece definiti come i «superiori negativi, avversi al lavoro»,  e come i veri antagonisti del principio "ariano" del "lavoro onesto". E in quanto presunti puntelli al "malvagio" denaro, e alla reale astrazione sociale in generale, "gli ebrei" venivano identificati, non solo con l'immagine nemica che corrispondeva alla sofisticata "oziosità parassitaria", ma anche con le astrazioni della ragione riflessiva. Non a caso Marx definiva la logica chiamandola il «denaro dello spirito». E così come non si può parlare di corda nella casa dell'impiccato, anche nella società produttrice di merci, basata sulle astrazioni reali, non si può - a partire dalla riflessione - chiamare inavvertitamente la forma feticista astratta con il suo proprio nome. Anche se è proprio il banale senso comune delle persone "che guadagnano denaro" a pensare astrattamente - fino alla stupidità, come ha già dimostrato Hegel - che il "pensatore astratto", nella sua forma riflessiva e quindi un po' pericolosa, viene disapprovato proprio perché, a causa dell'imposizione crescente di "fare soldi", la coscienza sociale è diventata sempre più positivista . Sia il pragmatismo liberale che il marxismo volgare del movimento operaio, svilupparono così entrambi - insieme al sentimento contro le rispettive definizioni di "non lavoro" e di "improduttività" - un corrispondente grado di ostilità verso l'intellettuale, che l'antisemitismo a suo modo avrebbe assorbito: l'"improduttivo" e ozioso "flâneur ebreo", o l'elegante bon vivant "Ebreo" è diventato così quasi sinonimo della figura dell'"intellettuale ebreo sovversivo", nel quale la forza negativa dell'astrazione si rivolge, di riflesso, contro il principio "buono" del "lavoro".

5. Capitale "creativo" e capitale "stupratore"
L'affermazione del "denaro buono" contro il "denaro cattivo", l'elogio del "concreto" (che, in realtà, non è altro che l'incarnazione della medesima socializzazione moderna realmente astratta) contro "l'astratto", e l'apoteosi del "lavoro" contro l'ozio e contro il "parassitismo"  nel sistema dell'economia politica possono portare a una sola cosa: a una critica tronca del capitale fruttifero. identificato con la negatività dell'intero modo di produzione. Sebbene il capitale finanziario sia logicamente solo una forma derivata di capitale produttivo, e l'interesse sia solo una componente della creazione industriale di plusvalore, in questa comprensione superficiale vediamo che è solo l'interesse, il quale dev'essere pagato sul denaro preso in prestito o sul capitale monetario, ad apparire come "estorsione di plusvalore", e come "reddito senza lavoro" moralmente ingiustificato. Da un punto di vista economico,  sono considerati "capitalisti" solo i proprietari del capitale monetario, banchieri, ecc., mentre gli imprenditori industriali vengono visti come se fossero una sorta di "lavoratori leader", con un salario imprenditoriale leggermente più alto, ovvero, con un "premio di rischio". Gli stessi imprenditori industriali, così come le piccole imprese familiari e artigiane, i quali dipendono dai prestiti bancari, e possono in qualsiasi momento cadere nella "trappola del debito", visti dal punto di vista dei loro interessi immanenti, tendono facilmente a essere oggetto di questa visione. In tal senso, diventa concepibile persino una critica liberale del capitalismo finanziario; e nel movimento operaio fu perciò l'ala quasi liberale, nella sua forma di una parte degli anarchici, che, da una posizione più incline alla piccola impresa, o nel senso di cooperative di produzione di merci, esigeva la «rottura della servitù dell'interesse» (Proudhon). Il marxismo del movimento operaio ha respinto tale posizione in quanto piccolo-borghese; ma la sua ideologia socialista di Stato, che non mirava all'abolizione del rapporto feticistico e del lavoro salariato in esso incluso -  ma solo alla nazionalizzazione e alla regolamentazione burocratica del capitale produttivo privato - non era poi così tanto lontana da essa. Nella pratica dell'agitazione marxista di massa - specialmente sotto il segno di una "politica di alleanze" con i vari "piccoli produttori di merci" che lavorano - il capitalismo finanziario è passato come se fosse stato, esso da solo, al centro della critica, essendo gonfiato nella sua immagine di cattivo, in generale. L'antisemitismo potrebbe facilmente trarre vantaggio dalla critica tronca del capitale fruttifero, dal momento che già dalla fine del Medioevo "gli ebrei" venivano considerati usurai (ad esempio, in modo aggressivo e quasi fomentatore del pogrom, da Martin Lutero). Questa classificazione era dovuta al fatto che, secondo la Bibbia, ai cristiani era stato ufficialmente proibito addebitare interessi, mentre nel commercio c'era bisogno di credito. In molte città, alle comunità ebraiche, per motivi di concorrenza, veniva proibito di impegnarsi in attività commerciali. Così, alcuni cittadini ebrei furono costretti a impegnarsi nel commercio e nel prestito di denaro (sebbene l'Antico Testamento proibisse anche l'addebito di interessi). Lo straccione e il rottamatore ebreo, divennero così proverbiali, mentre l'esistenza storicamente consolidata di alcune famiglie di banchieri ebrei (tra cui i famosi Rothschild) potrebbe invece essere collegata a un odioso mito del "capitale finanziario ebraico". Il fatto che la stragrande maggioranza degli ebrei fosse tutt'altro che finanziariamente potente, be' questo non dava fastidio a nessuno. Così, a partire dai tempi di Lutero, e fino al XX secolo, la critica errata all'essenza del moderno feticismo della "schiavitù dell'interesse" si è mescolata con i toni antisemiti. A partire da questo, la regola generale è quella secondo cui non tutti i critici del capitale fruttifero sono (apertamente) antisemiti, ma tutti gli antisemiti sono critici del capitale fruttifero. Si tratta, in un certo senso, di una "economia politica dell'antisemitismo", la quale si presenta come se allo stesso tempo fosse anche una visione irrazionale del mondo. Questa ideologia si diffuse ampiamente, a partire da Proudhon, e si ritrova anche negli antroposofi di Rudolf Steiner così come nei seguaci del ciarlatano economico Silvio Gesell (e in tutti i movimenti settari del periodo pre e post guerra); per poi essere sintetizzata dai nazionalsocialisti e portata all'estremo. Nella contrapposizione tra capitale "creativo" e capitale "stupratore", l'ideologia nazista riassumeva tutti i momenti della sindrome antisemita. In tutto questo si trova inclusa anche l'astrusa idea della "cospirazione ebraica mondiale", che dalla fine dell'Ottocento aleggerà come un fantasma: l'anonimato e le leggi sovranazionali del mercato mondiale venivano demonizzati insieme, a partire da un'analogia tra le relazioni finanziarie transnazionali e l'esistenza "sospetta" dei ghetti ebraici sparsi per il mondo, identificati come sleali in senso nazionalista, col fine di identificare un diabolico "responsabile" che aveva tirato le fila dietro le quinte causando gli effetti incomprensibili e insoggettivi delle relazioni competitive, dei flussi di capitale e dei flussi commerciali globali (in un certo senso, la mania per la "cospirazione ebraica mondiale" è una caricatura della filosofia illuminista, che si riferisce anche alla storia vista come fatta da dei soggetti che agiscono consapevolmente, senza sospettare affatto delle strutture feticistiche). Allo stesso modo, l'irrazionale "economia politica dell'antisemitismo" spiega anche le crisi capitaliste. Il vero limite interno dell'accumulazione è da ricercare nel capitale produttivo stesso: quando, per una data struttura industriale, la capacità di espansione dei mercati si esaurisce e la razionalizzazione consuma più posti di lavoro di quanti ne vengano creati, i profitti realizzati nei precedenti periodi di produzione non possono più essere investiti in modo sufficientemente redditizio in investimenti produttivi aggiuntivi. Questa situazione di "sovraccumulazione" (Marx) del capitale porta, da un lato, a una spirale negativa di crisi, licenziamenti, contrazione dei mercati, ecc. D'altra parte, il capitale monetario che non può più essere reinvestito in modo redditizio fluisce nei mercati finanziari e, sotto la pressione delle valutazioni, genera una bolla speculativa (la creazione di valori fittizi), il cui scoppio alimenta ulteriormente la crisi. La teoria irrazionale della crisi, che si fissa unilateralmente solo sul capitale finanziario, in questo dispiegarsi della crisi non fa altro che invertire la causa e l'effetto: la speculazione, che è sorta dalla crisi del capitale produttivo stesso, appare inversamente come se ne fosse la sua causa, e gli "speculatori" vengono pertanto dichiarati essere i soggetti maligni della crisi. E poiché il capitale finanziario è già stato definito come "ebraico", ecco che vediamo che non ci vuole troppa deduzione per posizionare correttamente quale ruolo specifico giochi nella crisi, lo "speculatore". Questo è il modo in cui i nazisti interpretarono con notevole successo propagandistico  la crisi economica mondiale del 1929-33 .

6. Auschwitz – la rivoluzione tedesca
La sindrome antisemita ha accompagnato il capitalismo fin dall'inizio, ed è sempre rimasta presente in tutti i paesi del moderno sistema di produzione di merci, anche laddove non ci sono ebrei. Ed è proprio "l'antisemitismo senza ebrei" a dimostrare il carattere di questa ideologia aggressiva, in quanto visione irrazionale del mondo che non è nata da dei conflitti empirici. Tuttavia, tutto questo non spiega il perché della presenza universale dell'antisemitismo nel mondo moderno, e perché solo in Germania sia stata in grado di intensificarsi fino a quel crimine contro l'umanità che è stato l'Olocausto. Auschwitz, probabilmente manterrà per sempre un momento di inspiegabilità che non è accessibile alla ragione riflessiva. Tuttavia, è possibile indicare le ragioni per cui il Reich tedesco divenne l'organizzatore di questo orrore universale. Innanzitutto, va detto che nel XIX secolo, tra i grandi paesi capitalistici, la Germania era il ritardatario storico, la "nazione arretrata". Mentre in Inghilterra, in Francia e negli Stati Uniti la modernizzazione veniva a essere ancora associata a un'enfasi borghese rivoluzionaria, e alle speranze repubblicane, in Germania essa iniziò invece solo a metà del secolo, insieme alla grande crisi della trasformazione dell'industrializzazione. Ideologicamente, in Germania, la formazione del moderno stato-nazione capitalista era pertanto meno legata al pensiero superficialmente razionalista dell'Illuminismo, ed era invece più legata al contro-movimento romantico irrazionale, il quale si manifestava in una sorta di miscela contraddittoria tra quello che erano i diversi elementi modernizzanti, da una parte, e una critica reazionaria e fantasmatica della"economia monetaria astratta", dall'altra. Una conseguenza di tutto questo fu che la nazione tedesca, in contrasto con il concetto occidentale di Legge e di Stato, venne biologicamente legittimata a partire da da alcune teorie "etniciste" e razziali della discendenza (fino ad oggi, tuttora la cittadinanza della Repubblica Federale di Germania viene definita come «per linea di sangue»!). Questa base ideologica, e persino giuridica, dello Stato nazionale tedesco ha favorito in particolare una teoria sociale e di crisi irrazionale, biologica e, più precisamente, antisemita. Le élite tedesche ne furono quasi tutte contaminate, ivi comprese persone che oggi non sarebbero sospettate (ad esempio, Thomas Mann). In secondo luogo, la Germania era nota per essere l'unico dei grandi paesi capitalistici a non aver subito una rivoluzione borghese (si può dimenticare il ridicolo e fallito episodio del 1848). La modernizzazione e la formazione dello Stato nazionale furono effettuate "dall'alto", dal vecchio apparato assolutista guidato dalla Prussia, particolarmente autoritario e militarista. La storia della modernizzazione tedesca non è stata perciò segnata da rivolte e rivoluzioni, ma piuttosto da una "cieca obbedienza", in quanto fenomeno di massa interiorizzato nella famiglia, nella scuola, nella fabbrica e nell'esercito. Va detto anche che il movimento operaio socialista era il più imbevuto dello spirito di questa disciplina prussiana, rispetto a quello degli altri paesi. A partire dall'incontro tra l'autolegittimazione irrazionale della "nazione tedesca" "etnicista" e la tradizione autoritaria prussiana, è sorto, sotto forma di nazionalsocialismo, un tentativo di "liberare" il mondo capitalistico dal "lavoro" dalla violenza dell'astrazione reale, assumendo l'antisemitismo come dottrina di Stato; ma non attraverso la resistenza sociale, le rivolte o la rivoluzione, bensì attraverso l'annientamento fisico dei presunti portatori biologici del male "astratto", del "non-lavoro" parassitario, dell'"intellettualismo sovversivo", del capitale finanziario "rapace" e della "speculazione", la quale causa crisi, ecc. In una parola: il "capitalismo tedesco" (e il capitalismo in generale) avrebbe dovuto essere trasformato, attraverso la morte degli ebrei nelle camere a gas, in una società totalmente "concreta", nella quale il "lavoro" sarebbe così diventato una generalità biologicamente pura, senza la legge coercitiva della valorizzazione astratta. Il teorico nord-americano Moishe Postone ha formulato accuratamente questa mostruosa assurdità del nazionalsocialismo: «Auschwitz era una fabbrica di distruzione del valore». Lì non veniva prodotto nulla, ma si eliminava in serie l'astrazione reale sociale della modernità, senza però superarla in maniera emancipatrice. Non è stato solo il numero di milioni di vittime, ad aver reso l'Olocausto una singolarità storica, quanto invece la completa assenza di un punto di vista che possa essere definito a partire da degli interessi, come lo si trova, in un modo o nell'altro, dietro tutti gli altri genocidi e omicidi di massa avvenuti nella storia della modernizzazione. L'Olocausto, ha rappresentato un fine in sé che è stato eseguito con fanatismo (a esso, sono state sacrificate persino delle risorse che erano importanti per la guerra), e tutto questo per sbarazzarsi del fine in sé del capitale. Il capitalismo, che non è stato sostituito, doveva essere trasformato, con l'aiuto delle camere a gas, in una forma che non sarebbe stata, in sé, capitalista. In tal senso, Auschwitz ha costituito la "rivoluzione tedesca";  l'unica che sia mai stata "realizzata" in questo paese. I tedeschi, obbedienti fino alla morte, difesero strenuamente questa "rivoluzione", e la portarono avanti con la precisione di un orologio, disciplinati com'erano in tutte le loro virtù secondarie. Solo in questo paese, e con questa storia specifica, la sindrome antisemita avrebbe potuto intensificarsi in quanto pseudo-rivoluzione "dall'alto", fino all'ultima barbarie immaginabile.

7. Crisi del lavoro e capitalismo da casinò
Nella storia tedesca del dopoguerra, la vera essenza di Auschwitz non è mai stata né discussa né rivista, poiché ciò avrebbe immediatamente portato alla luce la questione fondamentale relativa al sistema della modernità. Non solo le élite capitaliste della RFT (che si presentava come lo Stato successore, ufficiale, del "Terzo Reich") non avevano alcun interesse a farlo, ma per le potenze occidentali, con gli Stati Uniti in testa, una rivelazione sulle radici della sindrome antisemita sarebbe stata solo una seccatura in quella che allora era la nuova era di integrazione capitalistica del mercato mondiale. Ma anche nella DDR - che coltivava le infelici tradizioni prussiane, non solo esteriormente attraverso la marcia militare del suo "Esercito Nazionale del Popolo" -  la revisione dell'antisemitismo rimase estremamente superficiale, e senza alcuna convinzione, e ben presto venne sostituita dalla propaganda "antisionista", guidata dalla politica di alleanza dell'Unione Sovietica con gli Stati arabi. Naturalmente, l'antisemitismo non poteva essere identificato come il nucleo dell'ideologia nazista, perché la critica tronca del capitalismo, fatta dal marxismo del movimento operaio, non affrontava la problematica dell'astrazione reale feticista, che veniva tematizzata in maniera irrazionale e omicida dall'ideologia antisemita. I partiti socialisti e comunisti (così come le correnti anarchiche) non sono mai stati i principali portatori della sindrome antisemita, ma però hanno sempre avuto dei punti di contatto, e dei rapporti poco chiari con essa (e questo costituisce la storia segreta del socialismo tradizionale). La visione del mondo, e l'interpretazione antisemita della crisi sono pertanto rimaste invariate, dal momento che all'epoca della "ricostruzione" e del "miracolo economico" hanno continuato a essere "dormienti" nel subconscio sociale. A partire dagli anni '80, il capitalismo mondiale, sotto il segno della rivoluzione microelettronica, è entrato di nuovo in un'epoca di crisi, caratterizzata da una qualità storicamente nuova dell'automazione, della razionalizzazione e della globalizzazione del capitale. Per la prima volta, "l'esercito industriale di riserva" (Marx) non ha potuto più essere riassorbito ciclicamente; lo sviluppo ciclico si è trasformato in sovraccumulazione strutturale di capitale, accompagnata da una massiccia disoccupazione strutturale, e in costante crescita in tutto il mondo. Sebbene la "crisi della società del lavoro" fosse stata proclamata, mettendo così in discussione una categoria fondamentale della modernità e della sua socializzazione veramente astratta, negli anni '80 si riteneva ancora che tuttavia sarebbe stato possibile uscire facilmente da questa situazione. La critica pseudo-edonistica del "lavoro", rimase superficiale e si nutrì degli echi del "miracolo economico"; la speranza di un'espansione del "tempo libero" capitalistico, con alti redditi e alti standard di consumo, mostrava solo come la relazione tra "lavoro" e forma monetaria non fosse stata compresa. Negli anni '90, arriva la grande sbornia. Dopo il crollo del socialismo di Stato, che fu solo un momento della nuova crisi mondiale, tutte le critiche fondamentali al sistema competitivo si zittirono, mentre simultaneamente veniva alla ribalta il rapporto represso esistente tra le diverse categorie capitalistiche: la critica superficiale e consumistica del "lavoro", venne sostituita dal clamore per i "posti di lavoro", e da un dibattito frenetico sulla "localizzazione degli investimenti". Contro la globalizzazione, è ora proprio la sinistra a volersi rifugiare nel keynesismo ormai da tempo obsoleto e legato alla regolamentazione nazionale. Questa nostalgia keynesiana, che spazia dalla socialdemocrazia di destra fino ai residui del radicalismo di sinistra, non vuole ammettere il carattere fondamentale della crisi. La speranza che «ci saranno abbastanza soldi», è una richiesta irrealistica allo Stato che tenta di riportare alla comunità nazionale i mercati finanziari in libera uscita. Contro il capitalismo da casinò di quella che è una sovrastruttura speculativa senza precedenti nella storia, e che è sorta dalla sovraccumulazione strutturale del capitale, ora si invocano in maniera impotente "investimenti produttivi". Al congresso della SPD, all'inizio del dicembre 1997, il presidente Lafontaine chiede un'azione «contro gli speculatori». In tutta Europa (e in tutto il mondo), i sindacati, i Verdi, i socialisti, i comunisti, ecc. suonano la stessa canzone. Certamente, non sono (ancora) antisemiti, ma mobilitano tutti, ma proprio tutti, i motivi della "economia politica dell'antisemitismo"; anziché abbandonare il paradigma debole e obsoleto del socialismo di Stato, e passare a una critica abolizionista emancipatrice dell'astrazione reale feticista. Così, la nostalgia keynesiana della sinistra diventa il motore inconsapevole di una nuova ondata antisemita di interpretazione fantasmatica della crisi, che nella sua forma rimane ancora poco chiara. All'estrema destra del conservatorismo e nello spettro della destra radicale, delle bande di skinhead, dell'esercito tedesco, ecc., stanno già fiorendo apertamente gli slogan antisemiti e si verificano gli "incidenti". Mai negli ultimi 50 anni è apparso così chiaro come oggi che l'antisemitismo ormai potrà scomparire solo insieme al capitalismo. Nella crisi, quella che viene evocata è proprio questa verità elementare: il "dormiente" si risveglia e i demoni ritornano.

- Robert Kurz - Pubblicato il 29/6/2025 - Fonte: História e Desamparo