Il romanticismo della rivoluzione anarchica di Nestor Machno del 1918, l’infanzia felice in una Unione Sovietica “privata”, il passaggio dal comunismo al capitalismo, politica e antipolitica, treni e autostop, amore e nostalgia: tutto si aggroviglia nella prosa punk di un romanzo quasi autobiografia che ci trasporta nei paesaggi della memoria di Žadan, vividissimi eppure forse ormai perduti. Un viaggio sentimentale, lucido e dissacrante, attraverso l’Ucraina orientale, sospesa tra la caduta dell’URSS e lo scoppio della Rivoluzione arancione del 2004, un racconto di formazione sull’essere scrittore e uomo, scandito da un ritmo ubriacante.
(dal risvolto di copertina di: Serhij Žadan, "Anarchy in the UKR", Voland. Traduzione Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyc, pagg. 208, € 19)
La fiaccola dell'anarchia
- di Wlodek Goldkorn -
Un racconto on the road, una resa dei conti con il mondo sovietico e post sovietico, una rivendicazione di storie dimenticate e rimosse perché scomode e, infine, l’esaltazione del rock in versione radicale non quindi come fenomeno alla moda ma come rivolta e dove in gioco è la vita e la morte. È tutto questo (e qualcosa di più) Anarchy in th UKR, il romanzo di Serhij Žadan, magnificamente tradotto da Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyc, in uscita con Voland. Intanto, Žadan è uno scrittore ucraino, nato nel 1974, forse il più bravo fra gli autori del paese, tradotto in numerose lingue, ed è anche una rock star, non solo perché trattato come una celebrità, ma alla lettera: oltre a produrre libri, si esibisce con il gruppo rock appunto, Žadan i sobaki (Žadan e i cani) e ad ascoltarlo accorrono folle esaltate. Per certi versi Anarchy in the UKR è un romanzo giovanile. In Ucraina è uscito nel 2005. Leggerlo è comunque utile non solo per la qualità della scrittura (universalmente riconosciuta) ma perché permette uno sguardo a un momento cruciale della storia del nostro Continente: a quel periodo in cui la cultura – chiamiamola postsovietica – nell’ex Urss assume caratteri specifici, si rende del tutto autonoma rispetto alla matrice moscovita o sanpietroburghese – e nel nostro caso scava criticamente nella memoria ucraina. Ma procediamo con ordine.
A partire dal titolo, in inglese, Anarchy in the UKR è un’esplicita parafrasi del titolo della famosa e controversa (all’epoca, siamo nel 1977) canzone dei Sex Pistols, gruppo icona del punk, Anarchy in the UK, e dove John Lydon, in arte Johnny Rotten cantava: “I am an Antichrist/ And I am an anarchist / Don’t know what I want/ But I know how to get it” (sono anticristo, e sono un anarchico, non so cosa voglio, ma so come ottenerlo). Con un certo ritardo, la cultura post sovietica – e in questo caso tutta la cultura dell’ex Urss, non solo quella ucraina – si impossessa di questo linguaggio e messaggio. Ma l’anarchia è solo una metafora? O un’iperbole per segnare la volontà di rivolta? Nel caso specifico, niente affatto metafora né iperbole. In Ucraina, la riscoperta della memoria anarchica fa parte della costruzione dell’identità nazionale. Un bel paradosso usare l’anarchismo per costruire una nazione, ma la Storia è piena di paradossi. In concreto. Žadan si riferisce a una vicenda gloriosa, finita male, quella del movimento anarchico di Nestor Makhno, un leader carismatico che negli anni della guerra civile in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre stabilì, in una parte dell’Ucraina orientale, una repubblica, anarchica appunto, dei contadini. Il suo esercito combatté sia contro i bolscevichi sia contro i bianchi. Furono sconfitti dai comunisti (non senza essere diffamati in quanto antisemiti: non era vero), Makhno costretto all’esilio a Parigi dove morì in povertà e alcolizzato. Ma la leggenda di un territorio libero restò per decenni nella tradizione anarchica in Occidente e venne appunto riscoperta dopo il crollo dell’Urss in Ucraina, monumento a Makhno nella sua città d’origine Hulajpolje. compreso. Nel suo viaggio Žadan visita i luoghi di quella epopea.
Nelle sue peregrinazioni e soprattutto nella narrazione della città di Charkiv, capitale dell’Ucraina sovietica fino a metà anni Trenta (Kiev, per Stalin ma prima ancora per Lenin, sembrava troppo borghese, troppo carica della memoria polacca e quindi infida), nella sua narrazione dunque di Charkiv, oggi al centro delle cronache di guerra, Žadan parla anche del futurismo ucraino e di un monumento. Il monumento è a Taras Ševcenko, poeta nazionale dell’Ottocento, nato servo della gleba e perseguitato dagli zar e che nella sua ultima poesia Testamento scrisse “Quando morirò, mi interrino / Sull’alta collina / Fra la steppa della mia / Bella Ucraina”. Quel monumento fu inaugurato nel 1935, epoca del trionfo di Stalin: con tutte le implicazioni estetiche ed etiche del caso. Il futurismo ucraino che l’autore contrappone alla statua è una corrente letteraria: poeti e romanzieri che fra gli anni Venti e Trenta sono stati protagonisti del fenomeno chiamato “Rinascimento fucilato”: rinascita della letteratura ucraina, su basi avanguardistiche. Quei poeti e romanzieri finirono fucilati per ordine di Stalin. Su uno di loro: Mykhail Semenko, Žadan aveva fatto il suo Master. Ma l’autore lamenta pure l’abbattimento della statua di Lenin, perché quello era il suo punto di ritrovo con i riottosi amici. Ecco, il romanzo, non lineare e che procede per associazioni e digressioni, è anche una storia di amicizie, fra dosi abbondanti di alcol e osservazioni di stampo quasi antropologico sullo smarrimento dell’homo post-sovieticus. Il tutto all’indomani della Rivoluzione arancione (2004), il momento decisivo e traumatico nella lotta per l’indipendenza.
- Wlodek Goldkorn - Pubblicato su Robinson del 31/12/2023
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