Il primo tomo della serie La tecnica e il tempo rappresenta con tutta probabilità non soltanto l’atto di nascita filosofica di Bernard Stiegler in quanto suo libro d’esordio, testo fondativo e programmatico, ma anche una delle ultime – e tra le più importanti – grandi operazioni teoriche originali della filosofia novecentesca, in grado di traghettare quest’ultima verso le questioni tecno-logiche del ventunesimo secolo. A farne un hit filosofico concorrono tre elementi principali. Innanzitutto, i temi e le questioni mobilitati, per i quali da un lato il titolo, nel suo detournare Essere e tempo di Heidegger, pare preciso al di là di ogni suggestione, mentre dall’altro lato la rilettura e concatenamento originali di Bertrand Gille (storia dei sistemi tecnici), della paleoantropologia di André Leroi-Gourhan, dei processi d’individuazione di Gilbert Simondon, dell’antropologia filosofica di Rousseau e della fenomenologia husserliana del tempo interno alla coscienza riescono a offrire una storia dell’ominazione (l’antropogenesi come tecnogenesi) inedita e alternativa tanto al culturalismo quanto ai determinismi biologici o tecnologici. Inoltre risultano fondamentali tanto la singolare e, appunto, originale declinazione della decostruzione derridiana e della différance quanto il rapporto tra il contenuto del libro e il momento storico in cui viene pubblicato, ossia l’anno del web, che rappresenterà uno spartiacque culturale, epistemologico, sociale e politico, di cui la filosofia contemporanea, salvo rarissime eccezioni, non riuscirà per almeno un paio di decenni a prendere le misure – rivelandosi letteralmente epimeteica, proprio nel senso che Stiegler riprende dal mito di Epimeteo, “colui che pensa in ritardo”. E ciò che la filosofia pensa in ritardo, per difetto, o addirittura non pensa è la tecnica. (Paolo Vignola)
L’invenzione dell’uomo: senza indulgere in essa, l’ambiguità del genitivo indica una domanda che si divide in due. “Chi” o “cosa” inventa? “Chi” o “cosa” è stato inventato? L’ambiguità del soggetto, e allo stesso modo l’ambiguità dell’oggetto del verbo (inventare), non traduce altro che l’ambiguità del significato di questo stesso verbo. La relazione tra il “chi” e il “cosa” è l’invenzione. A quanto pare, il “chi” e il “cosa” si chiamano rispettivamente uomo e tecnica. Tuttavia l’ambiguità del genitivo ci impone almeno di chiederci: e se il “chi” fosse tecnico? E se il “cosa” fosse l’uomo? Oppure dobbiamo andare al di qua o al di là di qualsiasi differenza tra un “chi” e un “cosa”? […] Il movimento contenuto nel processo di esteriorizzazione è paradossale nella misura in cui Leroi-Gourhan dice in effetti che è lo strumento, cioè la techne, che inventa l’uomo, e non l’uomo che inventa la tecnica. O ancora: l’uomo inventa se stesso nella tecnica inventando lo strumento – “esteriorizzandosi” tecno-logicamente.
(dal risvolto di copertina di: BERNARD STIEGLER, La colpa di Epimeteo. La tecnica e il tempo #1. A cura di Paolo Vignola, traduzione di Claudio Tardini LUISS UNIVERSITY PRESS Pagine 335, € 32)
La modernità? Solo un equivoco
- di Carlo Bordoni -
Più che di Prometeo, il semidio che donò il fuoco agli uomini, siamo i discendenti di suo fratello Epimeteo. Dei suoi errori, delle sue fragilità, della sua disattenzione. La colpa di Epimeteo è il titolo del primo volume della trilogia La tecnica e il tempo di Bernard Stiegler (Luiss University Press), la cui edizione originale risale al 1994. Il filosofo francese, prematuramente scomparso nel 2020, parte dal presupposto che la filosofia e la scienza, cioè l’episteme, abbiano operato una sorta di repressione della tecnica, lasciandola in secondo piano e ignorandone la componente umana. Appare evidente, invece, come tutta la storia umana sia fondata sulla tecnica e sulla sua implementazione in nome del progresso. La scienza stessa è stata «usata» dall’esigenza di sviluppare la tecnica al fine di migliorare le condizioni esistenziali dell’uomo. È quello che si può definire l’equivoco primigenio: aver tratto vantaggio dalla tecnica, dando alla scienza il compito nobile, ma teorico, di garantire la sua efficacia. Scienza e filosofia, assieme, hanno rappresentato perciò il grado superiore di civiltà, restando al livello dell’astrazione, della concettualizzazione o, se vogliamo, della spiritualità, lasciando alla tecnica il «lavoro sporco», il compito di soddisfare le esigenze umane. Del resto la tecnica è inerente all’uomo, rappresenta la sua chance di sopravvivenza in un mondo ostile. È parte del suo mondo fin dalle origini. Così tanto necessaria da costituire da sempre la spinta in avanti, a progredire, a fornire le opportunità di crescere, alimentarsi, costruire, difendersi, adattarsi al mondo naturale e poi a modificarlo secondo le proprie esigenze. La stessa filosofia, nella seconda metà dell’Ottocento, è stata piegata all’applicazione della tecnica: la sociologia nasce in fondo come una riduzione della filosofia alle nuove esigenze tecnologiche. È la tecnologizzazione dell’episteme, la sua razionalizzazione strumentale. Infatti usa pratiche tecniche, come la statistica, la doxa, la raccolta delle opinioni, il calcolo delle probabilità, per raggiungere i suoi scopi. Che sì sono scopi di conoscenza della realtà, ma anche di controllo sociale. Benché questo elemento sia difficile da ammettere, il discorso sociologico nasconde sempre un fondo di ordine e di rassicurazione, una base di osservazione e di elaborazione dei dati utili a conoscere per prevedere, per scegliere, per indirizzare. Talvolta anche per condizionare. La tecnica, come tutti i saperi applicati, è uno strumento di dominio che si adatta perfettamente al più vasto progetto universale di dominare il mondo: il grande desiderio che l’umanità ha sempre coltivato e che la tecnica, nella sua continua evoluzione, ha consentito. Il dominio sulla natura, soprattutto.
Ora che la modernità — periodo storico in cui il dominio sulla natura è stato largamente esercitato — è in crisi, l’ansia di dominio si è spostata sulla tecnologia, divenuta così complessa da far temere che possa diventare controllabile. Si ripete in tal modo lo stesso processo che aveva caratterizzato, alle origini del pensiero moderno, la grande svolta per il dominio sulla natura attraverso l’innovazione tecnologica. Il tutto a partire dall’errore di Epimeteo, «colui che pensa in ritardo». Ma anche dalla falsa convinzione che i sistemi epistemici (filosofia e scienza) siano sempre stati prevalenti. Lo sono stati per un lungo periodo: abbiamo vissuto credendo nel loro primato, mentre la tecnica procedeva grazie al loro apporto: utilizzandone le scoperte, le intuizioni, la capacità di calcolo, di astrazione, di creazione, di teorizzazione, di sperimentazione, per trarne strumenti per costruire, produrre, muoversi, comunicare. La modernità, pur senza proclamarlo esplicitamente, ha fatto della tecnica il suo strumento per ordinare il mondo secondo i suoi principi, la sua concezione di sviluppo e di controllo sociale. Perché è palese che l’idea di modernità comprendeva non solo il dominio della natura, ma anche quello dell’uomo, intendendo l’uomo come parte della natura. Un progetto grandioso che aveva in origine uno scopo positivo: garantire l’ordine, la razionalità dei comportamenti e dei diritti, la convivenza, la ricchezza (di pochi) e la sussistenza (di molti). Il che comprende anche la distinzione dei ruoli sociali, secondo una precisa regolamentazione che mantenesse un equilibrio considerato «naturale». I termini natura e naturale hanno rappresentato il grande equivoco della modernità, che ha portato alle conseguenze che la storia ci ha consegnato. Se, come afferma Stiegler, la «tecnica è l’impensato», o una componente sottovalutata rispetto all’episteme, è pur vero che è un dato di fatto. È una condizione. Non prevede il pensiero, ma l’azione. Infatti, una volta approntata, richiede l’utilizzo senza l’apporto del pensiero, se non quello attuativo da manuale di istruzioni. Così come si guida l’auto o si guarda la televisione. Non si pensa l’auto, né la televisione. Eppure l’auto e il televisore, come tutte le altre tecnologie d’uso comune — ultimo è l’immancabile smartphone — determinano i nostri comportamenti, condizionano le nostre esistenze: siamo quello che facciamo con la tecnologia. Se improvvisamente ci togliessero tutto ciò che è tecnologico (come nel vecchio romanzo dello scrittore britannico Samuel Butler, Erewhon, del 1872) e ci lasciassero soltanto l’episteme, saremmo perduti. Forse qualche sopravvissuto di buona volontà — malgrado il freddo e la fame — potrebbe ripartire da zero con grande fatica.
- Carlo Bordoni - Pubblicato su La Lettura del 24/12/2023 -
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