Pubblicato nel 1994, in questo testo che ora appare sul n°20 di Exit! del maggio 2023, Kurz spiega come, con la fine dell'Unione Sovietica, anche il marxismo, rimasto in vigore fino ad allora, fosse arrivato alla sua fine storica. Per il marxismo, in quanto ideologia della modernizzazione, la moderna categoria reale del lavoro patriarcale, era centrale (allo stesso modo in cui lo era per il liberalismo e per il fascismo). In contrasto con quella che è invece una critica categoriale del capitalismo - la quale concepisce il lavoro, la dissociazione, il valore, ecc., come delle categorie storiche, e quindi, in tal modo, rende concepibile il loro superamento e la loro abolizione, anziché postulare la loro imposizione o regolamentazione (se non addirittura arrivare ad allucinarle come se si trattasse della determinazione ontologica dell'essere umano) - il marxismo ha formulato una critica del capitalismo formatasi a partire dal punto di vista proprio di questo lavoro. Di fronte alla crisi globale del capitale, il marxismo del movimento operaio classico, che ormai ritiene di avere individuato il fattore decisivo nella "lotta di classe" e nella "espropriazione della proprietà privata", non è più in grado di cogliere fino a che punto sia arrivata la gravità della realtà della crisi. Come chiarisce Kurz, con la fine della società del lavoro, un punto di vista del lavoro non può altro che essere reazionario.
Il feticcio del lavoro: il marxismo e la logica della modernizzazione
- di Robert Kurz -
Il lavoro in quanto identità storica della modernità
Una teoria che è arrivata a essere storicamente potente, non può più essere liquidata come se fosse solo "errore e inganno", nemmeno quando certe manifestazioni storiche ad essa legate si sono esaurite, e sono ormai scomparse nell'abisso del passato. Questo, perché la storia non è un processo scientifico che di fronte a un'oggettività morta sancisce ciò che è falso, ma essa costituisce uno sviluppo umano. Secondo la terminologia hegeliana, la vera storia è la storia del "superamento [Aufhebung]", e non è dichiarazione di falsità. Ciò vale anche per quel che riguarda tutte le grandi teorie, viste come i diversi momenti interni di questa storia. Da questo punto di vista, la teoria di Marx può solo essere superata, non dichiarata falsa. In poco tempo, l'attuale forma di opportunismo storico, che si affanna a porre fine a Marx, al marxismo e a qualsiasi critica del capitalismo sotto la pressione di una storia esterna di eventi non ancora compresi, e a proclamare la positiva "fine della storia" (Fukuyama, 1992), è riuscita a mettersi terribilmente in imbarazzo. Dopo il crollo del socialismo di Stato, legittimato ad est dal marxismo, quella che stiamo vivendo non è l'ascesa globale della democrazia dell'economia di mercato, quanto piuttosto proprio l'imbarazzante crisi dell'Occidente stesso: dal punto di vista economico e sociale, ma anche ideologico e di legittimazione. In dialettica, così come nel misticismo e nei sistemi esoterici e cabalistici, esiste la dottrina dell'identità degli opposti. Nella storia reale e nella teoria, questa identità degli opposti può essere decifrata come la determinazione di una forma sociale generale e dominante, ovvero il modo in cui l'essenza di una forma storica di società, che è comune a tutti i partecipanti e a tutte le fazioni "all'interno" di quella forma, relativizza i suoi opposti e li rappresenta quali determinazioni polari all'interno di un tutto identico. Tuttavia, una visione del genere è possibile solo quando il fumo delle battaglie immanenti si è diradato, quando la formazione diventa visibile come un tutto identico e solo al momento del suo inabissamento, laddove prima questa identità doveva rimanere occulta ai partecipanti: altrimenti essi non sarebbero stati in grado di combattere le loro battaglie, per condurre la formazione storica alla sua maturità e, infine, al suo "superamento". Da questo punto di vista, la rottura epocale che si sta dispiegando sotto i nostri occhi può essere intesa, forse sorprendentemente, in maniera completamente diversa rispetto a quella che la coscienza, ancora ferma all'epoca del declino, è in grado di immaginare; vale a dire, non tanto come la vittoria del capitalismo sul socialismo, non come il trionfo dei principi liberali su quelli dogmatici o della destra politica sulla sinistra politica, quanto piuttosto come il limite storico e la crisi del sistema di riferimento comune della forma storico-sociale comune, il cui sviluppo e la cui realizzazione hanno determinato non solo la storia del dopoguerra dal 1945 in poi, ma perlomeno gli ultimi 200 anni. Secondo questa prospettiva, il marxismo, divenuto storicamente potente in quel periodo, non può che essere seppellito insieme a tutti i suoi avversari. A un esame più attento, risulta chiaro che nella modernità la categoria del "lavoro" rappresenta l'identico degli opposti, non solo come concetto teorico, ma anche come categoria reale oggettivata dell'esistenza storico-sociale. Le oggettivazioni del "lavoro", nella forma di "valore" economico, nell'incarnazione della merce e delle relazioni merceologiche, del denaro e delle relazioni monetarie, della concorrenza e della redditività, della razionalizzazione e dell'economizzazione del mondo, hanno determinato la vita della modernità in linea ascendente e in misura crescente. Ed è stato solo attraverso queste oggettivazioni del "lavoro" che si sono sviluppate le forme politiche moderne: la contrapposizione tra mercato e Stato, tra capitalismo e socialismo, tra destra e sinistra, tra nazionalismo e internazionalismo, tra dittatura e democrazia. Questa prospettiva può, a prima vista, provocare uno scuotimento di testa incredulo, ma ciò è dovuto solo al fatto che nel processo di modernizzazione la coscienza teorica, come la coscienza quotidiana, ha istintivamente de-storicizzato e ontologizzato le proprie forme sociali di esistenza, le quali appaiono nelle loro determinazioni più astratte come forme umane di esistenza in generale. Il fatto che nella storia della modernizzazione ciò valga anche per gli opposti immanenti potrebbe essere illuminante, solo che l'accentuazione e l'occupazione dei poli differiscono. Ciò diventa evidente quando i diversi momenti socializzanti della modernità vengono confrontati con i loro opposti. Il momento liberale del mercato, del capitalismo, dell'internazionalismo e della democrazia viene costantemente contrapposto al momento illiberale dello Stato, del socialismo, del nazionalismo e della dittatura. Tuttavia, esattamente allo stesso modo in cui il momento illiberale può sempre essere occupato sia dalla destra che dalla sinistra, e quindi si riferisce all'identità dell'opposizione destra-sinistra (il liberalismo ideologico non è mai stato in grado di rappresentare un asse indipendente che rompesse con lo schema destra-sinistra del sistema di coordinate politiche, ma ha sempre e solo caratterizzato il corrispondente cammino della sua conseguenza), anche per quanto riguarda la serie di concetti liberali e illiberali esiste una loro identità: queste categorie non si trovano in un rapporto dualistico, ma in una relazione di opposizione storico-genetica l'una con l'altra. La dittatura non è l'antagonista esterno della democrazia, ma è piuttosto l'altro della democrazia stessa: la sua forma storico-genetica di attuazione, così come appare in modo disomogeneo nelle diverse regioni del mondo. Allo stesso modo, il nazionalismo è simultaneamente sia un fattore condizionante che un prodotto dell'internazionalizzazione stessa, e non la sua negazione esterna; lo stesso si potrebbe dire dell'opposizione tra mercato e Stato o tra capitalismo e socialismo. Un raffronto con le altre formazioni storiche indica che l'identità centrale di tutti questi opposti è il "lavoro", con le sue categorie oggettivate.
Le società agrarie premoderne, dal Neolitico all'inizio dell'industrializzazione, non conoscevano né il "lavoro" in senso moderno - come categoria sociale di totalità - né le sue astrazioni di forma (merci, denaro) e le sue leggi di movimento (concorrenza, redditività), nel nostro senso. Il concetto astratto di "lavoro", nella misura in cui esso fosse esistito, si riferiva solo all'esistenza di lavoratori minori e dipendenti (schiavi, clienti, servi della gleba); esso pertanto non possedeva la dignità dell'universalità sociale, ma esprimeva invece solo la degradazione in sé (Arendt 1981). La sfera sociale del "lavoro", e quindi la sfera economica astratta, non era ancora differenziata; la riproduzione materiale si intrecciava ancora con la religione, con le tradizioni sociali, ecc. Di conseguenza, la merce e il denaro non avevano un'esistenza centrale, e nemmeno indipendente e astratta, ma rimanevano integrati in un sistema di obbligazioni reciproche; oppure si trattava di un insieme di regole sociali completamente diverse rispetto ai "doni" reciproci (Mauss 1990). Che il "lavoro" e le sue categorie reificate e indipendenti ("valore", merce, denaro, capitale, salario di lavoro, "processo di valorizzazione") fossero lo stesso identico elemento della modernità, è dimostrato anche dal fatto che essi, insieme alle loro forme di rappresentazione, siano stati parimenti approvati, affermati in termini di identità e ontologizzati da tutti i programmi ideologici e politici del nostro tempo. Il marxismo, come sappiamo, non solo non costituisce un'eccezione, dal momento che si è identificato con il "punto di vista dei lavoratori" e ha rivendicato in modo fondamentale il punto di vista del "lavoro" come presunta antitesi del "capitale". Tuttavia è significativo che lo abbiano fatto anche i conservatori di destra, e persino i radicali di destra, elevando la "figura dell'operaio" (Jünger 1982) a una figura luminosa e identificativa. Ma perfino gli stessi rappresentanti del capitale hanno seguito tale identificazione. Chiunque pensi che la rivendicazione del "diritto al lavoro" e lo slogan "Basta con i fannulloni!" siano una prerogativa dell'Internazionale marxista dovrebbe prendere nota di ciò che dice la figura simbolo del capitalismo americano rampante: «Il principio morale di base è quello del diritto dell'uomo al proprio lavoro [...]. A parer mio, non c'è nulla di più abominevole di una vita oziosa. Nessuno di noi ha il diritto a questo tipo di vita. Nella civiltà non c'è posto per gli oziosi» (Ford 1923, 11 ss.). È indubbio che, nel corso del processo storico di modernizzazione, i vari funzionari e le diverse posizioni ideologiche di un identico processo hanno confrontato le differenti manifestazioni, modalità di esistenza e incarnazioni dell'emergente sistema del "lavoro": La forma vivente dell'azione "lavoro" contrapposta alla sua forma morta e reificata "denaro" (capitale); la nazione come forma coerente di riproduzione del "lavoro" (emersa solo nel processo di modernizzazione) contrapposta a quella incoerente del mercato mondiale e della società globale, ecc. Ma il punto centrale di tutte le identificazioni (a parte qualche dissidente edonista presente in tutti i campi) è stato e rimane il "lavoro" ontologizzato e definito in modo assiomatico, senza che il cambiamento di significato di tale termine si riflettesse nel processo della storia reale. Se consideriamo le contrapposizioni presenti nella modernità, non come se fossero una battaglia tra eterni principi metafisici, ma come momenti complementari e genetici di un unico processo storico, vediamo che è possibile ricostruire il percorso della modernità come lo sprigionamento del "lavoro": il sistema delle antiche società agrarie, fondato sulla religione e sulle tradizioni, viene sostituito dal sistema dell'economia astratta, nella quale il "lavoro", sotto forma di capitale, si impone come un paradossale fine in sé. Il ri-accoppiamento tautologico del denaro a sé stesso ("valorizzazione", profitto) è identico a un corrispondente ri-accoppiamento del "lavoro" a sé stesso, nella misura in cui il denaro, e di conseguenza il capitale, non è altro che la forma morta e reificata della rappresentazione del "lavoro". Tuttavia tale trasformazione dell'attività vitale nell'astratto e assurdo fine sociale del "lavoro" è stata resa possibile solamente separando questo "lavoro" dal coerente processo esistenziale, e con la conseguente differenziazione dall'astratta sfera economica del mercato e dei suoi criteri; sono stati eliminati tutti gli elementi della religione, della tradizione, dell'obbligo personale, del "dono", ecc. (in qualità di forme e criteri delle relazioni sociali), e l'umanità è stata assoggettata al feticismo "economicista" del lavoro. Solo attraverso la sua separazione e differenziazione da tutto il resto del processo vitale, il "lavoro" si è autonomizzato e si è elevato a categoria della totalità, subordinando a sé, come principio astratto e dominante, tutti gli ambiti dissociati della vita, plasmandoli e rendendoli a poco a poco conformi alla sua immagine. È indubbio che questo processo non sia stato consapevole e riflessivo, ma che sia stato sempre guidato dall'insieme delle motivazioni particolari e limitate del soggetto. Il carattere intrinsecamente assurdo e fine a sé stesso del processo di formazione del "lavoro", avvenuto in maniera irrazionale, e la mancanza di auto-riflessione nel processo si condizionano a vicenda. Ciò che Melville fa dire al suo Capitano Achab può essere riferito alla modernizzazione: «Tutti i miei mezzi e tutti i miei metodi sono ragionevoli; quel che è folle, è solo il mio obiettivo».
Naturalmente la "follia" dell'obiettivo, vale a dire l'accumulazione come fine in sé del "lavoro" morto a lungo termine ha dovuto avere un effetto anche sui "mezzi e metodi", dal momento che in sé non può esistere una razionalità meramente interna. In questo senso, la modernizzazione, vista come liberazione del "lavoro", delle sue forme di rappresentazione e delle sue forme funzionali, non è altro che una religione secolarizzata. Da un lato, Max Weber ha esaminato questo fatto nella sua "Etica protestante" (Weber 1984), ma non lo ha compreso in maniera sufficientemente approfondita; dall'altro, descrive lo stesso processo come "disincantamento del mondo" (Weber 1972), per quanto si possa anche parlare di un tipo semplicemente nuovo di incantamento negativo del mondo, mediante il moderno feticismo del lavoro. Proprio come la razionalità della modernità si rivela irrazionale nel suo nucleo, e la ragione astratta deriva dal carattere astratto ed estraneo del contenuto del "lavoro", in tal modo anche la storia dell'imposizione di questa configurazione risulta segnata da gravi sconvolgimenti irrazionali, esplosioni di violenza e nuovi rapporti di coercizione. Il nuovo sistema del "lavoro", con le sue assurde imposizioni, viene imposto con violenza non solo contro la feroce resistenza che opponevano le vecchie forze della società agraria, ma sotto forma premoderna anche contro i "produttori diretti" di origine contadina e artigianale; ad esempio, attraverso la disciplina temporale innaturale e priva di senso della fabbrica e dell'ufficio: «Gli imperativi e le imposizioni comportamentali proprie del lavoro salariato: essere indipendenti rispetto ai ritmi biologici e climatici, ripetere giorno dopo giorno gli stessi monotoni movimenti delle mani, arrivare in fabbrica in orario e non lasciarla prima della fine della giornata lavorativa erano estranei alle persone preindustriali. Le loro vite seguivano un ritmo diverso e non conoscevano ancora la rigida separazione tra lavoro e vita» (Eisenberg 1990, 105). Per contro, questo stesso sistema di "lavoro", sviluppatosi in forma compulsiva e patologica, aveva prodotto anche delle nuove attrattive, delle gratificazioni e dei momenti di emancipazione. La storia dell'imposizione del "lavoro" può essere suddivisa, grossolanamente, secondo questa sua continua ambivalenza: a partire dalle marche o dalle mescolanze di tipo ancora corporativo, feudale e agrario nella storia dell'industrializzazione del XIX secolo, passando per la"ideologizzazione delle masse", per la lotta di classe, per le dittature della modernizzazione e per l' impulso dato dalle due guerre mondiali, per arrivare alla "democratizzazione" generale, alla "de-ideologizzazione" e poi alla crescente "individualizzazione" (Beck 1986) della seconda metà del XX secolo. Allo stesso modo in cui la dittatura intrattiene una relazione storico-genetica con la democrazia, ed è essa stessa la sua forma di imposizione, il collettivismo, invece, nella sua variante marxista e anche in quella nazionalista-radicale di destra, risulta essere solo una fase transitoria della successiva individualizzazione astratta, diretta contro la vecchia "comunità" agraria (Tönnies 1979), sebbene ciò non fosse consapevole, o venisse addirittura formulato in modo ideologicamente contraddittorio (ad esempio, attraverso il contraddittorio termine nazionalsocialista "Volksgemeinschaft"[Nd.T.: un'espressione tedesca che significa "comunità popolare", "comunità popolare", "comunità nazionale" o "comunità razziale", a seconda della traduzione del suo termine componente Volk]), dal momento che la "de-ideologizzazione" è stata anche il risultato genetico della precedente fase di sviluppo ideologico che ha prodotto il marxismo e il nazionalismo, e non il suo semplice opposto. Fin dall'inizio, Questo scatenamento storico del "lavoro" astratto e la relativa separazione tra vita e attività produttiva, hanno avuto un aspetto di genere; la storia dell'imposizione del "lavoro" è stata identica allo sviluppo delle moderne relazioni di genere. Rispetto alle società premoderne, si può osservare una peculiare inversione strutturale, dal momento che in quelle l'attività produttiva non era pubblica, e non aveva una forma sociale generalizzata; era in larga misura parte dell'economia domestica, e quindi dell'"oikos", di quella "casa intera", nel cui spazio le casalinghe avevano un significato sociale incomparabilmente maggiore rispetto alla modernità. Simultaneamente, dal punto di vista della "polis" maschile e della sua sfera pubblica, l'attività produttiva, se vista nel contesto domestico, era qualcosa di inferiore e di degradato, rafforzato da una concezione del lavoro che si basava sull'attività degli schiavi. Nella modernità questa relazione si inverte: il "lavoro", in quanto sfera svincolata dal contesto di vita, rappresentato astrattamente nella forma del denaro, diventa un nuovo tipo di terreno pubblico, e pertanto un soggetto "maschile". La sfera pubblica maschile della "polis" viene "economizzata" (a differenza di quanto avveniva nell'antichità), e solo allora diventa ideologicamente positiva, nel senso del patriarcato moderno. Inoltre, ciò significa che l'"oikonomia" viene sottratta alle donne per renderle responsabili, nel ristretto contesto familiare, di tutto ciò che non può essere coperto dalla - ora pubblico-sociale - "economia del lavoro", e dal suo fine astratto (la valorizzazione del denaro): "lavoro domestico" nel senso riduttivo moderno, educazione dei figli, "amore". Di conseguenza, all'inizio la modernizzazione attraverso il "lavoro" non significa un miglioramento della posizione delle donne nella società, ma, al contrario e in misura ancora maggiore, l'esclusione e la svalutazione del "femminile"; le attività ingrate attribuite alle donne servono ora solo a «garantire e razionalizzare la ricerca strumentale della prestazione in quanto standard della socializzazione maschile» (Eckart 1988, 202ss.); ossia a fungere da discarica per i mali del sistema. Nella misura in cui le donne, inseguendo la falsa promessa dell'universalismo del "lavoro", cercano di affermarsi nella sua sfera, rimangono comunque strutturalmente svantaggiate anche oggi essendo state escluse o «estranee [...] in quanto gruppo storico di "ritardatarie" sul mercato del lavoro» (ibid., 206). Pertanto, non è esagerato affermare che la "dissociazione" e la moderna codifica del "femminile" sono diventate la «condizione di possibilità per il principio maschile del "lavoro" astratto» (Scholz 1992, 24). A questo riguardo, tanto il movimento operaio in Occidente quanto i regimi di accumulazione statal-socialista della "modernizzazione in ritardo" nell'Est e nel Sud, possono essere compresi come veicoli dello sviluppo interno dello stesso capitalismo, strutturalmente dominato dagli "uomini", contro il quale essi hanno combattuto solo in modo superficiale, e nella sua forma empiricamente riconosciuta e non ancora sviluppata. In uno dei due casi, il suo obiettivo immanente era l'uguaglianza degli "uomini del lavoro" visti come moderni soggetti monetari e giuridici, mentre nell'altro era quello dell'autoaffermazione dei ritardatari storici nella loro qualità di nazioni moderne e di partecipanti al mercato mondiale: entrambe le cose logicamente necessarie dal punto di vista del sistema totale del "lavoro".
Se Marx e il marxismo vengono considerati come "terminati", al più tardi a partire dalla rottura epocale avvenuta nel 1989, quest'indicazione è involontariamente ambigua. Infatti il marxismo, visto da "fuori", non è stato "terminato" nella forma di uno sconfitto in battaglia, che lascia a un altro il ruolo di splendido vincitore; al contrario, è stato "terminato" proprio in quanto compito che è stato portato a termine, e che quindi è diventato irrilevante ai fini dello stesso processo di modernizzazione. Tale compito era la generalizzazione sociale e l'imposizione globale del "lavoro" moderno. In questo processo il marxismo ha fatto da apripista contro i gretti poteri di rappresentazione delle fasi di sviluppo capitalistiche ancora immature. Per il pensiero immanente al sistema, che si aggrappa ai conflitti del passato, il risultato non può essere formulato altro che come un paradosso: il marxismo è arrivato alla fine perché il "lavoro" ormai non può più essere imposto, e perché la storia dello sviluppo capitalistico, di cui è stato parte, ha raggiunto i suoi limiti assoluti. Naturalmente, questo risultato sorprendente getta una nuova luce sulla questione della teoria di Marx. È stato spesso affermato che Marx, con il suo immenso bagaglio teorico, non è stato assimilato al marxismo; dall'altra parte, nessuno potrebbe affermare che Marx non abbia avuto niente a che fare con il marxismo. Di fatto, la teoria di Marx può essere letta, per lunghi passaggi, come una teoria immanente della modernizzazione, che presenta certamente una visione positiva del capitalismo, e argomenta apertamente in termini di ontologia del lavoro, a volte perfino direttamente di tipo "protestante". Sotto questo aspetto Marx è compatibile con il marxismo e con il suo "compito" immanente. E non c'è da stupirsi che egli risulti essere un "uomo del XIX secolo", per il quale la "dissociazione" dalla sfera complementare femminile e la separazione del "lavoro" dal processo vitale non costituiscono un tema centrale della critica; è esattamente in questo senso che Marx rimane affermativo. D' altronde, Marx presenta anche una linea di argomentazione in qualche modo occulta ed "esoterica", la quale supera il marxismo e il moderno modo di socializzazione in generale. A dispetto della sua asserzione sul "lavoro", Marx non aveva alcun dubbio sul fatto che le sue forme feticistiche e reificate di rappresentazione, le merci e il denaro, dovevano essere abolite in un processo rivoluzionario di trasformazione. Per tutti i marxismi, rimasti bloccati sul compito immanente della modernizzazione, questa contraddizione nella sua teoria, che punta al di là della modernità, è sempre stata una seccatura ed è stata trattata come una vergogna in famiglia. Marx può essere letto in maniera tale che, a differenza del marxismo, egli non asserisce il "lavoro" in maniera incondizionata e inconsapevole, per così dire, ma piuttosto in quanto mezzo inconsapevolmente prodotto storicamente che «schiude le sorgenti della ricchezza» (Marx 1974, 135) il quale si comporta come una specie di "pedagogia della storia", vale a dire che in senso assoluto non è affatto protestante. Visto in tal modo, il "lavoro" sarebbe solo una scala storica che può essere buttata via nel momento in cui, con il suo aiuto, la povertà premoderna delle necessità sarà stata superata. Contrariamente alle sue affermazioni, Marx è sempre stato sul punto di rompere con l'ontologia del lavoro; ma probabilmente avvertiva che i tempi non erano ancora maturi per una simile rottura e che il movimento storico del suo tempo non poteva ancora andare oltre la sua ombra. Oggi, però, è esattamente proprio questo Marx non più compatibile con il marxismo a rivelarsi fecondo e sorprendentemente contemporaneo. Infatti, la crisi del sistema di riferimento comune ai precedenti combattenti diventa sempre più chiaramente evidente come crisi del sistema mondiale del "lavoro" stesso che ci sta portando a una crisi del capitalismo assai più profonda di quanto i marxisti avrebbero mai potuto sognare. Nel momento in cui cala il sipario sul finale di tutta un'epoca, il racconto della storia ricade in una profonda e oggettiva ironia.
La Teoria della Crisi di Marx, e l'Utopia Marxista del Lavoro
All'ombra della grande crisi globale alla fine del processo di modernizzazione e alle soglie del XXI secolo, anche le idee del marxismo sulla fine del modo di produzione capitalistico sono immerse in una peculiare penombra. In quella crisi fantasmatica che compariva nelle teorie e nelle idee marxiste, il ( supposto) limite del capitale avrebbe dovuto corrispondere a una generalizzazione e a una massima espansione del "lavoro". Nella crisi reale che comincia a delinearsi dinanzi ai nostri occhi, sembra invece sia vero il contrario. L'identità negativa tra "lavoro" e capitale si rende visibile proprio in questa crisi, che si manifesta come una "crisi della società del lavoro". La contraddizione, nella quale il marxismo, insieme al capitalismo, raggiunge ironicamente i suoi limiti assoluti, può essere ancora rintracciata in maniera non dissimulata in Marx stesso. Nella misura in cui anche lui era un feticista del lavoro - e di conseguenza un ontologo del lavoro - non poteva non insistere sul fatto che il capitalismo sarebbe perito proprio a causa della massificazione e della totalizzazione della "classe operaia", la quale non sarebbe stata soltanto una delle sue categorie sociali funzionali, ma presumibilmente anche il suo "becchino". La formulazione “classica” del marxismo, intesa nel senso di questa prospettiva, corrisponde al famoso passo del capitolo 24 del Capitale (vol. 1) dedicato all'accumulazione originaria del capitale: «Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale, che usurpano e monopolizzano ogni tappa e i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, dell’alienazione, dell’oppressione, della schiavitù, della degradazione umana e dello sfruttamento, ma cresce anche la resistenza della classe operaia, sempre più numerosa e sempre più istruita, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un ostacolo per il modo di produzione che con esso e sotto di esso è fiorito. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili per il loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.» (Marx 2005, 790 ss. [1996, 381]). Questo passaggio, che per molto tempo ha suscitato nei marxisti quasi un brivido sacro, si inserisce interamente nell'ambito del feticismo del lavoro, storicamente ancora in espansione. La contraddizione sociale appare sotto forma di riduzione sociologica. I "capitalisti" sono sempre meno e i "proletari" sono sempre di più; il marxismo si accontenta di questo semplice calcolo, giudicando male il loro ruolo storico e facendone derivare la propria "vittoria inevitabile". In questa comprensione, a segnare la frontiera del capitalismo non c'è l'abolizione del "lavoro", bensì la sua "socializzazione" a livello elevato. È lo strano e curioso concetto di "monopolio del capitale", quello che dev'essere spezzato, suggerendo così proprio quella volgare idea marxista secondo cui, a dover essere superato, non è la forma del capitale, o il feticcio del capitale in quanto tale, ma piuttosto solamente la sua ingiustificata "monopolizzazione" da parte di una classe sociale. Qui, il concetto di "proprietà privata" diventa estremamente riduttivo; non sembra che sia legato alla forma sociale senza soggetto delle merci, o del denaro, ma a quel "potere di disporre" - soggettivo e sociologicamente definito - che ha un certo gruppo di persone, sui mezzi materiali di produzione. È qui che ascoltiamo il Marx marxista; nessuno dei marxismi si è mai spinto oltre e al di là di questo limite di coscienza. Nei Grundrisse, invece, talvolta Marx torna alla sua originaria e ben più coerente intenzione "esoterica", dove troviamo una visione della fine storica del capitale quasi diametralmente opposta: «Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta — questa loro powerfull effectiveness — non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione.» (Marx 1974, 592 [2011, 941]). Stiamo apertamente parlando di una situazione storica nella quale i "lavoratori produttivi" non stanno affatto diventando sempre più numerosi, ma anzi la scientificizzazione della produzione li sta rendendo decisamente superflui su larga scala.
La vera fine del capitale è quindi caratterizzata dal fatto che, insieme ai "capitalisti", anche i "proletari", nel senso di attività di riproduzione di massa organizzata dal capitale, stanno diventando sempre meno numerosi, e che entrambe le classi insieme stanno raggiungendo i limiti del loro sistema di riferimento. Qui Marx sospetta qualcosa; e per evitare una netta rottura con l'ontologia del lavoro, cerca di ridurre la questione a una mera superfluità di "lavoro immediato". Ma è possibile includere nel concetto di "lavoro" anche le attività della produzione scientificizzata? Se i Grundrisse fossero stati pubblicati già nel XIX secolo, il marxismo avrebbe dovuto riconoscere come fondamentale tale problema e rifiutare fondamentalmente anche questa affermazione del loro maestro, dal momento che all'epoca il concetto di "lavoro" era ancora fortemente legato alla "attività produttiva immediata". Ma da allora in poi la storia stessa dell'imposizione del "lavoro" ne ha inflazionato anche il concetto; qualsiasi attività o espressione della vita umana viene definita "lavoro". Questa inflazione a livello terminologico esprime la natura totalitaria del sistema "lavoro" che, nel corso del suo sviluppo, ha modificato a sua immagine e somiglianza tutte le sfere differenziate o "dissociate", e ha sfuocato le tracce della sua genesi. Tuttavia, ciò non cambia il fatto che questo sistema si basi oggettivamente su un "lavoro di produzione immediata" ripetitivo e di massa, che può essere trasformato in un enorme potere d'acquisto, e che solo in questo modo rende possibile il ciclo di valorizzazione del capitale. Il concetto di "lavoro" in quanto tale, che è nato solo a partire da questo modo di produzione, sorge e scompare insieme a questo contesto sistemico. Nelle condizioni di un'inflazione socialmente pervasiva del concetto di "lavoro", il marxismo è stato inizialmente in grado di interpretare lo sconveniente problema emerso nei Grundrisse grazie a qualche contorsione, nella misura in cui lo ha in qualche modo recepito e archiviato. Il fatto che il "lavoro produttivo" stesse sempre più diminuendo, e non aumentando, e che venisse reso superfluo dalla scientificizzazione, venne accantonato come un futuro lontano e fantascientifico, ben oltre la "rivoluzione proletaria" (comunisti) o la "trasformazione socialista" (socialdemocratici), e ciò nonostante Marx affermasse il contrario. Tuttavia, in un futuro storicamente prevedibile, il processo di scientificizzazione dovrà, se possibile, proseguire a un ritmo così lento da ridurre ulteriormente il "lavoro", anziché renderlo superfluo. In questo modo, nel frattempo, la vecchia idea marxista della fine del capitale sembrava essersi definitivamente consolidata. Rimaneva il piccolo problema di come trasferire l'ontologia del "lavoro", intesa come presunta "eterna necessità naturale", in un lontano futuro post-capitalista. A questo proposito, i marxisti trovarono anche in Marx ciò che stavano cercando. Il "lavoro" andava ridotto, in quanto supposta "necessità", a sempre più piccole briciole per tutti. Il marxismo non si poneva nemmeno il problema di come si potesse ancora ricavare un'ontologia del "lavoro" a partire da un residuo che stava scomparendo, né prendeva in considerazione l'idea che il "lavoro", anziché essere ridotto a un residuo sempre più piccolo (a cui il feticismo del lavoro avrebbe dovuto aggrapparsi), potesse invece venire reintegrato nel processo vitale a un livello superiore, e quindi abolito come sfera differenziata e astratta. Viceversa, la "sovrastruttura" di un "regno della libertà" sarebbe stata costruita sull'assurdo "fondamento" di una quantità residua sempre più piccola di "lavoro necessario", su cui l'umanità avrebbe potuto indulgere nella risoluzione di cruciverba o di piaceri ancora più elevati. Qualcuno particolarmente audace voleva addirittura definire questo dominio come "lavoro", però come un suo lato ludico, per così dire (nel senso dell'utopico Fourier, per esempio). E le "donne" sarebbero state gentilmente accettate in questa utopia maschile del lavoro su un piano di "parità", pur nella segreta consapevolezza che l'intera costruzione resta sempre strutturalmente definita in termini maschili.
La Crisi reale della Società del Lavoro
Il fallimento dell'ideologia marxista è dovuto proprio al fatto che si sta avvicinando la fine del capitale, e pertanto anche quella del feticismo del lavoro nella seconda versione male interpretata di Marx. Come è noto, è stata la rivoluzione microelettronica, con le sue nuove tecniche di controllo, automazione e razionalizzazione, a rendere per la prima volta superflua una quantità di "lavoro" superiore a quella riassorbibile dai mercati in espansione. Secondo uno studio recentemente pubblicato a Washington dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) di Ginevra, la disoccupazione mondiale ha raggiunto proporzioni storicamente senza precedenti: « In seguito alla più grande crisi del mercato del lavoro, iniziata dopo la depressione degli anni '30, all'inizio del 1994 c'erano 820 milioni di disoccupati in tutto il mondo, pari al 30% dell'intera forza lavoro» (Handelsblatt, 7.3.1994). Questo significa che finalmente è stata raggiunta una fase in cui il "lavoro produttivo" si sta inesorabilmente riducendo a seguito del processo di scientificizzazione. Né l'apertura di nuove aree di attività nel "settore terziario" né le campagne per combattere i bassi salari possono cambiare questa situazione: le prime sono in gran parte settori dipendenti che derivano direttamente dal processo di scientificizzazione e che rimangono indirettamente subordinati ai redditi industriali; mentre le seconde si traducono in delle offensive unilaterali di esportazione, le quali, attraverso una concorrenza predatoria, possono solo aggravare la crisi globale. Non è quindi un caso che, dall'inizio degli anni '80, con l'avanzare della razionalizzazione, si parli periodicamente di "crisi della società del lavoro". Tuttavia, questo discorso è valido solo se la "società del lavoro" viene intesa come identica al rapporto di capitale. Infatti, “capitale” e “lavoro” sono solo due facce della stessa medaglia. Qualsiasi logica basata sulla formula pars pro toto deve necessariamente spingersi ad absurdum. Esattamente allo stesso modo in cui era illusorio ammettere che con il socialismo di Stato il “lavoro” avrebbe trionfato in maniera unilaterale sul “capitale” e avrebbe “continuato a funzionare” da sé solo, senza auto-superarsi, è altrettanto illusorio, e anche di più, vedere il “lavoro”, razionalizzato, precipitare in maniera unilaterale nella crisi, laddove invece il “capitale” continuerebbe ad accumularsi. In entrambi i casi, la reciprocità di tale relazione viene valutata in modo errato. Il rovescio della medaglia della disoccupazione strutturale di massa è inevitabilmente la fine strutturale dell'accumulazione di capitale. Sul piano empirico, questo problema appare come il tracollo globale del potere d'acquisto delle masse, che è tuttavia l'ultima istanza mediatrice del ciclo di valorizzazione. Pertanto, il capitale ha cominciato a dissolvere la propria sostanza sociale. Sebbene questo limite possa essere posticipato mediante il credito di Stato, con la creazione di denaro speculativo, attraverso l'inflazione dell'emissione monetaria e le crisi del debito, ciò non può essere fatto a lungo termine ed è possibile solo a costo di crisi finanziarie. Ciò è esattamente quello che il marxismo, nella sua ideologia, non si aspettava, e non avrebbe mai potuto aspettarsi. La presunta ontologia del “lavoro” collassa proprio all'interno dello sviluppo capitalistico. Il “lavoro” perde il suo potere di generalizzazione sociale, persino nella sua forma reificata del denaro. Di conseguenza, si degrada anche la coscienza fondata su di esso, in particolare la coscienza marxista. Il “lavoro” perde la sua dignità; oramai non può più essere ideologicamente canonizzato in quanto creatore di ciò che è essenziale per la vita. Al contrario, è proprio nella sua crisi che si rivela essere una macchina sociale che funziona alla cieca, incapace di dare un senso a qualcosa di diverso dal suo tautologico fine in sé stesso, che trasforma il “lavoro” in altro “lavoro”, e insieme ad esso il denaro in altro denaro. Così facendo, finisce per produrre la distruzione del mondo in sé e per sé. Simultaneamente, emerge la crisi di una differenziazione come sfera astratta e separata. L'universo maschile della modernità sta collassando. Quei settori dissociati che erano stati delegati alle donne cominciano a dissolversi, dal momento che le nuove forze produttive consentono alle donne di prendere sempre più le distanze dai loro ruoli e confluire così nella sfera ufficiale del sistema “lavoro”, proprio nel momento in cui esso è arrivato alla sua fine. In questo modo non solo si intensifica la concorrenza sui mercati del lavoro che stanno crollando, ma si abbandonano e decadono anche quelle aree di attività precedentemente dissociate che non possono essere integrate nel processo di creazione di denaro proveniente dal “lavoro” ( compresa la cura dei bambini, la cura degli anziani, l'affetto, l'“amore”, ecc.) All'origine di questa “crisi delle relazioni” sociali globali, non c'è l'emancipazione delle donne in sé, quanto piuttosto la struttura stessa del sistema del “lavoro” maschile, il quale presuppone la dissociazione socio-sessuale come sua base funzionale segreta, ma che ora però non è più in grado di mantenere. La speranza di poter organizzare a livello pubblico, come “lavoro”, o addirittura commercializzare gli ambiti dissociati si rivela un'illusione. È qui che appare in tutta la sua evidenza il carattere subordinato del settore terziario o dei servizi: se nel socialismo di Stato sono crollate le sovvenzioni monetarie per le strutture pubbliche di assistenza all'infanzia, anche nelle società occidentali del “lavoro” le istituzioni corrispondenti (o le loro mere promesse) stanno fallendo per mancanza di fondi. Tuttavia, al di là del problema dell'inadeguatezza psicologica e dell'alienazione, queste attività possono essere commercializzate solo per una piccola minoranza che può permettersele. Tutto ciò dimostra come non sia assolutamente possibile un'emancipazione basata sul “lavoro”. A tal proposito, la duplice crisi dell'economia del “lavoro” e della relazione di genere sottolinea come il sistema di riferimento comune sia ormai finito. Il problema è già stato, in una certa qual misura, formulato, sebbene ancora da voci isolate, anche nella teoria femminista: «L'espandersi del concetto di lavoro ha permesso di rendere cosciente e concreto, a parole, il peso delle donne. Tuttavia, l'espansione del concetto di lavoro ha incontrato i suoi limiti, che sono stati espressi mediante dei mostri verbali come “lavoro relazionale” o “lavoro emozionale”. Queste parole fittizie si servono con intento critico dell'analogia con il concetto di lavoro, rischiando pertanto di ridurre le condizioni umane a quelle del lavoro [...]. Ma è stato proprio il dibattito serrato sul contenuto del lavoro domestico a rendere evidenti i limiti delle analogie con il concetto di lavoro [...]. Le proposte riflettono una discussione troppo ristretta sull'emancipazione, che si concentrava in maniera troppo unilaterale sul lavoro e sottoponeva subdolamente le donne all'etica ascetica del lavoro protestante» (Eckart 1988, 206ss.). Partendo da questa problematizzazione, basta un passo per arrivare al rifiuto totale di un concetto positivo e perenne del “lavoro”; che il femminismo aveva ereditato anche dai marxisti: «In questo senso, il movimento delle donne non ha nemmeno bisogno di ridefinire l'attività femminile come "lavoro" per dimostrarne il valore (morale ed economico); perché il "lavoro" inteso in tal senso è, per così dire, la "radice di tutti i mali"»(Scholz 1992, 20). Ciò non significa che le aree di attività attribuite al “femminile” debbano essere affermate come tali o costituiscano addirittura una sorta di manifestazione di trascendenza, dal momento che esse non rappresentano altro che l'inverso del “lavoro” astratto. Il fatto per cui il concetto di “lavoro” si sta indebolendo e disintegrando è emerso chiaramente anche nel dibattito ecologico e in quello sulla riduzione dell'orario di lavoro, oltre che in alcuni settori (seppur minoritari) del femminismo. Il problema, tuttavia, è che in genere non si vede un collegamento sistematico con la crisi del capitale e quindi con quella della mediazione del denaro. Il marxismo è, ovviamente, il meno adatto a stabilire questo nesso. La sua sostanza ideologica si esaurisce nell'idea che si trova ancora contenuta nel punto 8 delle misure dirette proposte nel Manifesto comunista: «Lavoro obbligatorio uguale per tutti, creazione di eserciti industriali» (Marx; Engels 1990, 481). Nella misura in cui i marxisti non hanno disertato in massa l'economia di mercato occidentale, oggi riproducono questo feticismo storico del lavoro in maniera ancora più militante. Quello che qui viene scoperto, non è “l'altro” Marx, per il quale il “lavoro” avrebbe potuto essere decifrato come una “pedagogia della storia”, storicamente temporanea, con l'obiettivo di liberare la ricchezza sociale, per poi essere abbandonato; ma si tratta solo della parzialità che, sotto questa forma, rimane pietrificata nella sua inconsapevolezza. Al giorno d'oggi, non c'è nessuno che si aggrappi ferocemente a una fantomatica immaginaria capacità di accumulazione del capitale e ancor più eterna, di quanto non facciano i residuati del marxismo demoralizzato. Ciò non è in alcun modo un riflesso delle precedenti previsioni di crollo che non si sono concretizzate, e che comunque (nella misura in cui esistevano) venivano sempre formulate in termini di ontologia del lavoro. Al contrario, questa aspettativa quasi avida di un nuovo “modello di accumulazione” rivela qual è l'identità interna delle opposizioni del tempo. Lo stesso vale anche per i corpi fossilizzati del vecchio movimento operaio. Lo slogan della Confederazione dei sindacati tedeschi per il 1° maggio 1994 consisteva in una sola parola, anzi, in realtà un grido: “Lavoro!”. E lo slogan della SPD nell'anno delle super-elezioni del 1994 ha triplicato questo grido: “Lavoro! Lavoro! Lavoro!”. Ecco perché nel marzo 1994 i sette maggiori Paesi industrializzati dell'Occidente hanno tenuto un inconcludente “vertice sull'occupazione”; significativamente nell'ex metropoli automobilistica di Detroit.
La fine della moderna società del lavoro, che corrisponde anche alla logica fine della valorizzazione del capitale, trova ovviamente un momento di stallo in tutti gli schieramenti ideologici della modernità. Mentre le posizioni della sinistra alternativa rimangono irrimediabilmente impigliate nelle categorie del feticismo del lavoro, e continuano a voler rappresentare “l'utopia” nella forma monetaria reificata del “lavoro”, le estese paludi terminali del movimento operaio si esauriscono in un programma di emergenza del tutto irrealistico per quanto riguarda l'ideologia del “lavoro” non adulterato.D'altra parte, le posizioni dominanti del mercato neoliberista e radicale nel mondo accademico e i vecchi partiti borghesi condividono l'ideologia di base dell'ontologia del lavoro, ma vogliono rappresentare il "lavoro" (secondo la logica reale del sistema, che è la sua forza) solo al livello degli standard microelettronici di produttività e di redditività. Vogliono cioè isolare una massa crescente di persone dalla loro riproduzione della vita, facendolo secondo la "legge naturale" dell'economia di mercato, scrollando le spalle con rammarico e relegandoli così nel ghetto della miseria.È da questa paralisi che proviene il risorgere spettrale di una terza forma di feticismo borghese del lavoro, vale a dire, gli zombie della neo-destra, neo-patriottici e neo-nazionalisti. Questo strano ritorno viene nutrito da un'assurda promessa che non può essere mantenuta nelle attuali condizioni del mercato mondiale, ovvero la falsa speranza di poter ricostituire delle forme sistemiche di “lavoro” su base nazionale se non addirittura etno-tribale. La musica che accompagna questa promessa è rappresentata dall'impotente invocazione delle antiche “virtù” conservatrici, da tempo logorate dal processo corrosivo del mercato stesso; e questo come se la crisi globalmente oggettivata dell'economia del “lavoro” (ciecamente assunta) potesse essere contrastata e superata grazie a campagne ideologiche etiche e nazionali. Ciò significherebbe voler cancellare la grande conflagrazione di quel supermercato (che è diventato il mondo) grazie ai ricordi nostalgici legati alle botteghe d'angolo, agli inni al Kaiser Guglielmo (o peggio) e alle pie preghiere. Proprio allo stesso modo in cui il programma neoliberista si riduce a essere solo una perversa amministrazione democratica della miseria, vediamo che il programma neo-nazionalista - in quanto mera forma decadente di un'altra ideologia storica del “lavoro”, altrettanto sostanzialmente “finita” quanto quella del marxismo - non è altro che una guerra tra bande pseudo-etniche e scoppi irrazionali di delirio pseudo-politico. In questo modo, possiamo così vedere che la fine del marxismo corrisponde anche alla fine del capitalismo, e la fine della sinistra è anche la fine della destra e dei liberali. A decadere inesorabilmente, è il sistema di riferimento comune del “lavoro”, la struttura unilaterale “maschile”, e quindi la totale mediazione sociale del denaro. Ora la questione non riguarda più quale delle passate, e tutte obsolete, ideologie del “lavoro” vincerà; ma se il terreno comune potrà essere superato. Quindi, la questione è, in primo luogo, se le persone possono di nuovo intraprendere attività di riproduzione autonome al di là del mercato e dello Stato (cioè al di là del “lavoro” e del denaro) e, in secondo luogo, se i potenziali della socializzazione ( capitalistica) e le potenzialità scientifiche prodotte dal “lavoro” potranno essere trasformate al di là del sistema del “lavoro”. Il problema non è la presunta minaccia proveniente dalla fantasmatica figura negativa comune al feticismo marxista, liberale e nazionalista di destra del lavoro, né il famigerato "parco divertimenti collettivo" fantasticato dai conservatori di oggi, ma il disaccoppiamento dell'attività della vita e della riproduzione umana dal feticcio fine a se stesso del "lavoro" e la reintegrazione di questa sfera astrattizzata e autonoma nell'intero processo della vita. L'abolizione del "lavoro", inteso in questo modo, sarebbe anch'essa identica all'abolizione dei moderni ruoli di genere. E' solo quando le persone, organizzate in nuove forme di comunicazione comunitaria, avranno ripreso il controllo della propria vita in relazione ai poteri oggettivati, anonimi e ormai insostenibili di alienazione dello Stato e del mercato, che saranno in grado di interrogarsi, senza pregiudizi, su ciò che intendono fare, materialmente e sensibilmente, con le forze produttive lasciate dal feticismo storico del lavoro. senza distruggere il mondo o distruggere se stessi.
- Robert Kurz - Original “Fetisch Arbeit – Der Marxismus und die Logik der Modernisierung” in revista exit! no 20, 2023, p. 24-40.
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