venerdì 9 agosto 2024

«Il Fascismo è incapace di definirsi» (A.B.)

 

Ho letto da qualche parte che Gramsci, a quanto pare, sembra che sia ricaduto nella sfera di interesse della destra (più o meno estrema) a partire dal fatto che - colpevolmente, è sempre responsabilità di qualcun altro, hai visto mai?!?? - la sinistra non si occupa ormai più da tempo di lui, avendolo abbandonato, così facendo, nelle grinfie del "nemico". Così, si evita di sottolineare, nel teorico dell'egemonia, tutti quegli aspetti che - dall'interventismo al fordismo - di certo alla sinistra sono apparsi sempre abbastanza indigesti. Ecco che pertanto la sua rinascita a destra, di questo rivoluzionario fallito dei tempi della III Internazionale, non suscita alcuna sorpresa. Anzi, è giocoforza invece riproporre, in una situazione come quella in cui oggi ci ritroviamo, proprio quello che è sempre stato l'unico a contrapporvisi politicamente, e ironicamente.

Articoli di Amadeo Bordiga su fascismo e democrazia, pubblicati nel 1921 e nel 1922
- di Agustín Guillamón -

Bordiga affrontò il tema del fascismo in numerosi articoli, tra il 1921 e il 1926. Il fascismo fu il problema numero uno che il PCd'I dovette affrontare nella sua azione in questi anni. Innanzitutto, per comprendere le tesi di Bordiga sul fascismo, è necessario differenziare il suo pensiero dall'ideologia antifascista. Per l'antifascismo, il fascismo è essenzialmente caratterizzato dalla soppressione violenta della legalità e delle libertà politiche democratiche. Per Bordiga, all'interno della più pura ortodossia marxista, l'uso aperto della violenza non caratterizza nulla. La violenza stessa manca di un significato preciso. L'importante è analizzare e specificare quale classe usa la violenza contro quale altra classe. L'ABC più elementare del marxismo insegna che, in ogni società divisa in classi, la classe dominante esercita la violenza per soggiogare la classe dominata. L'ideologia che caratterizza il fascismo, vedendolo come una regressione alle forme precapitalistiche è estranea alla teoria marxista. Le forme politiche non variano con la moda, ma sono determinate dall'insieme dei rapporti sociali prevalenti, e la loro evoluzione non dipende dal caso, dal capriccio o dalla volontà, ma dallo sviluppo economico e sociale di quella società; vale a dire, dai cambiamenti che avvengono in quella struttura, di rapporti sociali, nel suo contatto con gli eventi storici. Nel pensiero di Bordiga, l'accettazione da parte del proletariato dell'ideologia antifascista significava difendere la democrazia, rinunciare ai propri interessi di classe o, in altre parole, rinunciare ad affermarsi come classe rivoluzionaria. Pertanto, l'antitesi democrazia/fascismo, per Bordiga era falsa. Democrazia e fascismo non si contrappongono l'una all'altro, ma si completano a vicenda: e questa sarà una tesi fondamentale e distintiva non solo per Bordiga, ma anche per la Frazione di Sinistra degli anni '30. Sia il fascismo che la democrazia sono, negli articoli di Bordiga, metodi di dominio della grande borghesia, volti a mantenere i rapporti sociali di produzione capitalistici. Bordiga, abbandonando le definizioni e le idee feticiste del capitale, cioè del capitale come cosa - sia essa denaro, fabbriche, ecc. - riprende la definizione marxista di capitale, definito come rapporto sociale di produzione, e precisamente quello che si stabilisce tra una classe sociale, caratterizzata dalla sua libertà (libertà di vendere la sua forza-lavoro), e quell'altra classe sociale caratterizzata dall'essere compratrice di forza-lavoro salariata. Partendo dalla definizione marxista di capitale, Bordiga affermava che la classe dominante, cioè quella caratterizzata dall'acquisto di forza-lavoro, utilizzava alternativamente (o all'unisono) il metodo democratico e/o il metodo fascista di dominio, per mantenere i rapporti sociali di produzione capitalistici, cioè la compravendita della forza-lavoro in un mercato governato dalla legge della domanda e dell'offerta. Che la classe capitalista dominante ricorresse al metodo democratico o al metodo fascista non dipendeva da un'opzione ideologica; non si trattava di un atto volontario, ma dipendeva piuttosto dal grado di maturità dei conflitti sociali. Il metodo più abile - quello che diede i migliori risultati in Italia, dal 1920 al 1925 - fu l'uso congiunto della violenza fascista, incoraggiata e sostenuta dalle istituzioni democratiche, insieme all'arma subdola e paralizzante del riformismo sociale e della difesa delle libertà democratiche e della legalità borghese, in quanto obiettivo proposto al movimento operaio. Per Bordiga, il fascismo non era una regressione verso forme politiche precapitalistiche, né una forma politica incompatibile con i postulati democratici, ma una controrivoluzione preventiva per scongiurare la minaccia rivoluzionaria del proletariato.

Bordiga e i suoi sostenitori nella direzione del PCd'I hanno tratto le loro tesi dall'esperienza storica vissuta giorno per giorno in Italia. Durante il biennio rosso, un'opera di democrazia parlamentare fu quella della repressione dei movimenti popolari sorti a causa della crisi economica del dopoguerra: inflazione, ristrutturazioni industriali e disoccupazione, che colpirono duramente le condizioni di vita della classe operaia. Le milizie fasciste intervennero in maniera decisiva solo dopo la liquidazione del movimento di occupazione delle fabbriche del settembre 1920, alla fine del biennio rosso. L'arma più efficace, usata da Giolitti nella smobilitazione del movimento rivoluzionario, fu la CGL e il PSI, cioè il riformismo socialista. Lo Stato democratico, in collaborazione con la socialdemocrazia, aveva creato le condizioni per l'emergere di un terzo fattore controrivoluzionario: gli squadroni fascisti. La loro missione non era quella di schiacciare un movimento rivoluzionario, già sconfitto dalla repressione dello Stato democratico e dal collaborazionismo del socialismo riformista, ma impedirne la rinascita. Una caratteristica essenziale del fascismo, per Bordiga, era il suo radicamento industriale, e perciò egli negava il carattere di reazione feudale del movimento fascista. Bordiga sosteneva che il fascismo era nato nelle grandi città industriali del nord Italia, come Milano, dove Mussolini fondò i fasci nel 1919. Di qui il finanziamento precoce del fascismo da parte dei grandi industriali, così come l'emergere del Fascio come grande movimento unitario della classe dominante. Il suo insediamento nelle grandi regioni rurali dell'Emilia-Romagna, ancor prima della dominazione delle grandi città industriali, avvenne proprio in aree rurali caratterizzate da un'agricoltura avanzata e pienamente capitalista, come quella prevalente nella Pianura Padana. La grande borghesia terriera dell'Emilia-Romagna diede il suo pieno appoggio al fascismo, che non aveva quasi più eco nell'arretrato sud dell'Italia. Ci vollero ancora 2 anni di vera guerra civile (1921 e 1922), la preziosa collaborazione del socialismo riformista e il tradimento del sindacalismo della CGL, perché il fascismo dominasse i grandi centri industriali dell'Italia settentrionale. Ma una volta raggiunto questo obiettivo, dopo il fallimento dello sciopero generale dell'agosto 1922, la Marcia su Roma divenne una mera formalità. Una procedura rispetto a cui Bordiga non mancò di sottolineare la presa del potere, da parte dei fascisti, con il voto di tutte le formazioni politiche liberali e democratiche allora esistenti in Parlamento. Dopo questa introduzione ai tratti essenziali del pensiero di Bordiga sul tema del fascismo, possiamo ora seguire in ordine cronologico gli articoli dedicati all'argomento, dal 1921 alla Relazione presentata da Amadeo al V Congresso dell'Internazionale Comunista, nel luglio 1924. In tutti questi articoli si sviluppa un pensiero originale sul fascismo e sulla democrazia, già delineatosi nelle pagine precedenti, e che è saldamente ancorato alla tradizione e al pensiero marxista. Il nostro interesse per questi articoli, oltre alla loro importanza intrinseca, risiede nel fatto che essi sono il fondamento delle idee che la Frazione di Sinistra del PCd'I sosteneva e difendeva riguardo al fascismo e l'antifascismo negli anni '30, e che furono sviluppate a Bilan, applicandole alla guerra civile spagnola.

Articoli sulla socialdemocrazia
Nell'articolo pubblicato su Il Comunista il 6 febbraio 1921, intitolato "La funzione della socialdemocrazia in Italia", Bordiga discuteva le caratteristiche della socialdemocrazia e la sua funzione storica. Secondo lui: «non si può e non si deve dire che la socialdemocrazia ha una funzione storica nei paesi dell'Europa occidentale, dove il regime democratico interamente borghese esiste da così tanto tempo che ha esaurito la sua funzione storica ed è in declino. Per noi non c'è altro trasferimento rivoluzionario di potere che quello dalla borghesia dominante al proletariato; così come non c'è altra forma di potere proletario che non sia la dittatura dei consigli» [*1]. Ma, sebbene per Bordiga la democrazia fosse un regime in declino, ciò non impedì alla socialdemocrazia di presentarsi come una valida alternativa storica: «I partiti socialdemocratici sostengono che il periodo democratico non è ancora chiuso e che il proletariato può ancora servirsi delle forme politiche democratiche per i suoi obiettivi di classe. Ma, poiché è evidente che il proletariato non trae alcun vantaggio da queste forme in vigore, [...] i socialdemocratici sono costretti a usare la loro immaginazione e a proporre forme più democratiche, più perfette secondo loro, sostenendo che se il sistema attuale si oppone al proletariato, è perché non è veramente e intimamente democratico». Cioè, i socialdemocratici proposero al proletariato un'espansione progressiva delle libertà democratiche. Hanno difeso la democrazia e giustificato la repressione del movimento operaio sulla base dell'inautenticità di quella democrazia. Bisognava quindi lottare non contro la forma democratica del dominio borghese, ma rendere questa democrazia autentica e reale, cioè sempre più democratica. Naturalmente, Bordiga considerava il precedente ragionamento dei riformisti come una mascherata, difendendo gli interessi del capitale: «E' solo una maschera che nasconde l'ultimo programma e l'unico metodo di governo possibile che si adatta alla borghesia nelle condizioni critiche del presente. Governi di questo tipo non sono affatto un ponte verso la conquista del potere da parte delle masse proletarie, ma al contrario l'ultima e più efficace diga del dominio borghese contro la minaccia rivoluzionaria». Sebbene la socialdemocrazia non avesse più una funzione storica, in quanto poteva essere considerata obsoleta, secondo Bordiga, essa aveva una funzione specifica: «La democrazia è storicamente morta. La socialdemocrazia ha quindi una funzione specifica, nel senso che ci sarà probabilmente un periodo, nei paesi occidentali, in cui entrerà al governo, da sola o con altri partiti borghesi. […] Una tale parentesi non sarà una condizione positiva [...], utile all'assalto proletario: sarà, al contrario, un tentativo disperato della borghesia di indebolire e deviare l'attacco del proletariato, di schiacciarlo senza sosta sotto i colpi della reazione, nel caso in cui gli rimanga abbastanza energia per osare ribellarsi contro il governo socialdemocratico legittimo, umanitario e civile». Le conclusioni tattiche che Bordiga trasse furono le seguenti: Non c'è transizione tra la dittatura della borghesia e quella del proletariato. Si può prospettare una forma finale di governo borghese, in cui i socialisti sono incaricati della formazione di un governo che eserciterà un cambiamento formale e apparente delle istituzioni. Questo cambiamento formale e apparente non è una necessità storica universale, perché la democrazia non ha più alcuna funzione storica da svolgere. I comunisti devono smascherare la funzione specifica della socialdemocrazia e lottare contro di essa, senza aspettare che questa funzione specifica si traduca in pratica. In caso di trionfo di questa manovra controrivoluzionaria, il proletariato deve essere preparato all'assalto finale contro un governo con pretese socialiste, che è salito al potere come ultima risorsa della borghesia. La socialdemocrazia non può svolgere che una funzione controrivoluzionaria. Ma questa funzione non è inevitabile. La tattica che i comunisti devono seguire è quella di opporsi in ogni momento, impedendo alla loro ideologia controrivoluzionaria di radicarsi nel proletariato. Bordiga concludeva il suo articolo con questa affermazione: «Anche se sappiamo con quasi assoluta certezza che la battaglia finale sarà combattuta contro un governo di ex socialisti, il nostro compito non sarà in ogni caso quello di facilitare la loro ascesa al potere, [...] I comunisti devono sbarrare loro la strada il più presto possibile, prima di affondare il pugnale del tradimento nella schiena del proletariato».

Il 12 aprile 1921 Bordiga pubblicò su Il Comunista un altro articolo dedicato ai socialdemocratici, questa volta sul tema della violenza, intitolato "I socialdemocratici e la violenza". L'articolo iniziava con un'incisiva squalifica della passività del Partito Socialista Italiano: «Non si può assolutamente accettare la tesi che il Partito Socialista Italiano rimanga oggi passivo di fronte alla violenza fascista contro il proletariato perché rifiuta l'uso della violenza, per principio nella sua ala destra e per ragioni di opportunismo nella sua ala sinistra». [*2] La passività del SEP di fronte alla violenza fascista era un fatto indiscutibile. La parola d'ordine lanciata dal PSI di fronte agli assalti delle squadriglie era quella dell'immobilità. Il 3 agosto 1921 firmò un patto di pacificazione con i fascisti e la CGL. In questo articolo, Bordiga si proponeva di attaccare con ragionamenti precisi e incisivi la passività dei socialisti di fronte al fascismo. Ha iniziato negando il rifiuto della violenza come questione di principio ideologico, esercitato dall'ala destra del PSI: «Cominceremo col mostrare che i cosiddetti francescani che sostengono la non resistenza al fascismo non obbediscono a un principio pacifista generale, esaminando i casi in cui hanno sostenuto in passato il metodo della lotta armata e anche i casi in cui lo sosterranno in futuro». Bordiga ha rivelato come i socialisti giustificassero l'uso della violenza nella conquista delle libertà democratiche, così come dell'indipendenza nazionale. Allo stesso modo, denunciò casi specifici in cui i socialdemocratici sostenevano la violenza delle masse: prima contro la guerra e poi a suo favore, di fronte all'invasione del suolo italiano, dopo la sconfitta dell'esercito italiano a Caporetto. I socialisti avevano chiamato, allora, a difendere l'integrità della patria. Bordiga ha affermato con enfasi che l'uso della violenza da parte dei socialdemocratici rispondeva a criteri molto specifici e precisi: «Quando le conquiste della rivoluzione borghese (indipendenza nazionale o garanzie democratiche) sono minacciate, è necessario difenderle con gli stessi mezzi che le hanno rese possibili. Per la mentalità socialdemocratica, la violenza non è condannabile in quanto tale, ma solo nella misura in cui il proletariato vi ricorre per emanciparsi, invece di utilizzare i mezzi offerti dalla democrazia, che il riformismo pretende essere più efficaci. Ma se questi mezzi vengono messi in discussione, solo la violenza può preservarli dalla reazione. […] In una parola, i socialdemocratici sono favorevoli alla violenza, a condizione che serva a difendere una conquista borghese o un'istituzione borghese, perché ritengono che "le istituzioni democratiche siano il terreno indispensabile per l'emancipazione del proletariato". Quando la violenza serve esclusivamente al proletariato e alla sua azione di classe contro il regime borghese, [...] e, soprattutto, se la violenza è diretta contro la democrazia borghese e minaccia di abolirla, come ha fatto la rivoluzione russa e la Terza Internazionale sostiene, allora diventa agli occhi dei socialdemocratici una violenza criminale».

L'analisi di questi criteri socialdemocratici sulla violenza ha portato Bordiga a una conclusione molto importante: «Perché, allora, i nostri riformisti classici sono contrari alla reazione violenta contro il fascismo? Perché sanno che il fascismo non è davvero un movimento antidemocratico che minaccia l'abolizione del regime elettivo. Essi sanno benissimo che la violenza fascista non minaccia la democrazia borghese, né minaccia la socialdemocrazia operaia, ma viene a difendere il regime democratico-borghese contro gli assalti rivoluzionari del proletariato. Gli operai comunisti [...] proclamano la loro intenzione di conquistare il potere con la violenza; La borghesia si sta organizzando per resistergli con l'aiuto delle milizie fasciste, non per sopprimere la democrazia, ma per difenderla contro noi comunisti che vogliamo abolirla». Questa conclusione, sottolineata dallo stesso Bordiga, fu di fondamentale importanza nel pensiero di tutta la Sinistra Comunista. Non è compito dello storico giudicarne la validità, ma va notato che nel 1921 il denominatore comune di tutta l'Internazionale comunista era la considerazione della socialdemocrazia come ala sinistra della borghesia inserita nel cuore del movimento operaio. La Seconda Internazionale si era sciolta nella Grande Guerra perché aveva tradito il movimento operaio, sostenendo l'intervento degli operai nella guerra imperialista. Il tradimento della socialdemocrazia fu la ragion d'essere dell'Internazionale comunista, che riprese e continuò la via rivoluzionaria abbandonata dai socialdemocratici. Così il pensiero di Bordiga, nella sua denuncia del carattere riformista e controrivoluzionario dei socialisti, non era un fenomeno isolato, ma al contrario comune a tutta l'Internazionale comunista. Bisogna tener presente che la denuncia della socialdemocrazia come ala sinistra della borghesia nel movimento operaio, con la tradizionale differenziazione tra una base operaia da conquistare e un vertice dirigente da combattere, non ha assimilato la socialdemocrazia al fascismo, come sarebbe accaduto più tardi con la formula del socialfascismo, negli anni '30. attraverso il quale il socialismo e il fascismo sono stati identificati. Tuttavia, mentre negli anni successivi Bordiga continuò a sostenere nelle sue analisi del fascismo la complementarietà tra fascismo e democrazia come strumenti alternativi del potere della borghesia, l'Internazionale Comunista non cessò di oscillare, attraverso le sue solite e brusche svolte, tra la condanna della socialdemocrazia e la proposta di un fronte unico e di un governo operaio. Per questo, dove c'è coerenza e originalità di analisi teorica nel pensiero di Bordiga è nella sua critica all'ideologia antifascista, come vedremo più avanti. L'articolo si concludeva confrontando l'accettazione della violenza popolare da parte dei socialisti, nella misura in cui difendeva le libertà politiche democratiche, con il rifiuto che questi stessi socialisti facevano di qualsiasi azione violenta o illegale da parte delle masse quando cercavano di difendersi dagli attacchi fascisti. Nell'articolo di Bordiga intitolato "Le strade che portano al noskismo", pubblicato su Il Comunista il 14 luglio 1921, troviamo una delle chiavi fondamentali nell'interpretazione che l'autore dà della socialdemocrazia come strumento utilizzato dalla borghesia nella repressione del movimento operaio rivoluzionario. Bordiga affermò che la tattica del PSI si situava su un terreno pacifista: «Il Partito socialista, nei suoi proclami ufficiali, si pone su un terreno chiaramente "pacifista" per quanto riguarda i metodi di lotta che il proletariato deve impiegare, adottando il punto di vista dei sostenitori di Turati: pacificazione degli odi, disarmo delle menti e dei corpi, lotta con le armi civili (cioè, non cruenta) di propaganda e di discussione, per condannare la violenza proletaria armata, non solo offensiva, ma anche difensiva. Ciò significa che, sebbene il Partito socialista non sia pienamente d'accordo con il punto di vista di Turati, che ammette la "collaborazione del governo" con la borghesia, approva almeno i suoi metodi legalistici e socialdemocratici» [*3]. Ma questo pacifismo distingueva tra una violenza riprovevole e una accettabile. La socialdemocrazia ha fatto questa distinzione, secondo Bordiga, nel modo seguente:
«La sua distinzione si basa sul modo in cui concepisce la "funzione del potere dello Stato costituito". È estremamente semplice. Quando è il potere dello Stato che usa la violenza, chi la vuole, chi la ordina, allora questa violenza è legittima. Di conseguenza, poiché è lo Stato che l'ha voluta, organizzata e ordinata, la difesa armata alla Groppa era non solo legittima, ma sacra, anche se estremamente sanguinosa. Ma la violenza difensiva contro il fascismo è illegittima perché non è quella dello Stato, ma quella delle forze illegali, che prendono l'iniziativa. Se il fascismo non deve essere difeso, non è perché sia il mezzo migliore per disarmarlo [...], ma perché è responsabilità dello Stato reprimere la violenza fascista, che è anche considerata illegale e non statale, secondo la mentalità social-pacifista» [*4].

Questo orientamento socialista si basava sull'accettazione del principio borghese, che consisteva in: «nell'ammettere che, dall'esistenza dello Stato democratico e parlamentare, si è conclusa l'epoca della lotta violenta tra gli individui e i diversi gruppi e classi della società, e che la funzione dello Stato è precisamente quella di equiparare ogni iniziativa violenta alle azioni antisociali, anche quando essa è sorta dalla distruzione violenta dello Stato costituito dell'Ancien Régime». Per Bordiga, questo pacifismo non fece altro che disarmare il movimento operaio, e portò il SEP a stringere un patto diretto con i fascisti. Ricordiamo che il patto di pacificazione tra socialisti, CGL e fascisti è stato firmato il 3 agosto, pochi giorni dopo la pubblicazione di questo articolo. Ma questo percorso ha portato, secondo Bordiga, a nuove concessioni e a nuovi livelli di collaborazione, che hanno portato al collaborazionismo di governo, come abbiamo già visto nei paragrafi precedenti: «Riservare allo Stato la "somministrazione della violenza" non implica solo il riconoscimento di un principio tipicamente borghese, ma anche il riconoscimento di un falso principio, che ha conseguenze più gravi. Il fatto è che lo Stato amministra la violenza a vantaggio della borghesia e che il fascismo è solo un aspetto di questa stessa violenza, una controffensiva volta a prevenire un futuro attacco rivoluzionario del proletariato. […] La conclusione necessaria a tutto questo è che il fascismo non si lascerà disarmare fino a quando non sarà assolutamente certo che la classe operaia nel suo insieme non ha la minima pretesa di attaccare lo Stato e le istituzioni borghesi. Il fascismo farà quindi alla socialdemocrazia la seguente offerta: fare in modo che le masse proletarie non attacchino il potere legittimo, non prendano il timone dello Stato, non partecipino al governo borghese». Qui ci troviamo di fronte ad una visione chiara ed enfatica della socialdemocrazia come strumento della borghesia che, dopo aver usato il fascismo come controffensiva preventiva alla rivoluzione, associava i socialdemocratici al governo e alla direzione dello Stato capitalista, secondo il modello tedesco. E' quella che Amendola chiama l'ipotesi socialdemocratica, che come lui stesso afferma prevale tra i comunisti in questo momento, e non è quindi responsabilità personale di Bordiga, ma è una tesi condivisa dalla stragrande maggioranza del Partito comunista, un comune denominatore. Nel pensiero di Bordiga, democrazia e fascismo sono solo due metodi di governo della borghesia. Due metodi che si completano a vicenda. L'ascesa al potere della socialdemocrazia, attraverso il patto con il fascismo, che è già dato per scontato, non è che il primo passo che conduce al noskismo, cioè alla repressione del proletariato rivoluzionario (assassinio nel gennaio 1919 di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht) da parte dei socialdemocratici appollaiati sul governo (Noske): «Grazie ai suoi patti con il fascismo o alla collaborazione ministeriale, [la socialdemocrazia] gestirebbe lo Stato e quindi la violenza legale. E che cosa farà quando i comunisti continueranno a proclamare e a usare la violenza nei loro attacchi rivoluzionari contro il potere statale?  Semplice. Condannerà questa violenza rivoluzionaria per principio. Ma [...] si asterrà dal parlare di non-resistenza a questa violenza! Coerentemente con se stessa, proclamerà che lo Stato ha il diritto e il dovere di schiacciarla [...]. In pratica, darà alla Guardia Reale l'ordine di mitragliare il proletariato [...]. Questa è la strada che seguiranno i partiti che negano l'uso illegale e antistatale della violenza come mezzo fondamentale di lotta per il proletariato. Questo è esattamente il percorso seguito da Noske».

Articoli sul fascismo
Tra il novembre e il dicembre del 1921 Bordiga pubblicò una serie di tre articoli incentrati esclusivamente sul tema del fascismo. Il primo di questi articoli, intitolato "Fascismo", fu pubblicato su Il Comunista il 17 novembre 1921, all'indomani del III Congresso Nazionale Fascista, tenutosi a Roma tra il 7 e il 10 novembre 1921. Questo congresso segnò la trasformazione del movimento fascista in partito. A causa dei soliti disordini che sempre accompagnavano questo tipo di assemblee, i 30.000 fascisti radunati a Roma combatterono con la non meno consueta violenza, provocando 5 morti e 120 feriti in 3 giorni [*5]. Il 9 novembre un ferroviere è stato assassinato. Il proletariato romano rispose proclamando uno sciopero generale, che né il governo né l'ultimatum fascista riuscirono a spezzare. Lo sciopero non cessò fino al 14, dopo la fine del Congresso fascista. Il programma adottato al Congresso, e citato nell'articolo, apparve su Il Popolo d'Italia solo il 27 dicembre 1921 [*6].  Sulla base di questo ritardo, Bordiga notò che il fascismo aveva tentato invano di darsi una base ideologica e programmatica. E questo, nel pensiero di Bordiga, equivaleva a negargli la capacità di trasformarsi in un vero partito. In realtà, il contenuto ideologico del Congresso si era ridotto al discorso di Mussolini e, d'altra parte, in questo discorso non era stato possibile esprimere, secondo Bordiga, alcuna ideologia propria e originaria diversa da quella dei partiti borghesi tradizionali, se non la loro violenta avversione al comunismo e al movimento operaio. Per questo motivo, il fascismo è descritto nell'articolo come una forza politica senza una propria ideologia e, proprio per questo, inferiore al marxismo. Per Bordiga, il Congresso fascista dimostrò di avere una solida organizzazione, sia politica che elettorale oltre che militare, ma anche una totale assenza di ideologia e di programma. Per dirla con le parole di Bordiga: «il fascismo è incapace di definirsi». Questa incapacità viene interpretata come una delle peggiori conseguenze del passaggio da una borghesia rivoluzionaria, con una funzione storica progressista, a una borghesia conservatrice, con una funzione sociale e storica di carattere controrivoluzionario: «Nella prima fase della sua storia, la borghesia non era ancora consapevole di questa seconda funzione della democrazia, del fatto che era condannata a trasformarsi da fattore rivoluzionario in fattore conservatore, poiché il nemico principale cessava di essere l'Ancien Régime, ma il proletariato» [*7]. Questa funzione conservatrice ha portato la borghesia a smantellare la propria ideologia liberale, cioè a rivelare il carattere controrivoluzionario di uno Stato che rimaneva liberale, ma che doveva difendere gli interessi del capitale con tutti i mezzi, compresi quelli che implicavano l'abolizione delle libertà: «Ma uno Stato liberale che per difendersi ha bisogno di abolire le garanzie della libertà, dimostra storicamente che la sua dottrina liberale, la sua interpretazione della missione storica della borghesia e della natura del suo apparato di governo, è falsa. I suoi veri obiettivi, d'altra parte, sono ora chiaramente mostrati: difendere gli interessi del capitalismo con tutti i mezzi a sua disposizione, cioè impiegando sia il giocoliere politico della democrazia che la repressione armata, quando le prime non sono sufficienti a fermare i movimenti che minacciano lo Stato stesso». C'era, dunque, una contraddizione tra la teoria liberale e la necessaria funzione repressiva dello Stato, da cui nasceva l'incapacità del fascismo di riconoscersi come difensore degli interessi storici di classe della borghesia: «un movimento borghese non può riconoscere risolutamente che, in quanto classe dominante, ha bisogno di difendersi con tutti i mezzi a sua disposizione, compresi quelli teoricamente vietati dalla Costituzione». Questa incapacità era anche una manovra tattica elementare. Non dovevano ripudiare la democrazia parlamentare fintanto che poteva essere usata: «Così come nessuno Stato dell'Ancien Régime era così ben organizzato come i moderni Stati democratici per gli orrori della guerra (e non solo in termini di mezzi tecnici), nessuno di loro ha raggiunto la suola delle scarpe quando si è trattato di repressione interna e di difesa della propria esistenza. È quindi logico che, nell'attuale periodo di repressione contro il movimento rivoluzionario del proletariato, la partecipazione alla vita politica dei cittadini borghesi (o della loro clientela) assuma nuovi aspetti. I partiti costituzionali, organizzati per ottenere una risposta maggioritaria nelle consultazioni elettorali popolari, favorevoli al regime capitalista, non bastano più. È necessario che la classe sociale su cui poggia lo Stato lo aiuti nelle sue funzioni, date le nuove esigenze. Il movimento politico conservatore e controrivoluzionario deve organizzarsi militarmente e, in previsione della guerra civile, svolgere una funzione militare».

  Lo Stato doveva conciliare la sua funzione repressiva con l'illusione democratica. Qui sta la radice della spiegazione del fascismo di Bordiga: «Questa è per noi la spiegazione della nascita del fascismo. Il fascismo integra il liberalismo borghese, invece di distruggerlo. Grazie all'organizzazione con cui protegge la macchina statale ufficiale, essa svolge la doppia funzione difensiva di cui la borghesia ha bisogno. Se si accentua la pressione rivoluzionaria del proletariato, la borghesia tenderà ad intensificare al massimo queste due funzioni difensive, che non sono incompatibili, ma parallele. Intraprenderà una politica democratica più audace, anche socialdemocratica, mentre nello stesso tempo getterà i gruppi d'assalto della controrivoluzione contro il proletariato, per terrorizzarlo. Questo aspetto della questione dimostra che l'antitesi tra fascismo e democrazia parlamentare è priva di significato, come l'attività elettorale del fascismo è sufficiente a dimostrare». Dopo queste affermazioni, Bordiga concludeva il suo articolo con una definizione del fascismo in contrapposizione al liberalismo: «Il fascismo non ha saputo definirsi durante il Congresso di Roma e non potrà mai farlo (anche se non rinuncia alla sua esistenza e alla sua funzione), perché il segreto della sua natura sta nella formula: l'organizzazione è tutto, l'ideologia è niente, che è la risposta dialettica alla formula liberale: L'ideologia è tutto, l'organizzazione non è niente».
Il secondo di questi tre articoli dedicati al fascismo è stato pubblicato su Il Comunista il 27 novembre, con il titolo "Il programma fascista", ed è la continuazione del precedente, intitolato "Fascismo". Tra Mussolini e Bordiga si era instaurato una sorta di "dialogo a distanza", secondo l'espressione felice di Livori [*8]. Mussolini aveva risposto con rabbia alle critiche mosse, tra gli altri, da Bordiga sulla mancanza di un programma, affermando che i partiti che si aspettavano che il fascismo avesse un programma mostravano la propria nullità teorica, dimostrando la loro totale incomprensione del fascismo. Perché, come sosteneva Mussolini [*9], l'assenza di un programma era precisamente la caratteristica più importante del fascismo. Mussolini scoprì, in questo modo, la valorizzazione dell'attivismo assoluto. Bordiga, di fronte alle affermazioni di Mussolini tendenti a rivalutare filosoficamente l'autentica vacuità e il relativismo ideologico del fascismo, sottolineò come caratteristica dei tempi decadenti lo scetticismo manifestato dai fascisti. Negò al fascismo ogni diritto di rivendicare il relativismo, poiché: «[Il fascismo] rappresenta gli ultimi sforzi dell'attuale classe dominante per dotarsi di linee di difesa sicure per proteggere il suo diritto alla vita contro gli attacchi rivoluzionari. […] Non appare come un partito che porta un nuovo programma, ma come un'organizzazione in lotta per un programma che esiste da molto tempo, quello del liberalismo borghese» [*10]. Per questo motivo, il fascismo è stato presentato nell'articolo come un'ideologia assoluta e dogmatica: «Il fascismo mette in relazione lo Stato e la sua funzione con una nuova categoria [...]: la Nazione. La lettera maiuscola che toglie la parola Stato, fascismo si aggiunge alla parola nazione. […] Spiegherebbero, tuttavia, la presunta differenza tra il suo principio supremo, la Nazione, e l'autentica organizzazione attuale dello Stato. In realtà, il termine "Nazione" equivale semplicemente all'espressione borghese e democratica della sovranità popolare, sovranità che il liberalismo pretende di manifestare nello Stato. Il fascismo, dunque, non ha fatto altro che ereditare le nozioni liberali, e il suo ricorso all'imperativo categorico della Nazione non è altro che un'ulteriore manifestazione della classica stupidità che consiste nel mascherare la coincidenza tra lo Stato e la classe capitalista dominante.»

  Nell'articolo, Bordiga criticava il termine nazione usato da Mussolini e dai fascisti, rivelando l'identificazione che essi facevano di nazione e classe borghese, per concludere il testo mostrando la simbiosi tra il movimento fascista e lo Stato democratico: «Lo Stato borghese, che parla a nome di tutti, è un'organizzazione minoritaria per l'azione di una minoranza: la borghesia. L'esistenza di una potente organizzazione di volontari fascisti, al di fuori dell'organizzazione statale, non significa che entrambi siano indipendenti, ma che le funzioni siano divise secondo gli interessi della borghesia. Poiché lo Stato ha bisogno di presentarsi come espressione democratica degli interessi di tutti, questa milizia di classe deve necessariamente formarsi al di fuori dello Stato [...]. L'organizzazione unitaria, che raggruppa e inquadra le ultime capacità di combattimento della borghesia, mostra che le forze del passato sono ancora capaci di unirsi, ma non lo fanno sulla base di un programma [...] [ma] obbediscono solo alla decisione istintiva di impedire la realizzazione del programma rivoluzionario».  Nel terzo articolo sul fascismo, pubblicato su Il Comunista il 2 dicembre 1921 con il titolo "Il governo", Bordiga affronta il tema iniziato nei due precedenti, riferendosi alla complementarietà tra fascismo e Stato democratico. Bordiga criticò le idee di coloro che affermavano che solo un governo forte sarebbe stato in grado di porre fine al fascismo: «Non è affatto vero che il fascismo esiste perché non c'è un governo capace di sopprimerlo. E' falsa la convinzione che [...] i rapporti tra l'azione dello Stato e il fascismo dipendano da come vanno le cose in Parlamento. Se si formasse un governo forte, [...] il fascismo diventerebbe letargico, perché non ha altro scopo che quello di far rispettare la legge borghese» [*11]. Ciò perché, secondo Bordiga, il fascismo è stato usato dallo Stato per la repressione del movimento operaio: «Per eliminare il fascismo non serve un governo più forte di quello attuale, basterebbe che l'apparato statale smettesse di sostenerlo. Ma l'apparato repressivo dello Stato preferisce usare il fascismo contro il proletariato. Preferisce sostenerlo indirettamente, piuttosto che usare le proprie forze». L'origine stessa del fascismo fu nella situazione rivoluzionaria: «Il fascismo è nato dalla situazione rivoluzionaria. Rivoluzionario perché le caserme borghesi non funzionano più». Perché l'unico vero nemico dell'ordine capitalista era il proletariato rivoluzionario, non il movimento fascista: «C'è stato un tempo in cui il gioco della sinistra era quello di opporsi alla destra borghese, poiché quest'ultima usava mezzi coercitivi per mantenere l'ordine, mentre la prima voleva mantenerlo con mezzi liberali. Oggi, chiusa l'era dei metodi liberali, il programma della sinistra consiste nel mantenere l'ordine con più "energia" della destra. Vuole che gli operai ingoino questa pillola con il pretesto che coloro che turbano l'ordine sono i "reazionari" e che l'"energia" di questo governo di sinistra sarà diretta contro le bande armate di Mussolini. Ma poiché il compito del proletariato è quello di distruggere questo maledetto ordine, per instaurare il proprio, esso non ha peggior nemico di coloro che si propongono di difendere l'ordine borghese con tutte le loro forze». Per Bordiga, la manovra consisteva nel presentare al proletariato, come proprio obiettivo, la difesa dell'ordine della borghesia: «I comunisti denunciano il programma della sinistra come una frode, sia quando si lamentano della violazione delle libertà pubbliche, sia quando si lamentano che il governo non è abbastanza forte. L'unica cosa che ci rende felici è che, man mano che questa frode viene chiaramente rivelata, il liberale comincia ad apparire sempre più simile a un gendarme. Anche quando indossa l'uniforme per arrestare Mussolini, è ancora un gendarme. Certo, non fermerà Mussolini, ma farà la guardia per difendere il nemico della classe operaia: lo stato attuale».
La conclusione che i comunisti, i rivoluzionari, dovevano trarre era molto chiara a Bordiga: «Quindi non siamo a favore di un governo forte, né di uno debole; né da destra né da sinistra. […] La forza dello Stato borghese non dipende dalle manovre di corridoio dei deputati. Noi sosteniamo un solo tipo di governo: il governo rivoluzionario del proletariato. E noi non lo chiediamo a nessuno, ma lo prepariamo contro tutti, nel cuore stesso del proletariato. Viva il governo forte della rivoluzione!
».  Le tesi di Amadeo Bordiga su fascismo e democrazia, nel dicembre 1921, possono essere così riassunte, come abbiamo visto nei principali articoli da lui scritti fino a quel momento:

  Il fascismo difende lo Stato democratico contro un proletariato rivoluzionario che vuole distruggerlo. A partire dalla prima guerra mondiale, il rispetto dei diritti e delle libertà politiche democratiche, che è il fondamento dell'ideologia liberale, è stato in contraddizione con la difesa degli interessi del capitale da parte dello Stato. Questa contraddizione porta la borghesia a rinunciare alla propria ideologia liberale, rivelando il carattere controrivoluzionario e repressivo di uno Stato che deve difendere gli interessi di classe della borghesia con tutti i mezzi a sua disposizione, compresi quelli che implicano l'abolizione dei diritti e delle libertà democratiche. Democrazia e fascismo non si contrappongono ma si completano a vicenda, alternativamente o all'unisono. Non sono la stessa cosa, altrimenti non potrebbero essere complementari, ma non si escludono nemmeno a vicenda. La sinistra borghese è in grado di realizzare un governo di unità tra socialisti riformisti e fascisti, contro il proletariato rivoluzionario. La scissione politica della borghesia di fronte alla costante minaccia rivoluzionaria del proletariato, sotto i suoi due aspetti della violenza fascista e della democrazia parlamentare, convergono in una strategia comune della borghesia in difesa dei suoi interessi storici di classe. La funzione della socialdemocrazia è quella di deviare le lotte di classe del proletariato dal loro obiettivo rivoluzionario alla difesa della democrazia borghese. Al fascismo manca un programma. La sua funzione è quella di reprimere il proletariato al posto dello Stato, che riesce così a preservare l'illusione democratica tra le masse. Dopo questi primi articoli introduttivi sul tema del fascismo e della democrazia, Bordiga scrisse quello che possiamo definire uno dei più grandi testi sull'argomento, il saggio incompleto pubblicato tra il settembre e l'ottobre 1922 (30 settembre e 31 ottobre) su Rassegna Comunista e intitolato "I rapporti di forza sociali e politici in Italia".  In questo articolo Bordiga si chiedeva se lo Stato italiano fosse già uno Stato pienamente borghese o uno Stato arretrato rispetto agli altri Stati capitalistici moderni, con forti caratteristiche feudali. La sua risposta cominciava con l'affermare le caratteristiche che la teoria marxista attribuisce allo Stato liberale, al fine di poter essere: «confrontare le caratteristiche dello Stato italiano con quelle che la nostra dottrina marxista riconosce allo Stato borghese in generale. Questo ci porterà a constatare che l'atteggiamento dello Stato italiano è in contraddizione con i compiti che il liberalismo borghese assegna allo Stato, e questa conclusione deve essere inquadrata nella nostra critica marxista complessiva, che mostra appunto che il metodo liberale non fa altro che mascherare la vera natura dello Stato borghese» [*12].
Iniziò così uno studio storico sulla genesi dello Stato italiano, rilevando che: «Il programma politico e ideologico del Risorgimento italiano coincide perfettamente con il contenuto della rivoluzione liberal-democratica [...]. Il movimento per l'indipendenza nazionale, la tipica lotta contro il clero e le dottrine religiose, così come contro i privilegi e i costumi della nobiltà, rispose a questo programma. Tutte le esigenze del liberalismo si trovano: costituzioni parlamentari, libertà di culto, di stampa, di associazione, ecc.». Per Bordiga era sbagliato contrapporre un nord borghese a un sud feudale in Italia: «Sarebbe assolutamente sbagliato tracciare il seguente schema: lo Stato unitario italiano poggia su due forze sociali nettamente diverse, anche nella sua politica di governo, anche se alleate: la borghesia del nord e la classe feudale e latifondista che domina nel sud. I rapporti che si sono creati tra il nord e il sud, nell'apparato governativo italiano, devono essere giudicati in modo meno superficiale. [...] In realtà, nell'Italia meridionale il feudalesimo non era abbastanza forte da opporre una seria resistenza alla rivoluzione borghese. Composta principalmente da proprietari terrieri di medie dimensioni, la classe dirigente meridionale si adattò facilmente al regime parlamentare. […] Se il Sud oggi non conosce la lotta aperta tra la borghesia e il proletariato, non conosceva prima la lotta aperta tra il feudalesimo e la borghesia». Bordiga affrontò un tema molto controverso, che lo contrapponeva radicalmente all'analisi di Gramsci, tra gli altri: i rapporti tra il nord industrializzato e un sud con forti connotazioni agrarie e feudali.

  «C'è un'evidente antitesi tra gli interessi economici del sud agrario e del nord industriale, che si riflette nella politica doganale, ma questo non basta per concludere che c'è un chiaro dualismo all'interno della classe che ha tradizionalmente governato l'Italia. […] In realtà, la maggior parte della produzione agricola proviene dal nord e non dal sud. […] Nella questione del protezionismo, la più importante è la contrapposizione di interessi tra la massa dei consumatori proletari e semiproletari, da una parte, e alcune categorie di lavoratori industriali, dall'altra». E giunse alla seguente conclusione: «Il libero scambio non è propriamente una tesi pre-capitalista, anche se corrisponde a una fase di sviluppo economico che i paesi più avanzati hanno superato nel corso degli ultimi decenni. Non si può quindi provare in ogni caso che non siano state le classi borghesi a costituire lo Stato italiano. In conclusione, possiamo quindi dire che la correlazione di forze economiche, sociali e politiche che esisteva al momento della formazione dell'attuale Stato autorizza la definizione di quest'ultimo come un regime pienamente borghese, liberale e democratico». Così, Bordiga riconosceva il pieno carattere democratico delle istituzioni dello Stato italiano, e contro coloro che sostenevano che la democrazia difendeva realmente le libertà di tutti i cittadini, compresa la classe operaia, affermava che era proprio il carattere democratico dello Stato italiano a farne lo strumento ideale della classe borghese, in difesa dei propri interessi con tutti i mezzi. compresa la repressione armata del proletariato rivoluzionario. Bordiga studiò poi l'evoluzione del capitalismo liberale che, da ostile al sindacalismo e ai monopoli, in quanto limitavano la libera concorrenza, era diventato, attraverso un processo evolutivo, capitalismo sindacalista e monopolistico, trovando nel monopolio e nell'imperialismo il rinvio dell'inevitabile confronto con il movimento proletario rivoluzionario. Per Bordiga, questo fenomeno storico, cioè il passaggio dal capitalismo liberale o competitivo al capitalismo democratico o monopolistico, contraddiceva la dottrina liberale pura, ma confermava la critica del marxismo alla teoria economica liberale: «La teoria liberale rifiuta categoricamente l'ammissione delle organizzazioni sindacali perché in economia è ostile a qualsiasi monopolio in grado di limitare la libera concorrenza. […] Il potere borghese deve quindi rassegnarsi a riconoscere il diritto di associazione per interessi simili, se non vuole promuovere l'immediato scoppio della lotta rivoluzionaria. Riconoscendo il diritto di associazione, lo Stato borghese liberale modifica la sua dottrina, ma continua a svolgere la sua funzione di difensore della classe borghese. […] Lo Stato non è più sufficiente perché i cittadini difendano i loro interessi [...] il suo vero compito è evidente: difendere gli interessi della classe padronale usando la propria forza, simulando la propria imparzialità giuridica». In questo modo, Bordiga poteva logicamente firmare che: «Per la borghesia, il liberalismo è una dottrina di uso interno ed esterno, ma è la forza che possiede che le permette di stabilire la sua tattica di governo. Se, per usare questa forza, è necessario violare un principio di questa dottrina, è logico che egli lo violi nello stesso tempo che si presta a mille contorsioni per dimostrare che non vi ha rinunciato». Bordiga ha identificato la democrazia e l'imperialismo. Il passaggio dal capitalismo competitivo al capitalismo imperialista ha implicato sul piano politico il passaggio dal liberalismo alla democrazia. «Se per metodo democratico non si intende il liberalismo, che si esprime nella "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino", ma la pratica di governo degli Stati moderni nella fase successiva, esso può essere identificato con la fase del monopolio e dell'imperialismo che ha preceduto la prima guerra mondiale». Di fronte alla possibile obiezione, nel caso italiano, che l'arretratezza economica fosse un ostacolo insormontabile all'identificazione tra imperialismo e democrazia, Bordiga analizzò la storia italiana, affermando che il giolittismo fu responsabile della messa in pratica di questo amalgama tra democrazia, imperialismo e capitalismo monopolistico: «Si potrebbe obiettare alla nostra identificazione tra metodo democratico e monopolismo imperialista che l'Italia, [...] è precisamente un paese in cui il capitalismo si è evoluto tardivamente. In realtà, l'arretratezza dell'evoluzione capitalistica in Italia è più quantitativa che qualitativa. Molto presto, il capitale bancario ha svolto un ruolo importante nella produzione del paese, e quindi nella sua vita politica. […] L'aristocrazia terriera feudale e clericale esercita pochissima influenza [...], lo Stato ufficiale adotta così nei primi anni del XX secolo un atteggiamento di tolleranza nei confronti dei sindacati proletari. I leader di questi paesi rinunciano a qualsiasi propaganda e azione sovversiva in cambio della possibilità che è stata loro concessa di agire nel quadro giuridico, con mezzi pacifici. È così che sono state gettate le basi della collaborazione di classe. Il socialismo si evolve a destra, mentre i governi democratici di sinistra elaborano la legislazione sociale».

  Giolitti, secondo Bordiga, giocò un doppio gioco intelligente ed efficace, combinando la feroce repressione del proletariato rivoluzionario con le riforme elettorali e lo scatenamento della guerra imperialista in Libia: «La politica della classe dirigente italiana che è stata chiamata "giolittismo" costituisce nella nostra comprensione un modello di "politica democratica di sinistra". Sapendo che si trattava di un mezzo sicuro per disarmarli, lo Stato concluse senza esitazione un patto di compromesso con i capi del proletariato, e la monarchia si preparò a investire i socialisti di funzioni ministeriali, senza la minima seria opposizione da parte dei circoli tradizionalisti. Ma allo stesso tempo, il governo borghese non ha indietreggiato di un millimetro quando si è trattato di preparare e utilizzare i mezzi di repressione violenta che costituiscono la sua ragion d'essere». Alla base dell'analisi c'è sempre l'uso del metodo democratico da parte dello Stato come difesa ottimale del capitalismo: «Secondo la critica marxista, il metodo democratico, al contrario, risponde perfettamente agli obiettivi della classe capitalista, poiché concilia i mezzi violenti, che l'apparato statale è sempre più determinato ad usare, con un'abile politica di concessioni apparenti, che distolgono il movimento operaio dai propri obiettivi, senza imporre il minimo sacrificio reale alla classe dominante». Nel pensiero di Bordiga, democrazia politica, riformismo sociale e guerra imperialista appaiono storicamente intrecciati: «La guerra imperialista è stata preparata dappertutto in un clima di democrazia politica avanzata e di riforme sociali, entrambe stupidamente presentate come prova di un vero pacifismo sociale». Militarismo e democrazia non si escludono a vicenda: «Durante la guerra, la tesi fondamentale dei socialisti di sinistra in Italia era che, contrariamente a quanto sostenevano gli interventisti nella loro colossale campagna di menzogne, non c'era antitesi tra militarismo e democrazia, tesi dimostrata dal fatto che sono proprio gli Stati non democratici ad affondare militarmente per primi». Dopo la guerra, la situazione italiana era oggettivamente rivoluzionaria: «La guerra lasciò la borghesia in una situazione inquietante. La crisi economica e il ritorno nel paese delle masse smobilitate, dopo aver imparato l'uso delle armi e il disprezzo della morte, costituivano un pericolo evidente».  La borghesia liberale ha agito con grande intelligenza, secondo Bordiga, di fronte a questa situazione oggettivamente rivoluzionaria: «Quando i responsabili dell'odierna controffensiva borghese criticano il presunto disfattismo dell'autorità governativa di Nitti e Giolitti, sanno benissimo che non stanno dicendo la verità. A quel tempo, per lo Stato, la tattica della lotta frontale era a dir poco rischiosa. Bisognava dare il via libera all'ebollizione popolare, mentre si preparava il consolidamento delle agenzie statali. […] Nitti e Giolitti hanno notevolmente potenziato le diverse forze di polizia, il primo creando la Guardia Reale, il secondo moltiplicando il numero dei carabinieri; Sono loro che hanno effettivamente gettato le basi del fascismo. [...] Giolitti praticò una politica coraggiosa in campo sociale e sindacale, riuscendo così a superare il momento cruciale. […] Ma quando fu annunciata la crisi industriale e i padroni rifiutarono di fare nuove concessioni, il problema della gestione proletaria si pose localmente ed empiricamente. Gli operai occupavano le fabbriche, [...] in coincidenza con l'occupazione della terra da parte dei contadini. Lo Stato capì che un attacco frontale da parte sua sarebbe stato catastrofico, che la manovra riformista era ancora una volta la più appropriata e che si poteva ancora tentare una minaccia di concessione. Con il disegno di legge sul controllo operaio, Giolitti ottenne dai padroni operai l'evacuazione delle fabbriche».

  La conclusione di questo ampio saggio di Bordiga è fondamentale, pur essendo incompiuta [*13], perché oltre a riaffermare come falsa l'antitesi tra fascismo e democrazia, come aveva già fatto in precedenti articoli, si aggiungeva ora una novità di enorme importanza, non solo nel pensiero di Bordiga, ma nella storia del pensiero politico contemporaneo. La novità consisteva nell'affermare la continuità essenziale tra democrazia e fascismo, così come c'era una continuità di fondo tra liberalismo e democrazia. In questo modo, i metodi socialdemocratici e fascisti, invece di alternarsi nel governo, tenderebbero, secondo Bordiga, a fondersi nello Stato. Di qui la tattica assolutamente intransigente di Bordiga contro la socialdemocrazia, alla quale non si facevano concessioni in nome della lotta antifascista. Andreina De Clementi riassume questo saggio affermando che Bordiga si era proposto di «dimostrare la continuità tra il regime democratico e una prossima soluzione fascista» [*14]. Il saggio evidenzia il decisivo superamento della tesi sull'incompiutezza della rivoluzione  democratico-borghese in Italia. Bordiga ha sottolineato il carattere pienamente borghese e capitalista della società italiana all'inizio del Novecento. Per lui, la relativa arretratezza quantitativa dell'industrializzazione italiana non deve essere confusa con la non-realizzazione qualitativa della rivoluzione borghese nel paese. Anni dopo, nel 1925, si sarebbe aperta un'importante discrepanza teorica tra la nozione bordighista e quella gramsciana del fascismo. Per Bordiga c'era una continuità tra democrazia e fascismo, e proprio per questo interpreterà la marcia su Roma dei fascisti e l'attribuzione di pieni poteri a Mussolini nel suo aspetto letterale: come una soluzione ministeriale alla crisi politica, un semplice trasferimento democratico del potere ai fascisti. Per Gramsci, la soluzione fascista significava il predominio delle forze reazionarie nello Stato, conseguenza della debolezza storica di una borghesia incapace di realizzare la rivoluzione democratico-borghese. Così, la rivoluzione borghese, per Bordiga, è stata pienamente realizzata, e il passaggio da un capitalismo competitivo a un capitalismo imperialista è già stato fatto, anche se si tratta di un capitalismo arretrato rispetto ad altre potenze più sviluppate. D'altra parte, per Gramsci la rivoluzione borghese non è ancora compiuta, e trascina il peso delle strutture feudali su cui poggiano le forze reazionarie.

La sintesi: dalla diversa analisi delle caratteristiche della rivoluzione borghese in Italia è emersa una diversa analisi del fascismo.
Per Bordiga c'è stata una continuità tra liberalismo e democrazia per tutto l'Ottocento, così come una continuità tra democrazia e fascismo dopo la prima guerra mondiale. Continuità intesa come evoluzione capitalistica. Per Gramsci, al contrario, il fascismo era il risultato del predominio delle forze reazionarie, conseguenza della debolezza storica della borghesia italiana, che non era stata in grado di realizzare pienamente la rivoluzione democratico-borghese. In totale opposizione, Bordiga considerava il fascismo come un metodo di governo moderno, tipico di una borghesia industriale e sviluppata. Anche la tattica da seguire, basata sull'analisi divergente dell'uno e dell'altro, non potrebbe essere più opposta. Bordiga propose il passaggio diretto al socialismo: la rivoluzione comunista era già possibile e immediata, era all'ordine del giorno. Per Gramsci, invece, era necessario assolvere i compiti della rivoluzione democratico-borghese, come passo preliminare e insostituibile alla rivoluzione socialista. Bordiga continuò la sua analisi del fascismo sulla scia degli eventi storici con altri contributi degni di nota, come le sue relazioni al IV e V Congresso dell'Internazionale. L'idea a cui Bordiga era giunto sul fenomeno fascista, prima della Marcia su Roma, può essere riassunta citando l'ultimo paragrafo del saggio sui rapporti di forza sociali e politici in Italia: «Nel fascismo e nell'attuale controffensiva generale della borghesia non vediamo un cambiamento nella politica dello Stato italiano, ma la naturale continuazione del metodo usato prima e dopo la guerra dalla "democrazia". Noi non crediamo nell'antitesi tra democrazia e fascismo, così come non abbiamo creduto nell'antitesi tra democrazia e militarismo. E non daremo più alcun credito, nella lotta contro il fascismo, al complice naturale della democrazia: il riformismo socialdemocratico».

- Agustín Guillamón - Capitolo estratto dal libro "Amadeo Bordiga en el PCd´I"

ABBREVIAZIONI: CGL: Confederazione Generale del Lavoro; IC: Internazionale Comunista; PCd'I: Partito Comunista d'Italia; PSI: Partito Socialista Italiano.

NOTE:

1 Comminisme et fascisme, Ed. Programme communiste, Marsiglia, 1970, pp. 35-38.

2 Communisme et fascisme, op. cit., pp. 39-44.

3 Amendola, Giorgio. Op. cit., p. 6.

4 Communisme et fascisme, op. cit., pp. 45-48.

5 Communisme et fascisme, op. cit., p. 49.

6 Livorsi, Franco. Op. cit., p. 210.

7 Communisme et fascisme, op. cit., pp. 49-55.

8 Livorsi, Franco. Op. cit., p. 211.

9 Cfr.: Salvatorelli, Luigi e Mira, Giovanni. Op. cit., pp. 200-206.

10 Communisme et fascisme, op. cit., pp. 57-60.

11 Communisme et fascisme, op. cit., pp. 61-64.

12 Communisme et fascisme, op. cit., pp. 65-80.

13 Incompiuta perché la terza e ultima parte dell'articolo non è mai apparsa, prima dello scatenamento della Marcia su Roma da parte dei fascisti. Tuttavia, la Relazione presentata da Bordiga al IV Congresso, a soli 15 giorni dalla data di pubblicazione della seconda parte, completa in qualche modo lo studio sul fascismo, iniziato ne "I rapporti delle forze sociali e politiche in Italia".

14 De Clementi, Andreina. Amadeo Bordiga, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1971, p. 164.

fonte: SER HISTORICO: portal de historia

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