Dopo Debord, lo Spettacolo alla deriva
di "Agitations" - 11 novembre 2019
«Nell'Internazionale Situazionista [*1], i pro-situ [N.d.T.: ovvero i seguaci che si avvicinavano all'Internazionale aspettandosi di entrare a far parte di un movimento che non esisteva] non hanno mai visto una determinata attività critico-pratica che spiegava o anticipava le lotte sociali di un'epoca, ma semplicemente delle idee estremiste; e non tanto delle idee estremiste, quanto l'idea dell'estremismo; ed in ultima analisi, meno l'idea dell'estremismo e più l'immagine di eroi estremisti riuniti in una comunità trionfante. [...] Il loro numero non moltiplica il loro vuoto: tutti loro ci fanno sapere che essi approvano integralmente l'IS, e non sanno fare altro che questo. Nel loro diventare numerosi, rimangono identici l'uno all'altro: chi ne ha letto o ne ha visto uno, li ha letti tutti e li ha visti tutti. Essi sono un prodotto significativo della storia attuale, ma in cambio non producono affatto quella che è tale storia. » (Guy Debord, La vera scissione nell'I.S.)
Società dello spettacolo, tele-realtà ed altre banalità
Questo articolo non ha come sua vocazione quella di fornire un'analisi esaustiva delle diverse produzioni situazioniste, o quella di dissertare intorno a quella che era la loro concezione dell'arte - tematiche che possono interessare solo i conservatori dei musei: per questo, raccomandiamo di consultare una delle innumerevoli biografie di cui Debord è stato fatto oggetto in quanto leader dell'IS, e a proposito delle quali, a dire di quest'ultimo, sono state tutte uguali nella loro mediocrità. Qui, ci concentreremo unicamente sulla teoria critica che egli ha prodotto «nell'intento cosciente di nuocere alla società spettacolare» [*2], tralasciando volontariamente la dimensione artistica della sua opera.
Il concetto di «società dello spettacolo», inizialmente teorizzato da Guy Debord nel suo libro omonimo pubblicato nel 1967, sorprende subito a partire soprattutto dalla diversità delle personalità che se ne appropriano, dagli insurrezionalisti di Tiqqun a Bernard-Henry Lévy, passando per diversi movimenti artistici contemporanei o per un ex ministro dell'economia [*3], e persino i giornalisti di Grazia parlano audacemente di Cyril Hanouna come l'erede dell'IS [*4]. Nel corso del tempo, tutta la potenza teorica contenuta nell'opera principale di Debord è stata estetizzata e dissezionata nei simposi accademici, esposta nei musei o in occasione di polverose retrospettive, fino a quando non è stata neutralizzata definitivamente per essere integrata in quella filosofia borghese che i situazionisti aveva continuato a denunciare fino a che, nel 2009, gli archivi dell'IS sono stati classificati come «tesoro nazionale» dal ministro della cultura.
L’edulcorazione romantica della critica sociale debordiana non è dovuta tanto alla labilità del concetto di spettacolo, quanto piuttosto ad una comprensione erronea, ad un fraintendimento, dei testi situazionisti, sovente ridotti ad una critica volgare «culto dell'apparenza», che sarebbe proprio dell'epoca dei mass media. Per cui si tratterebbe di ritrovare una Verità perduta, smarrita nel regno dell'artificiale nel momento in cui «tutto ciò che viviamo direttamente si è allontanato in una rappresentazione» [*5]. Pertanto, sarebbe sufficiente denunciare i vettori mediatici che consentono la diffusione delle «immagini» per riuscire a ritrovare l'«autentico» del «realmente vissuto».
Ma queste critiche semplicistiche della «società dei consumi» attengono solo ad un aspetto superficiale dello spettacolo. Considerare solo Nabilla, i selfie di Instagram, o una sfilata di moda, come delle incarnazioni della «società dello spettacolo», significa non cogliere il problema fondamentale: il modo di produzione che genera i rapporti sociali, del quale queste immagini non sono altro che il prodotto esterno. Il capitalismo non è una società dei consumi, ma un modo di produzione: il suo fine primario ed autoreferenziale è la continua ed ininterrotta accumulazione di profitto attraverso la valorizzazione del capitale. Ed è per smaltire le merci prodotte, per poter realizzare il loro plusvalore [*6] che si ricorre alla pubblicità, all'intrattenimento televisivo che mira a rendere attraente questa o quella merce culturale, o che si ricorre all'obsolescenza programmata, e così via. Ma queste sono solo le manifestazioni che più ci sorprendono, e Debord ha tenuto a precisare innanzitutto che «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma una relazione sociale tra delle persone, mediato attraverso delle immagini» [*7].
Prendere in maniera acritica ed isolatamente uno o l'altro di questi fenomeni equivale a cercare di affettare l'acqua e condannarsi a rimanere ciechi di fronte ai meccanismi economici che tali fenomeni causano, e li mantengono strutturalmente. È in tal senso che Anselm Jappe, nel suo libro su Debord, ha scritto che «il problema non sono le rappresentazioni, ma la società che di queste rappresentazioni ha bisogno».
Inoltre, la denuncia narcisistica che si limita a criticare alcuni aspetti culturali del tardo capitalismo per promuoverne altri (la cultura «alternativa», il consumo «etico», ecc.) svolge proprio la funzione dello spettacolo: suggerire, attraverso l'ideologia, delle false alternative a quella che è la miseria esistenziale contemporanea, delle scelte apparenti che, per quanto capitali sembrino (Debord arriva al punto di parlare di «spettacolo degli antagonismi» [*8] a livello geopolitico), non mettono mai in discussione le strutture fondamentali del capitalismo e, soprattutto, la contraddizione capitale/lavoro.
Lo spettacolo confonde ed interferisce con la realtà delle relazioni di classe. Occulta la conflittualità sociale, in modo che non ci si renda immediatamente conto dello scontro permanente tra proletariato e borghesia su cui si basa il nostro modo di produzione. Insomma, cerca di negare la lotta tra le classi, di naturalizzare le categorie capitalistiche, per far risaltare solo quelle che sono delle contraddizioni superficiali e senza conseguenze. Le soluzioni che pretende di proporre, in realtà, servono a preservare il nucleo del dominino: lo sfruttamento e l'estrazione del plusvalore. E perciò tutte le critiche che gli vengono rivolte rimangono nel quadro che esso stesso ha definito: «Non mostra altro orizzonte se non sé stesso, ed esso è la sua propria verità» [*9]. In tal senso, per neutralizzarsi, lo spettacolo è in grado di assimilare sé stesso, sia ideologicamente (come viene testimoniato dall'utilizzo di slogan del maggio 68 in delle pubblicità o in dei manuali di gestione e di «sviluppo personale»), sia materialmente. È questa capacità di adattamento, a consentire al modo di produzione capitalista di ristrutturarsi continuamente, a seconda del grado della lotta di classe e della congiuntura economica, senza mai cedere alle proprie contraddizioni interne o alle pressioni operaie. È questa dinamica di ridefinizione permanente delle modalità delle relazioni di classe a garantire la sua longevità, malgrado le crisi che ha dovuto affrontare (interventismo keynesiano, per far fronte al crollo del 1929, compromesso fordista, nel dopoguerra, globalizzazione e liberalizzazione del mercato del lavoro, dopo gli anni '70...).
In questo modo, il nucleo rimane intatto e le episodiche sostituzioni di alcuni dei suoi ingranaggi non minacciano certo il buon funzionamento dell'accumulazione di capitale. Questo postulato teorico è la base del pensiero situazionista, secondo il quale la critica rivoluzionaria dev'essere radicale, vale a dire che deve attaccare il dominio alla radice, e non può accontentarsi di graffiare questo o quel fenomeno derivato: «L'alternativa è tra rifiutare la totalità della loro miseria, o niente» [*10].
Pertanto - e contrariamente a quel che pretendono alcuni commentatori letterari, i quali associano sovente Debord alla Nuova Sinistra allora in voga, nel periodo post-68 - i suoi scritti teorici non rompono affatto con la critica marxiana dell'economia politica, per focalizzarsi su quella che invece sarebbe una denuncia bohémien della «cultura di massa». Se non si vuole cadere in dei grossolani equivoci circa il suo obiettivo di scrivere La Società dello Spettacolo, è d'uopo soffermarsi su quello che è stato il percorso politico di Debord e del suo impegno militante: passato dall'organizzazione dei consiliaristi, Socialismo o Barbarie, di Claude Lefort e Cornelius Castoriadis, collaborerà a più riprese ad una rivista conseguente a quell'esperienza, "Pouvoir Ouvrier" [*11]. Debord ha rivendicato anche l'eredità filosofica di numerosi pensatori rivoluzionari: Marx, ovviamente, ma anche Lukacs, Korsche o Lefebvre.
Nel dichiarare «Io non sono un filosofo, sono uno stratega» [*12], chiaramente Debord sottolinea la dimensione militante del suo approccio teorico ed artistico, il quale mira a fornire gli strumenti critici per poter pensare l'abolizione del capitalismo e per affrontare la costruzione di situazioni, vale a dire di «momenti realmente vissuti», «deliberatamente costruiti dall'organizzazione collettiva di un ambito unitario e da un gioco di avvenimenti», liberati dalle esigenze totalitarie dello spettacolo e dagli imperativi della valorizzazione di mercato [*13].
Debord e Marx: il feticismo della merce ed il regno delle astrazioni
L'interesse del concetto di spettacolo, ben lungi da quelle che sono le sue interpretazioni culturali, risiede nella sua comprensione del capitalismo come totalità sociale. Il dominio dell'economia si è esteso a tutti gli aspetti della vita, e ormai non c'è più niente che sfugga allo spettacolo. Dopo il salto qualitativo che ha trasformato il denaro in capitale, analizzato da Marx nella sua critica dell'economia politica, il capitale ha raggiunto un livello di accumulazione tale da essere diventato a sua volta immagine. Per comprendere La Società dello Spettacolo, è quindi necessario padroneggiare quelle nozioni ad essa precedenti e sulle quali si basa fondamentalmente: il feticismo della merce e la reificazione. Proponiamo qui quella che è solo una definizione succinta della teoria che poi è stata sviluppata in maniera più ampia da Marx nel primo capitolo de Capitale [*14] e da Lukacs in Storia e Coscienza di Classe.
Il feticismo è il fenomeno sociale a partire dal quale le merci prodotte dal lavoro umano si trovano ad essere dotate di un valore sovra-sensibile che si pretende essere naturale (vale a dire, insuperabile) e che sembra acquisire una sua autonomia in quello che è lo scambio. A causa del carattere astratto e anonimo dello scambio mercantile, il rapporto di sfruttamento inerente alla produzione di tali merci non è direttamente apparente, ed il lavoratore non le riconosce più come il frutto del suo lavoro, sia soggettivamente (le condizioni lavorative gli vengono imposte come sofferenza, e la divisione del lavoro gli impedisce di avere il benché minimo controllo sul processo di produzione) che materialmente (a causa della proprietà dei mezzi di produzione, per poter comprare la merce che egli stesso ha prodotto, deve spendere il proprio salario). La merce della quale l'operaio viene spossessato «gli sta di fronte come un essere estraneo, come un potere indipendente dal produttore» [*15]: è quel che Marx definisce alienazione.
Per il marxista ungherese Georg Lukacs, «questa sottomissione cresce ancora a partire dal fatto che più aumenta la razionalizzazione del processo lavorativo, più l'attività del lavoratore perde il suo carattere di attività e assume un carattere contemplativo». Lukacs approfondisce quello che è il principio di separazione portato alla luce dal concetto di alienazione, ponendo maggiormente l'accento sulla divisione del lavoro e sulla razionalizzazione tecnica, in particolar modo attraverso l'introduzione del lavoro alla catena e del taylorismo. L'operaio, di fronte al processo produttivo in cui egli si accontenta di operare meccanicamente, viene spossessato di ogni umanità: è la reificazione [*16].
Il risultato raggiunto è lo spettacolo, lo stadio cui è arrivato il capitalismo moderno. Per Debord, il capitale ha completamente sussunto la vita quotidiana e non è più riducibile alla sfera strettamente produttiva. Applicando il concetto di feticismo a tutte le aree della vita, cerca di dimostrare come il 20° secolo sia stato quello della «proletarizzazione del mondo». Pertanto, ogni critica sociale conseguente dev'essere anticapitalista e, reciprocamente, ogni critica del capitalismo deve porsi sul terreno sociale. Lukacs scriveva già che «non è la predominanza dei motivi economici nello spiegare la storia che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese, ma il punto di vista della totalità». L'affermazione di Marx (presente nei suoi scritti giovanili) secondo cui il capitalismo è interessato all'uomo solo in quanto egli lavora, è oramai obsoleta: il capitalismo si fa carico anche della riproduzione della sua forza lavoro e dei suoi consumi, e lo fa anche attraverso la gestione del suo tempo libero. Oggi, il non-lavoro è un momento del lavoro.
Pertanto, quando Debord su un muro di rue de Seine traccia la scritta «Ne travaillez jamais» [Non lavorate mai], è ben lungi dal fare una cosa innocente, dal momento che secondo lui quella sarà « la più bella delle sue opere giovanili » [*17], in quanto non rivendica ingenuamente il proprio desiderio di una società oziosa, ma se la prende con il lavoro in quanto utilizzo capitalista della merce forza lavoro al fine di valorizzare il capitale. La rigida separazione temporale tra la sfera produttiva ed il resto dell'esistenza è stata una specificità del capitalismo, laddove la vita riunificata non farà più una simile delimitazione, e ci sarà l'assoluta necessità di produrre un surplus sotto forma di valore.
La critica situazionista riprende Marx affermando che l'economia ed il suo «carattere fondamentalmente tautologico» ha sottomesso alle sue proprie leggi la vita umana: «Il valore di scambio dirige l'uso» [*18]. Non si produce per soddisfare un bisogno concreto, ma solo per accrescere il capitale iniziale attraverso lo scambio. Marx distingue perciò il processo della circolazione M - A - M' , in cui la vendita di una merce M permette al produttore di poter ottenere una quantità di denaro A che poi a sua volta gli consentirà di acquisire un altra merce M' ; dal processo di circolazione capitalistica A - M - A' , dove la merce non è altro che l'intermediaria che serve a mettere a frutto il capitale iniziale. Debord parla di «mondo realmente rovesciato» per descrivere questa inversione spettacolare che rende il denaro un fine in sé, anziché un semplice mediatore per lo scambio [*19].
Ma in questo processo in che modo il capitale riesce ad auto-valorizzarsi? In realtà, è lo sfruttamento del lavoro vivente che detiene, esso solo, la capacità di creare valore. L'attività produttiva è diventata puro dispendio di energia indifferenziato, lavoro astratto il cui solo obiettivo è quello di contribuire quantitativamente all'accumulazione del capitale. L'uso concreto delle merci prodotte viene negato, e serve solamente da supporto materiale al valore di scambio. Nel primo capitolo del Capitale, Marx dimostra che questo processo di astrazione si trova al cuore dell'economia (il valore costituisce la sostanza invisibile della merce, e non viene visto per quanto presieda alla totalità delle relazioni sociali) e questo non è solo un semplice aspetto negativo che potrebbe essere soppresso, conservando tutto il rimanente.
Questa astrazione quantitativa si è imposta al punto tale che oramai serve da mediazione sociale universale al fine di mettere in relazione gli individui tra di loro, per mezzo del lavoro: «Oramai gli individui sono dominati da delle astrazioni, mentre precedentemente dipendevano gli uni dagli altri »[*20] In effetti, nelle società pre-capitaliste, l'uso dirigeva sempre la produzione, dal momento che quest'ultima non si basava esclusivamente sul commercio. Ciascun lavoro aveva un contenuto qualitativo proprio, ed il legame sociale si produceva congiuntamente a quella che era la produzione materiale. Con lo sviluppo del capitalismo, l'attività produttiva diviene vendita di forza lavoro, al di fuori di ogni contenuto concreto. Al concreto si accede solo attraverso e per mezzo del valore di scambio e la sua forma più fenomenale: il denaro. Il legame sociale si stabilisce a posteriori attraverso lo scambio, attraverso l'astrazione del mercato come meccanismo inconscio. Lo spettacolo è «lo sviluppo più estremo di questa tendenza all'astrazione» in cui non si cerca nemmeno di ottenere delle cose, ma delle immagini: è «ideologia materializzata» [*21].
I desideri e le stesse soggettività hanno dovuto soccombere alla reificazione e sono state inquadrate ideologicamente per mezzo dello spettacolo. Per Debord, l'aumento della produttività dovuto al progresso tecnologico avrebbe potuto liberare l'essere umano da un gran quantità di «lavori principali» necessari alla riproduzione della società in modo da poter dedicare la propria vita ad altre attività (torneremo su questo). Ma lo spettacolo crea artificialmente dei nuovi bisogni per poter mantenere così l'illusione di una ricerca perpetua della sopravvivenza con l'aiuto di nuove merci che si pretendono indispensabili, e si evolvono in maniera tale che lo diventano realmente: si tratta della «sopravvivenza aumentata» [*22].
«Possedere più oggetti o degli oggetti più sofisticati rispetto a quelli dei tempi precedenti, non significa che si viva meglio. L'operaio ha un'automobile che suo padre non aveva. Ma il suo luogo di lavoro e la campagna del weekend si sono allontanati. Perde negli ingorghi quello che aveva conquistato nel tempo lavorativo, e nello stress nervoso quello che era diminuito in sforzo fisico. Ciò che l'industria concede con una mano, le condizioni del suo sviluppo se lo sono già riprese con l'altra. Loda la qualità dei suoi rimedi ma dimentica di dire che inocula le malattie. Non è una caso. La logica della produzione delle merci presuppone che vengano mantenute le condizioni di insoddisfazione» [*23]. Senza pubblicità o marketing per stimolare i consumi, ad incepparsi è tutta l'economia capitalista.
Spettacolo dell'economia o economia spettacolare?
Ma ricordiamoci che il feticismo non può essere ridotto ad un mero fenomeno di «coscienza mistificata», come la intendono gli idealisti. Si tratta decisamente della subordinazione dell'attività umana alla logica della valorizzazione del capitale. E non è una menzogna puramente narrativa che potrebbe essere sconfitta opponendole semplicemente la verità che essa cerca di camuffare: il feticismo struttura a fora i rapporti sociali in maniera permanente.
Debord constata perciò che presupposto e condizione indispensabile alla sottomissione dei lavoratori al capitale è stata «l'espropriazione violenta del loro tempo» [*24]. Spossessati dei loro mezzi di esistenza, per poter sopravvivere non hanno avuto altra scelta se non quella di proletarizzarsi e vendere la loro forza lavoro alla classe capitalista. Per esempio, in Inghilterra, dove è nato il capitalismo industriale, il movimento delle «enclosures» [N.d.T.: recinti] ha mirato a privatizzare una grandissima parte delle terre coltivabili a profitto di pochi proprietari, mettendo fine all'agricoltura comunale che aveva prevalso fino ad allora. La IV sezione del primo libro del Capitale è dedicata alla descrizione di questo processo storico, l'espropriazione dei produttori, dove l'appropriazione delle tecniche di produzione da parte della borghesia ha portato all'autonomizzazione del capitale attraverso la sua meccanizzazione e l'estensione del lavoro morto (le macchine).
Se lo spettacolo è davvero un'«ideologia economica», Debord a questo aggiunge che «gli elementi ideologici non sono mai stati delle semplici chimere» [*25], e che la relazione di di sfruttamento costituisce il suo vero e proprio punto nevralgico, la radice materiale dello spettacolo, dalla quale derivano le altre forme di alienazione: «la sopravvenuta separazione tra l'attività reale della società e la sua rappresentazione, è una conseguenza delle separazioni in seno alla società stessa» [*26]. È pertanto il proletariato, in quanto esso si trova di fronte alla necessità vitale di avere un salario per poter soddisfare i suoi bisogni ed è al centro del processo di produzione da cui emerge l'alienazione, e che viene colpito in pieno viso la frusta del dominio dello spettacolo. Nel modo di produzione capitalista, questo è di certo un rapporto sociale universale, ma l'esperienza concreta dello sfruttamento (che a volte può persino arrivare a coprire delle realtà estreme nelle regioni post-coloniali, come le miniere di coltan congolesi o le fabbriche tessili in Bangladesh) lo rafforza ancora ulteriormente.
Accoppiata a quelli che sono i suoi interessi immediati nella crisi, questa posizione cruciale all'interno dei rapporti di produzione, in quanto motore della contraddizione capitalistica, conferisce solo al proletariato la possibilità di porre fine allo spettacolo nel suo insieme. Di conseguenza, l'operato dei situazionisti consisteva nel riaffermare la centralità del proletariato nel processo rivoluzionario. Lungi dal pretendere di formare un'avanguardia che prefigurasse, essa stessa, la «realizzazione della filosofia», un documento interno all'IS ricordava che «sono i Consigli [operai] che dovranno essere situazionisti».
Testi come "Della miseria nell'ambiente studentesco" o "Il militantismo visto come stadio supremo dell'alienazione" negano ogni potenzialità sovversiva all'ideologia reificata che viene smerciata dagli estremisti di sinistra - qui, rispettivamente, gli studenti e i militanti - che aspirano a trovarsi un passo avanti rispetto al movimento reale [*27]. Non è nella loro pratica militante riutilizzata che risiede la possibilità di un superamento dell'esistente, ma piuttosto in una rottura qualitativa di quello che è il corso della lotta di classe alla quale tutto il proletariato contribuisce; perciò si tratta solo del fatto che «lo spettacolo viene spruzzato a partire dall'attività autonoma di una parte avanzata che nega i suoi valori» ("Il declino e la caduta dell’economia spettacolare-mercantile").
Debord prende nota del fatto che lo spettacolo è totalitario e che la sua presa sugli individui ha raggiunto uno stadio inedito, indebolendo le speranze di un'emancipazione proletaria a partire da quella coscienza di classe come la intendeva Lukacs. Ma «il lavoro della critica rivoluzionaria non è di certo quello di indurre le persone a credere che la rivoluzione sarebbe diventata possibile» [*28]. Al contrario, l'estendersi dello spettacolo porta a pensare all'estensione, in altri domini diversi dalla sfera produttiva, delle lotte sociali, che aprirebbero la strada a nuove prospettive rivoluzionarie. Oltre al concetto di vita quotidiana, i situazionisti insistevano soprattutto sulla necessità del «superamento dell'arte», che vedevano come una forma di alienazione, in quanto attività separata e professionalizzata. Bisogna rompere le scissioni, generalizzare l'attività creativa perseguendo la distruzione dei codici estetici che erano già stati attaccati dalle precedenti avanguardie artistiche (i surrealisti, i dadaisti, i lettristi): «non ci sono più artisti, dal momento che tutti quanti lo sono. L'opera d'arte a venire, è la costruzione di una vita emozionante» [*29].
Limiti della teoria situazionista
Malgrado l'interesse suscitato da Debord in un'epoca in cui il marxismo-leninismo era ancora egemonico nelle cerchie intellettuali, la Società dello Spettacolo non avrebbe certo potuto anticipare la ristrutturazione del capitale che era sul punto di avvenire nel decennio successivo, e produrre quindi una teoria del capitalismo che fosse adeguata al 21° secolo. La 172a tesi della Società dello Spettacolo menziona l'«atomizzazione dei lavoratori che le condizioni urbane di produzione avevano pericolosamente riunito», ma non riesce (e avrebbe potuto farlo?) a trarre le conclusioni riguardo la necessità di rimettere in discussione il paradigma programmatico consiliarista che Debord non ha mai messo in discussione. (In questo articolo) abbiamo delineato quali sono stati i contorni delle conseguenze della ristrutturazione degli anni '70.
A partire da questo, l'IS proclama che l'avvenimento del comunismo significherà la fine di ogni mediazione spettacolare, l'abolizione di ogni rappresentazione politica, in quanto «laddove c'è comunicazione, non c'è Stato», ma paradossalmente afferma che i consigli operai dovrebbero «concentrare in sé tutte le funzioni di decisione e di esecuzione». In realtà, l'affermazione positiva del proletariato in quanto classe in una sfera politica, costituisce di già una separazione intrinseca.
Ostacolo pernicioso alla focalizzazione teorica sulle astrazioni, Lukacs dà prova di una certa nostalgia per le società pre-capitaliste, deplorando alcuni aspetti del socialismo primitivo; ragion per cui, sosteneva una ritorno all'«autenticità» del valore d'uso, il quale a suo avviso nel Medioevo era ancora vivace e «pieno di senso», poiché favoriva l'«unità organica» vista come in opposizione al «calcolo» moderno. Da parte sua, Debord, nel suo Rapporto sulla Costruzione di Situazioni, evoca la «decadenza borghese». Questa retorica reazionaria era già stata descritta da Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista. Se sotto il feudalesimo le relazioni sociali tra servo e signore erano innegabilmente più dirette ed evidenti, erano nondimeno estremamente violente. Un ritorno al passato non è né desiderabile, né storicamente possibile.
Parallelamente, le tesi situazioniste conservano una concezione deterministica della Storia che giustifica i precedenti modi di produzione che vengono visti come necessari all'instaurazione del comunismo. Lo sviluppo delle forze produttive, con una particolare attenzione all'automazione integrale del processo di produzione, avrebbe aperto la strada alla possibilità di una «società del tempo libero» nella quale il tempo libero sarebbe stato ottimizzato (il «valore d'uso della vita»; IS, 1960).
- In primo luogo, questo postulato secondo cui le condizioni del comunismo vengono create attraverso lo sviluppo della tecnologia borghese, ignora il carattere intrinsecamente capitalista di quest'ultima che la rende, in quanto tale, irrecuperabile. L'insieme del processo di produzione è determinato dalla logica della valorizzazione, dalle tecniche utilizzate sul contenuto qualitativo delle merci. Per quanto «socialista», una fabbrica rimane una fabbrica.
- Inoltre, una simile opposizione tra lavoro e tempo libero è inquadrata socialmente, e in una società comunista non avrebbe ragion d'essere. L'anarchico Fredy Perlman illustra il problema facendo uso di una metafora che si avvale degli animali: un orso sta camminando nel bosco, si gratta la schiena contro gli alberi, schiaccia gli insetti e incappa in un ruscello con dentro dei pesci. L'orso ha fame e decide che è arrivato il momento di prendere un pesce. Entra in acqua e dopo qualche tentativo ne acchiappa uno. Mangia il suo pasto, quando il sole comincia a tramontare. Qual è il momento in cui possiamo chiamare lavoro questa o quella attività dell'orso? Pescare è divertente? O si tratta di lavoro? [*30]. Nel comunismo, la produzione ed il consumo sono inestricabilmente legati in un'attività che rende obsoleto qualsiasi allineamento a dei riferimenti contabili o standardizzati, poiché risponde proprio a quelli che sono dei bisogni concreti.
Negli anni '60, la disillusione dello stalinismo ha provocato un rinnovato interesse per i marxismi eterodossi, e le teorie situazioniste sono il prodotto dell'effervescenza delle lotte sociali di quel periodo. Anche se esse sono state in grado di mettere in luce quelli che erano dei settori fino ad allora inesplorati della critica sociale, rimangono però prigioniere della loro epoca e si situano all'intersezione di due cicli di lotta, attraversati da molteplici contraddizioni che non sono mai state in grado di risolvere. Il declino finale del programmatismo finirà per portare a termine la ratifica della loro obsolescenza, e in tal modo i loro apporti teorici potranno essere ripresi, discussi, criticati e finalmente superati.
- "Agitations" - 11 novembre 2019 -
NOTE:
[*1] - Questo piccolo gruppo di artisti e di intellettuali europei si forma intorno a a Debord nel 1957, e pubblica una rivista con lo stesso nome a Parigi, fino al 1969, prima di auto-dissolversi nel 1972. Verrà qui usata, in tutto il testo, l'abbreviazione IS.
[*2] - Avvertenza alla terza edizione francese de la Société du Spectacle.
[*3] - http://www.gaullisme.fr/2010/10/22/%C2%ABde-gaulle-excellent-antidote-a-la-societe-du-spectacle%C2%BB/
[*4] - https://www.grazia.fr/culture/series-television/cyril-hanouna-est-il-le-nouveau-guy-debord-836141
[*5] - Prima tesi de La Società dello Spettacolo.
[*6] - Differenza tra il valore delle merci prodotte ed il prezzo che viene pagato per i salari, da cui traggono vantaggio i capitalisti.
[*7] - Quarta tesi de La Società dello Spettacolo.
[*8] - Concetto coniato da Debord per contraddistinguere quelle che erano le rivalità imperialiste durante la guerra fredda tra il capitalismo burocratizzato sovietico (spettacolare concentrato) rispetto alle democrazie liberali borghesi alleate agli Stati Uniti (spettacolare diffuso). Si tratta della medesima sostanza sociale spettacolare che governa questi due regimi di accumulazione, in apparenza antagonisti, ma che avviene secondo modalità politiche diverse.
[*9] - Temps Libre, Thèses sur la société marchande.
[*10] - Centoventiduesima tesi de La Società dello Spettacolo.
[*11] - Questa rivista, pubblicata dal 1963 al 1969, si opponeva ai nuovi orientamenti di Castoriadis, il quale aveva rotto con Marx e che si opponeva al concetto di «distruzione del capitale» sostenendo la «gestione operaia e democratica» dell'economia.
[*12] - Citato da Giorgio Agamben ne "Il cinema di Guy Debord".
[*13] - Primo numero dell'IS, Definizioni.
[*14] - Ci riferiamo qui ad un nostro articolo su un argomento che concerne il concetto di valore. Ci limitiamo a ricordare qui che lo si può definire come tempo di lavoro medio socialmente necessario a produrre una data merce.
[*15] - Karl Marx, "Manoscritti economico-filosofici del 1844".
[*16] - Nella cultura popolare, il film di Chaplin, "Tempi Moderni", e di certo l'esempio che colpisce di più.
[*17] - Da una lettera a Marx Dachy scritta nell'anno della morte di Dbord, nel 1944.
[*18] - Qui Debord aderisce alla tesi di Adorno, principale teorico della Scuola di Francoforte all'epoca assai in voga nell'ambito marxista eterodosso, anche se non lo citerà mai esplicitamente. Pierre-André Taguieff attribuisce il rifiuto della sua candidatura all'IS alle citazioni di Adorno e di Günther Anders, di cui lui aveva fatto uso, denunciando un «settarismo» quasi competitivo.
[*19] - Qui non affermiamo che esisterebbe una forma «neutra» di denaro, o che esso sarebbe un comodo strumento, e che si tratterebbe di riscoprirlo.
[*20] - Karl Marx, Grundrisse.
[*21] - Titolo del nono, ed ultimo, capitolo de La Società dello Spettacolo.
[*22] - Quarantesima tesi de La Società dello Spettacolo.
[*23] - "UN MONDE SANS ARGENT: LE COMMUNISME", de Les Amis de 4 Millions de Jeunes Travailleurs (1975-6) - https://libcom.org/files/Un_monde_sans_argent.pdf
[*24] - Centocinquantovesim tesi de La Società dello Spettacolo.
[*25] - Duecentododicesima tesi de La Società dello Spettacolo.
[*26] - Anselm Jappe, "Guy Debord".
[*27] - Il movimento reale designa il comunismo secondo quella che è la formula di Marx ne "L'Ideologia tedesca": «Il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente». Pertanto non è né un ideale regolatore né un modello di società da realizzare, ma piuttosto il processo storico della lotta di classe, attraverso cui il proletariato tende ad abolire lo sfruttamento al quale è sottoposto.
[*28] - Da una lettera a Jean-François Martos (1987).
[*29] - Raoul Vaneigem - "Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni".
[*30] - Tradotto da: https://ediciones-ineditas.com/ultra-left-faq/
fonte: Agitations