Maestro del romanzo americano del secondo dopoguerra, Premio Nobel per la letteratura, modello di stile e di pensiero per generazioni di scrittori e per tanti eredi più o meno dichiarati, da Philip Roth a Jonathan Franzen, Saul Bellow è forse anche l’ultimo, grande autore per il quale la creazione letteraria e la dimensione pubblica hanno rappresentato due entità imprescindibili e complementari. Così, all’inesauribile vena di narratore e commediografo si è sempre accompagnata una intensa produzione saggistica, ospitata da grandi testate e prestigiose riviste. Nei ventuno saggi qui raccolti, scritti nell’arco di un cinquantennio, Saul Bellow prende di petto i grandi temi della modernità e ci racconta il Secolo Americano con una lucidità di sguardo, un rigore, un’ironia e una passione che hanno pochi eguali nella letteratura del suo tempo, e non solo. Che si tratti di recensioni, ritratti di artisti e colleghi – da Hemingway a Roth, da Ellison a Salinger –, riflessioni sul rapporto tra scrittore e società, conferenze sull’identità ebraica, autoritratti carichi di ironia, la puntualità dell’analisi e l’eleganza dello stile si ripropongono ogni volta inalterate, e offrono, a poco più di dieci anni dalla morte, un’occasione preziosa per ripercorrere un’attività fertile, intensa e contraddittoria, che continua ancora oggi a produrre grandi frutti.
(dal risvolto di copertina di: Saul Bellow, "Troppe cose a cui pensare. Saggi 1951-2000", Sur, 2017, 356 pp., euro 20.)
Saul Bellow, il mondo in bilico
- di Luigi Azzariti-Fumaroli -
Nell’ultimo suo romanzo, Ravelstein (Mondadori 2000), Saul Bellow ha ammesso che ha “sempre avuto un debole per le note a piè di pagina. Più di un testo, secondo me, è stato riscattato da un’intelligente o perfida nota a piè di pagina”. Una confessione che si concilia perfettamente con il suo piacere per la digressione, professato in un più occasioni, ma forse mai tanto scopertamente quanto in certe lettere a Bernard Malamud (pubblicate, con altre, da Viking nel 2010) in cui dichiara il suo amore per lo stile di Flaubert, capace di combinare insieme ascetica economia (tratto questo già apprezzato da Walter Pater, nel 1918, in Appreciations) a una “modernista” (così Lukács) serie di deviazioni del discorso, e in alcuni saggi, a cominciare da Le distrazioni di un narratore, del 1957 (ora proposti da Sur nella meticolosa traduzione di Luca Briasco, pur compiendo una ragionata cernita rispetto all’edizione americana curata da Benjamin Taylor nel 2015), nei quali si sostiene che sono soprattutto le divagazioni a dare forza ad un’opera. La quale del resto, nell’epoca moderna, non può che riflettere “le ondate di dettagli disgreganti che ci travolgono” e di cui unico filtro e principio ordinatore deve riuscire a essere una rutilante immaginazione assistita da un’intelligenza tagliente e ironica.
Nello Scrittore fantasma (1979) Philip Roth – verso il cui primo romanzo Goodbye, Columbus (1959), Bellow si mostra tiepidamente favorevole, ma che in seguito incensa senza (o quasi) remore – ha descritto il suo dichiarato, ideale maestro come intento a trascorrere il proprio tempo girando e rigirando le frasi, così da riuscire a trovare la combinazione perfetta: quella che consente almeno di avvicinarsi all’originalità e alla concitazione di ciò che accade veramente. Compito dello scrittore – osservava Bellow già nel ’54 – deve essere infatti quello di “restituire al lettore una duratura intuizione di ciò che è davvero reale e importante”. Il che non significa accodarsi alle pleiadi di autori che professano un realismo ora più ora meno manierato, o artificiosamente speziato da esotiche fatazioni, quanto provare a riscattare la posizione dello scrittore dalla “obsolescenza” nel quale l’ha relegato la moderna società dei consumi e dell’efficienza.
Nella scelta di dedicarsi alla scrittura Bellow – il cui primo romanzo, nel ’44, significativamente s’intitola Dangling Man (L’uomo in bilico) – rinviene anzitutto la possibilità di coltivare, in luogo di una coerenza imposta per convenzione attraverso un “sistema” ideologico, sociale e culturale sempre più omogeneizzante, un pensiero che si assuma il rischio di barcollare, scivolare, e precipitare. Di qui la sua diffidenza per l’allora nascente strutturalismo, severamente criticato in più luoghi di questa antologia in ragione della sua pretesa di risolvere la complessità di un’opera ricorrendo all’accidentalità dei segni che vi compaiono; e, all’opposto, l’apprezzamento più schietto per la narrativa ebraica, della quale Bellow elogia soprattutto la capacità di rimanere estranea a qualsiasi “perfetta unità di tempo e di luogo”. Nel saggio sull’Arte ebraica del racconto, risalente alla metà degli anni Sessanta, una particolare attenzione è al riguardo riservata alla figura di Isaak Babel’, ravvisando nella sua opera, “scritta in russo per ragioni che mai potremo pretendere di capire appieno”, la capacità di raccontare il disparato “in tutta la sua impurità, tragicità e speranza”.
Da questo stesso impasto – ricorda Bellow ormai ottuagenario – era nato nel ’53 il romanzo che forse gli è più caro, Augie March. In esso trovava sfogo un’incontenibile “brama di dettagli”, alimentata dal tentativo di “gestire centinaia, se non migliaia di impressioni combinate una con l’altra”, valendosi di una lingua sulla quale poteva esercitarsi un dominio pressoché assoluto. La regola che ispira l’eroe eponimo è la medesima che Bellow testimonia di seguire lungo l’intera sua parabola esistenziale: sottrarsi all’influenza delle idee altrui. Come ha osservato J.M. Coetzee in Lavori in corso (Einaudi 2010), allo stesso modo del suo autore Augie è un idealista per il quale “il mondo è un complesso intreccio di idee” esprimibile soltanto per accumulazione.
In questi saggi, dove pure si ricorre sovente a tale procedimento, si rinviene tuttavia una maggiore concessione all’intonazione orale, lasciando scoprire più manifeste tracce della prosa di gusto settecentesco che fin dai suoi esordi pervade il dettato di Bellow. È specialmente questa la lezione di Diderot, da Bellow eletto non a caso a proprio paradigma. Nell’autore di Jacques le fataliste si incontra la messa “in primo piano – ha scritto Italo Calvino in Perché leggere i classici – della schermaglia fra l’autore che sta raccontando la sua storia e il lettore che non attende altro che d’ascoltarla”. Il “realismo” che Roth attribuiva al suo mentore era in tal senso più che una poetica, un metodo di conoscenza che lo scrittore si propone di volta in volta di illustrare e condividere. “Gli aspiranti scrittori – nota Bellow nell’ultimo suo saggio – mi rivolgono spesso domande di carattere pratico […]. Sono tutte domande serie, ma non sono quelle veramente importanti, e poiché accade di rado che qualcuno le formuli, ho pensato fosse una buona occasione per farlo io. Ma non intendo spingermi oltre, perché il mio compito, come ebbe modo di affermare Defoe, «non è predicare, ma raccontare»”.
- Luigi Azzariti-Fumaroli - Pubblicato su Alfabeta2, l'8 novembre 2017 -
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