sabato 30 giugno 2018

Adamo e Giulietta, ovvero Eva e Romeo

GreenBlatt

Narrata in pochi versetti all’inizio della Genesi, la storia di Adamo ed Eva ha avuto, nei secoli, un influsso determinante sulle concezioni delle origini e del destino umani. Pochi racconti si sono dimostrati così tenaci, così diffusi e così “reali”. L’insistenza sulla verità letterale della narrazione biblica diventò uno dei pilastri dell’ortodossia cristiana e i pittori rinascimentali conferirono un persuasivo senso di realtà ai primi esseri umani e così alla loro storia. Ma a che cos’è dovuta la sua fortuna? Perché ha affascinato tante menti brillanti e tanti artisti straordinari? È la domanda che si pone Stephen Greenblatt in “Ascesa e caduta di Adamo ed Eva”, a cui risponde facendo rivivere il racconto della nascita dell’umanità attraverso le sue numerose e diverse interpretazioni: dagli antichi rabbini ai protocristiani, dai codici di Nag Hammâdi agli esegeti coranici, da Agostino a Tommaso, da Milton a Whitman e Mark Twain, passando per van Eyck, Masaccio, Hieronymus Bosch, Dürer e Michelangelo, in una galoppata mozzafiato tra capolavori dello spirito e della fantasia. “Gli uomini non sanno vivere senza storie. Alcuni di noi le creano di professione e altri – compreso il sottoscritto – dedicano la vita adulta a cercare di comprenderne la bellezza, il potere e l’influenza.” Oggi, per molti di noi, quella storia è un mito. L’Illuminismo e Darwin hanno svolto il loro compito, e la comprensione delle origini è stata liberata dalla morsa di un’illusione un tempo potente. “L’uomo e la donna nudi nel giardino, con strani alberi e il serpente parlante, sono tornati nella sfera dell’immaginazione da cui erano originariamente emersi.” Ma non per questo hanno perso il loro fascino. Adamo ed Eva sono al tempo stesso un’incarnazione della responsabilità e della vulnerabilità umane, della possibilità di scegliere la ricerca della conoscenza disobbedendo alla massima autorità oppure, in alternativa, della possibilità di lasciarsi sedurre fino a operare una scelta insensata, dalle conseguenze catastrofiche e indelebili. “Tengono aperto il sogno di un ritorno, in qualche modo, un qualche giorno, a una beatitudine che è stata perduta. Possiedono la vita – la peculiare, intensa, magica realtà – della letteratura.” La stessa che trapela da ogni pagina di questo libro.

(dal risvolto di copertina di: Ascesa e caduta di Adamo ed Eva, di Stephen Greenblatt, Rizzoli.)

Shakespeare batte Bacone nel rispondere alle domande sulla natura dell’uomo
- di Giulio Giorello -

Nella Bibbia Dio sembra convinto di aver fatto «cosa buona» creando il primo uomo e la prima donna. Quando ho letto il libro di Stephen Greenblatt Ascesa e caduta di Adamo ed Eva (Rizzoli) mi ha colpito il gesto di ribellione di Adamo: «Odio Dio». Era quel che gli aveva messo in bocca l’ex monaco agostiniano Lutero, peraltro così attento alla parola biblica. Ma Greenblatt, riprendendo il titolo del celebre poema di John Milton, concludeva che «il Paradiso terrestre non era affatto perduto, piuttosto non era mai esistito». Dello straordinario Giardino dell’Eden, almeno come è stato rappresentato da poeti e narratori soprattutto di cultura inglese, Greenblatt, che insegna letteratura alla Harvard University e che mercoledì 27 giugno sarà a Venezia, si è occupato a lungo, arrivando alla tesi che la storia di Eva e di Adamo ha preteso di spiegarci un «fatto» che forse non è mai avvenuto. Ho l’occasione di discuterne proprio con lui, muovendo dalla differenza tra letteratura e scienza, ovvero tra due modi talvolta contrapposti di decifrare e interpretare la realtà.

In che cosa consiste davvero la diversità tra il letterato e lo scienziato? Letteratura e scienza sono destinate a combattersi?

«La nave della letteratura ha le vele gonfie di un vento millenario. La scienza, in confronto, è ancora adolescente. Quando William Shakespeare attingeva alla sapienza secolare del mondo classico greco e latino, Francesco Bacone era ancora incerto sulla via che avrebbe imboccato una scienza che si proponeva il benessere dell’umanità».

Lei, dunque, non è certo tra coloro secondo cui Shakespeare faceva da prestanome al filosofo della natura…

«Non mi riconosco per nulla in quella particolare concezione dell’autore dell’Amleto, anche perché se Shakespeare si appoggia a una grande tradizione, Bacone, nella sua Nuova Atlantide (come altrove), vuole piuttosto inaugurarne una nuova. Ma gli inizi sono sempre difficili».

Del resto, Bacone non guardava nemmeno con troppa simpatia a figure come Giovanni Keplero e Galileo Galilei, colpevoli ai suoi occhi di perdersi in eccessive sottigliezze matematiche...

«È davvero così. Galileo aveva anche un suo particolare senso del teatro, come mostra la disputa che mette in scena nel Dialogo sui massimi sistemi del mondo. Ma a mio parere la letteratura, specie quando si tratta di indagare la natura umana, con tutti i suoi misteri, dalla sofferenza all’amore, e di darci qualche risposta alla domanda che non riusciamo a eludere, quella del significato della vita, ci dà delle risposte più coinvolgenti. Penso appunto al teatro shakespeariano, ma anche allo stesso Milton. E Shakespeare mostra talvolta di non ignorare un grande dibattito che oggi noi chiameremmo scientifico, il conflitto tra tolemaici e copernicani, come ha mostrato bene Gilberto Sacerdoti nel bellissimo libro Nuovo cielo, nuova terra (il Mulino, 1990)».

Quali sono, allora, le relazioni che possono emergere tra il mito e la scienza? È ancora legittimo pensare che l’uno tramonti quando l’altra sorge?

«Il mito non va confuso con la favola o la leggenda: è una modalità di conoscenza che si rivolge all’interno dell’animo umano, laddove la scienza indaga l’esterno. Il mito, insomma, nell’accezione data da Mircea Eliade, si può intendere come la fonte di ogni forma di religiosità apparsa su questa Terra e, con la sua concezione ciclica e ricorrente delle vicende umane si rivela forse ben più efficace di una concezione troppo lineare della crescita della conoscenza».

Le magnifiche sorti e progressive su cui ironizzava Giacomo Leopardi…

«Dico questo perché una delle cose che la vita mi ha insegnato è che non puoi mai prevederla. Uno pensa che le cose stiano andando e debbano andare in una direzione “razionale”, e all’improvviso tutto prende una piega inaspettata: la direzione imprevista! Questo è per me contemporaneamente fonte di disappunto e di piacere. Sono un professore di letteratura, e quando, all’età di vent’anni, ero un combattivo e convinto marxista, mi sentivo sicuro che le cose andassero secondo la Ragione, ma ora so che non è così, e dunque avevo torto allora. Quindi so che è un bene che le cose vadano come devono andare, anche se, talvolta, ciò può risultare frustrante. Comunque, ci tengo a precisare che, per quanto possa apprezzare il mondo dei miti, e la loro numinosa bellezza, quando mi ammalo e ho bisogno di curarmi, mi rivolgo a un dottore e non a uno sciamano. Se, a volte, posso essere scettico sui risultati della scienza, non lo sono sui metodi. Del resto, vivo in un mondo che è pieno di brillanti scienziati, persone che hanno saputo mettere bene a frutto le conoscenze ereditate dai predecessori. Nella stessa biologia evoluzionistica — che, come ho avuto modo di scrivere in un mio libro, pretende di aver confutato la storia di Adamo ed Eva — non troviamo delle risposte così articolate e soddisfacenti quanto quelle che ci vengono offerte dalle grandi opere letterarie, se le sappiamo leggere bene».

Su che cosa sta lavorando adesso?

«Uno dei problemi che mi affascinano di più è come sia nata e si sia faticosamente affermata l’idea di tolleranza in Occidente».

Sono portato a credere che la tolleranza sia un concetto moderno. Non voglio però sostenere che nelle società antiche proliferassero troppe forme di intolleranza. Anzi, anche nel mondo pre-greco c’era almeno un atteggiamento che considerava come «ospiti» coloro che avevano miti e riti differenti.

«Mi viene in mente una testimonianza del mondo classico, che racconta di tre dotti amici, due cristiani e un pagano, che approfittano di un giorno di pausa nelle loro ordinarie occupazioni per andare al mare e arrivano alla spiaggia di Ostia, dove il clima è mite, il mare calmo e la spiaggia piena di fanciulli che giocano spensierati. Qui si imbattono nella statua di un’antica divinità. Il pagano le manda un bacio per onorarla, il che irrita uno dei cristiani, che chiede all’altro se non sia il caso di intervenire per rimproverare quel nostalgico degli Dei di un tempo. Essendoci rapporti di amicizia e trattandosi comunque di un’anima confusa, non era forse loro dovere riportarlo sulla retta via? Il pagano rimane sorpreso e turbato dalle loro ammonizioni, e il fatto che quest’opera sia datata 190 o 192 d.C. ne fa una delle testimonianze più antiche del genere. Questo è un segno di come si spense quello spirito di accoglienza che abbracciava tutti gli Dei, e di come cominciò a prendere forma un sentimento di angoscia provocato da un unico Dio, che era per di più “geloso”».

Una domanda su Lucrezio e il suo «De rerum natura», che è un singolare connubio tra un’arte poetica raffinata e un atteggiamento scientifico poi interpretato come profondamente secolarizzato. Lucrezio dispiega sotto gli occhi stessi di noi moderni, in modo potente, un universo in cui dominano atomi e vuoto. In me i suoi versi suscitano sempre un’intensa emozione, e in lei?

«Certamente sì. Dal punto di vista scientifico, ovviamente, le sue intuizioni hanno fatto il loro tempo. Però, hanno reso un gran servizio al mondo. Ora che ci confrontiamo con nozioni come quella di “materia oscura”, se la paragoniamo agli atomi immaginati dalla tradizione che va da Leucippo e Democrito fino a Epicuro e a Lucrezio stesso, il De rerum natura, per quanto brillante, non può esserci di grande aiuto. Ma senza le idee metafisiche degli antichi atomisti, Lucrezio incluso, non ci sarebbe stata la catena di ripensamenti che ha portato alla fisica delle particelle cosiddette elementari».

- Guido Giorello - Pubblicato sulla Lettura del 24/6/2018 -

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