Il volume presenta per la prima volta lo scambio epistolare che Hannah Arendt e Günther Anders ebbero tra il 1939 e il 1975, insieme ad alcuni testi che i due pensatori redassero insieme o in cui trattarono tematiche comuni. Sia le lettere sia i testi fanno emergere la relazione personale e intellettuale dell’ex coppia di sposi e gettano una luce su alcuni illustri contemporanei come Walter Benjamin, Theodor W. Adorno e Martin Heidegger. Il libro è anche una preziosa testimonianza del processo di espulsione, fuga ed emigrazione degli intellettuali ebrei dalla Germania nazista.
Questo carteggio avvincente è al contempo un diario introspettivo, un saggio letterario e un dialogo filosofico tra due grandi figure del Novecento il cui pensiero, per chi tenti di interpretare l’attualità, rappresenta un indispensabile punto di orientamento. Di qui l’importanza delle lettere […] e dei testi acclusi.
Sia per Hannah Arendt che per Günther Anders le lettere non sono un documento ulteriore, una testimonianza privata. Vita e filosofia sconfinano, per entrambi, l’una nell’altra. La riflessione filosofica traspare ovunque, anche nell’intervento giornalistico, nella recensione di un romanzo, e d’altra parte la vita è improntata alle idee, alle convinzioni, alle speranze. Si tratta, poi, di due filosofi che pensano quasi ad alta voce, in uno scambio incessante con gli altri. E la corrispondenza lo prova.
Nel caso di Arendt si può ormai dire, dopo la pubblicazione di gran parte dei suoi carteggi […] che certo anche l’esilio, quella lunga esistenza nomade, la costrinse a scrivere una enorme quantità di lettere – se non avesse voluto rinunciare all’intreccio di rapporti affettivi e intellettuali, in cui si era andata articolando la sua esistenza tra una sponda e l’altra dell’Oceano. Diversamente stanno le cose per Anders, scrittore non meno prolifico, ma umanamente più introverso, più incline a interrompere vincoli e relazioni, anche amicizie di vecchia data.
Non è quello che avviene nel rapporto con Arendt, durato tutta la vita. Il carteggio, che va dal 1939 al 1975, sebbene incompleto (dato che alcune lettere sono andate per sempre perdute), apre un nuovo capitolo nella storia del loro legame sentimentale, della loro complicata convergenza filosofica. Quel che colpisce, forse perché inattesa, è l’evidente asimmetria, la disparità tra i due, l’amore non ricambiato. Günther non sarà mai quel che Hannah è per lui – sempre sino alla fine, sino all’ultima lettera.
[…]
Compare Heidegger nel carteggio? Solo due volte, due rapide battute polemiche. Arendt scrive il 31 maggio 1958 a Anders, che lei ritiene letteralmente fissato con il tema dell’atomica: «Parleremo a voce della morte nucleare. Il fatto che Heidegger si sia accodato non mi sorprende neanche un po’». Lui replica piccato: «La tua osservazione [...] mi rimane incomprensibile nella sua nuda fatticità».
Convergenza filosofica, ma cammini paralleli, che sembrano non toccarsi. Rari e sporadici i rinvii reciproci, quasi casuali. Arendt scorge lo scandalo della modernità nell’universo concentrazionario, dove per la prima volta, con un esperimento senza precedenti, l’uomo è stato trasformato in non-uomo, Anders lo riconosce invece nell’annientamento totale dell’esistenza umana mediante l’atomica. Questa, certo, è un’importante differenza. Né si possono dimenticare le critiche, spesso implicite, rivolte da Anders sia al concetto di «totalitarismo» sia a quello di «banalità del male». Eppure molte sono le affinità che li uniscono: non solo i temi affrontati, ma anche l’accento critico, il timbro appassionato, lo stile quasi giornalistico e quell’orizzonte politico della loro fenomenologia.
(dal risvolto di copertina di: Hannah Arendt e Günther Anders: Scrivimi qualcosa di te. Lettere e documenti, a cura di Nicola Zippel, Carocci, pagg. 194, euro 24)
Hannah Arendt e Günther Anders. Scrivimi qualcosa di te
- di Francesca Rigotti -
Si conobbero nel 1925 all'Università di Marburg, dove entrambi frequentavano Filosofia, al seminario di Heidegger: Hannah Arendt, diciannovenne (era nata nel 1906) e Günther Stern (poi Anders, diremo come e perché), che aveva qualche anno di più (era nato nel 1902). Si persero di vista per un periodo, proprio quello in cui Hannah Arendt ebbe una relazione con il loro professore Martin Heidegger. Si ritrovarono a una festa e nel 1929 si sposarono in un sobborgo di Berlino ma il loro matrimonio, una «comunità di studio e di lavoro», durò poco. Nel 1933, dopo l'incendio del Reichstag, Günther emigrò a Parigi, dove Hannah lo seguì. Dopo che Anders, nel 1936, ebbe spostato il luogo dell'esilio a New York, il matrimonio venne sciolto, per lettera, nell'agosto del 1937. Eppure i due rimasero costantemente in contatto, come testimoniano le lettere raccolte e curate da Kerstin Putz in questo volume, dal cui titolo in lingua italiana è stato espunto l'aspetto della concretezza: Hannah Arendt, Günther Anders, Scrivimi qualcosa di te. Lettere e documenti, Roma, Carocci editore, 2017, pp. 194. L'edizione originale suona invece: Schreib doch mal hard facts über Dich, München, Beck, 2016, Scrivimi qualcosa di concreto (hard facts) di te.
La prima lettera della raccolta è datata 19 settembre 1939, è firmata da Hannah Arendt ed è indirizzata a Günther Anders, come lo sono le venti lettere successive, sempre prive di risposta perché le missive di Anders di quel periodo sono andate perdute. La prima lettera a firma di Anders, del gennaio del 1941, non è nemmeno rivolta a Hannah Arendt ma allo scrittore ebreo Lion Feuchtwanger, fiero critico del nazismo, che si trovava negli Stati Uniti, come lo stesso Anders. Questi chiede aiuto al conoscente per organizzare la fuga negli USA di Hannah Arendt, sua madre Martha Arendt e suo marito Heinrich Blüchers, da lei conosciuto a Parigi nel 1936 e sposato quattro anni dopo.
Gerettet sind, salvi sumus
L'opprimente senso di angoscia, minaccia e tensione di quei terribili anni sembra risolversi, similmente a ciò che avviene con l'accordo finale di un brano musicale, nelle parole del telegramma – quivi riportato – col quale Hannah Arendt annunciava proprio a Günther Anders l'arrivo dei tre sul suolo americano, quasi un grido liberatorio: «SIND GERETTET». Seguiva l'indirizzo di New York e la firma di lei, Hannah. SIND GERETTET, SIAMO SALVI; SALVI SUMUS. Sono le parole dell'apostolo Paolo allorché nella lettera ai Romani (8,24) afferma che i cristiani sono stati salvati nella speranza: In spe salvi (facti) sumus. Hannah Arendt era e rimase ebrea; non era una convertita come Paolo o, ai tempi di lei, Edith Stein. Forse non era nemmeno credente o forse sì. Anders di sicuro non lo era. Ma quel salvi sumus, sind gerettet, sembra davvero un urlo di gioia dopo tanto timore e tremore. Né Arendt poteva non conoscere Paolo, avendo scritto la tesi di dottorato su un filosofo cristiano, Agostino, che di principi paolini era imbevuto.
La lingua inglese
Nella terra della salvezza Arendt si adatta, cosa che si comprende proprio leggendo questo epistolario. La prima cosa che le serve è la lingua del posto, che non aveva mai studiato (conosceva bene il francese, il greco antico e il latino). «Devo imparare l'inglese» – scrive a Anders qualche giorno dopo l'arrivo. La lingua è la più grande preoccupazione, «Dio sa quando la imparerò». La imparò la lingua inglese, Arendt, imparò a scriverla, e imparò a parlarla, pur mantenendo quel forte accento tedesco che Barbara Sukowa riesce a rendere straordinariamente nel film di Margarethe von Trotta (Hannah Arendt, Germania-Lussemburgo-Francia 2012) nel quale l'attrice interpreta appunto Hannah Arendt.
Günther Anders invece la lingua inglese non la imparò mai così bene da sentirvisi a casa, per usare le parole di Martin Heidegger, filosofo non ebreo che pur aveva relazioni amicali con i suoi studenti ebrei, e che con Arendt ebbe addirittura una intensa storia d'amore. Nella sua lingua madre invece Anders scriveva, bene e tanto, e proprio la fecondità della sua scrittura generò lo pseudonimo col quale è noto. Agli inizi degli anni trenta, ancora in Germania, Günther Stern, impossibilitato in quanto ebreo a scrivere la tesi di libera docenza per l'insegnamento universitario, trovò lavoro come giornalista presso il «Börsen-Courier», quotidiano liberale berlinese. Vi scrisse di tutto, dalla violenza sui minori ai romanzi polizieschi a un congresso su Hegel (lo racconta egli stesso in un'intervista a Mathias Greffrath). Finché il direttore, esasperato da tanta abbondanza, lo convocò per dirgli: «Basta, non possiamo andare avanti così, non possiamo pubblicare la metà dei nostri articoli con la firma di Günther Stern!». Allora, rispose tranquillo l'articolista, mi chiami in un altro modo, diversamente (in tedesco anders). E così Günther Stern cominciò a firmare i testi non filosofici con quello pseudonimo, Anders, che divenne poi la firma dominante.
Il carteggio Anders-Arendt
La corrispondenza tra i due, pubblicata per la prima volta nel 2016 in Germania, raccoglie cinquanta lettere del periodo tra il 1939 e il 1975 (anno della morte di Arendt, cui Anders sarebbe sopravvissuto diciassette anni). Ad esse si aggiungono un saggio scritto a quattro mani (Le Elegie duinesi di Rilke, del 1930) come pure due recensioni lunghe, redatte indipendentemente da ognuno dei due autori del libro di Karl Mannheim Ideologia e utopia, seguite da un testo di Anders sul progresso, da due poesie in memoria di Walter Benjamin, una di Anders del 1940 e una di Arendt del 1942, e infine da un breve ricordo di Benjamin, La verità della dizione (1950) di Anders. Il tutto egregiamente chiosato dalla curatrice Kerstin Putz che offre un eccellente commento, chiarendo nelle note ogni riferimento e rendendo questo carteggio intimo-filosofico una lettura appassionante, benché non contenga nulla di esplosivo. Molto più coinvolgenti le corrispondenze di Hannah Arendt con il secondo marito Heinrich Blücher, con gli amici Kurt Blumenfeld e Uwe Johnson, con l'amica geniale Mary McCarthy, o, per gli anni 1936-1940, con Walter Benjamin (di recentissima pubblicazione in lingua italiana da parte di Giuntina: Hannah Arendt-Walter Benjamin, L'angelo della storia. Testi, lettere, documenti, Firenze 2017). Grandi novità dunque questo carteggio non ne fa conoscere; ben illustra comunque il legame tra due importanti figure dell'esilio e del secondo dopoguerra, offrendo un completamento dei ricordi di Anders del matrimonio con Arendt pubblicati nel 2012 dall'editore Beck di Monaco con il titolo Die Kirschenschlacht (La battaglia delle ciliegie).
Vicini e lontani
Una sensazione di vicinanza e di lontananza si trascina lungo le lettere, che si diradano progressivamente mentre Arendt sempre più si afferma come grande teorica della politica, elaborando un proprio impianto lontano dalla teoria critica della scuola di Francoforte, e impostando la propria ricerca personale sulle umane facoltà e capacità: lavorare, fabbricare, agire; pensare, volere, giudicare, raggiungendo col suo pensiero il grande pubblico.
Anche Anders, di cui in Italia si è occupato in maniera antesignana Pier Paolo Portinaro, troverà la sua strada, ma non la fama ambita, con i due volumi di L'uomo è antiquato (1956 e 1980) che si occupano della relazione dell'uomo col mondo dei suoi prodotti, attrezzi e macchine. Anders si interessa dell'essere della tecnica, chiedendosi se l'uomo sia ancora in grado di tenere il passo con le sovrastrutture scientifiche, tecnologiche e industriali da lui stesso costruite, e risponde che no, che caratteristica dell'uomo contemporaneo è l'incapacità di aggiornarsi coi suoi stessi prodotti, cosa che lo rende dipendente dal progresso.
La sua «prometeica» forza creatrice lo conduce progressivamente a perdere il controllo delle sue creazioni. Conseguenza è la distruzione dell'azione autonoma: così si può affermare che il pilota che ha sganciato l'atomica su Hiroshima non ha agito autonomamente ma al più ha preso parte a un’azione che non era in grado di controllare. L'esempio dell'atomica sulle città giapponesi, che Anders avvicina per gravità all'Olocausto, non è casuale, anzi riflette un altro vasto campo di interessi di Anders, l'uso delle armi nucleari, che ne fecero un attivista antiatomico. In una lettera del gennaio 1957 Arendt reagisce entusiasticamente: «il tuo saggio sulla bomba atomica […] è ottimo, la cosa migliore che esista sull'argomento». In fondo Arendt e Anders condividono la critica al mondo del lavoro industrializzato e automatizzato in cui sempre più si affievolisce il sogno di un agire libero e responsabile, nota la curatrice nella postfazione. Ma mentre Arendt espone le sue idee con chiara fermezza e in maniera pacata e non astiosa, Anders sembra non riuscire a superare la rabbia, l'amarezza, l'acrimonia, il sarcasmo che dalla sua vita frustrata si infiltrano nella sua opera.
- Francesca Rigotti - Pubblicato il 21/12/2017 su DoppioZero -
Dopo il divorzio di storia e politica
- di Luca Crescenzi -
Nell’immaginario monoteista – scriveva Hannah Arendt tra i frammenti per il suo libro incompiuto Che cos’è la politica? – può esistere un solo tipo umano fatto a somiglianza di Dio, ma questa idea contraddice l’evidenza della pluralità umana, che è poi il terreno su cui sorge la politica come prassi di mediazione e conciliazione delle differenze. Per questa ragione l’occidente ha concepito l’idea mostruosa di una storia universale in cui l’umanità intera si riduce nuovamente a un unico individuo plurale, mettendo radicalmente in discussione la libertà del singolo e cercando di barattarla con la visione falsamente rassicurante della necessità storica.
È cosa nota che proprio in difesa della differenza e contro il potere omologante delle idee universali Hannah Arendt ha scritto per tutta la vita. Ma la corrispondenza scambiata nel corso di quattro decenni con Günther Anders, il filosofo e scrittore che fu tra il 1929 e il 1936 il suo secondo marito – e che appare ora in italiano con il titolo Scrivimi qualcosa di te Lettere e documenti, insieme ad alcuni testi significativi redatti a quattro mani o nati da un evidente scambio di idee (Carocci, a cura di Kerstin Putz, traduzione di Nicola Zippel, pp. XV-193, euro 24,00) – documentano snodi decisivi di quella vita e il prendere forma del pensiero di Hannah Arendt dal confronto, diventato presto esistenziale, con la forza schiacciante di una storia abbandonata dalla politica e in balia dell’idea totale di se stessa.
Dalla fuga all’esilio
Sono perciò rilevanti, non solo dal punto di vista autobiografico, le lettere degli anni 1939-41 (si sono conservate solo quelle di Hannah Arendt) che testimoniano i primi, durissimi tempi della fuga e dell’esilio, l’impegno della filosofa a favore dei suoi amici e familiari bloccati nel limbo europeo e braccati dalle norme introdotte dal regime di Vichy, e gli sforzi, mai interrotti, di continuare il suo lavoro filosofico anche e proprio nelle condizioni più difficili.
Più ancora che la biografia di un pensiero sempre, imperativamente, vicino alla realtà del tempo e dei luoghi in cui nasce, le lettere e i documenti che le accompagnano testimoniano infatti di un duplice percorso filosofico che, muovendo da analoghi presupposti, giunge a risultati solo apparentemente lontani e, in realtà, paradigmatici per tutta una stagione della filosofia tedesca. Günther Anders e Hannah Arendt hanno avuto percorsi formativi simili: entrambi sono cresciuti filosoficamente nello spirito della fenomenologia e della nascente filosofia dell’esistenza avendo per maestri diretti o indiretti Husserl, Heidegger e Jaspers; e entrambi hanno condiviso lo sforzo della generazione di Weimar di individuare un possibile punto di congiunzione fra filosofia e sociologia come via di mediazione fra assolutezza della ricerca filosofica delle verità e determinazione situazionale della conoscenza.
Fra i documenti più rilevanti contenuti in questa edizione delle lettere ci sono le due recensioni parallele di Arendt e Anders a Ideologia e utopia di Karl Mannheim, uno dei libri decisivi per l’orientamento di quella che sarebbe diventata la coscienza filosofica degli intellettuali tedeschi in esilio e che – negli stessi anni – veniva recensito anche da Horkheimer, Krakauer, Marcuse e Tillich.
Nelle due recensioni (e specialmente in quella nettamente più solida dal punto di vista sistematico di Hannah Arendt) colpisce lo sforzo di salvaguardare la filosofia dalle relativizzazioni sociologiche di Mannheim, in nome della difesa del singolo e del suo diritto a riflettere distinguendosi intellettualmente dalla condizione storicamente determinata del «soggetto collettivo».
I riferimenti a Benjamin
«Il singolo esiste non solo associato a questo soggetto – scrive Arendt – (…), ma anche «in una indipendenza, che nasce quando non si trova in sintonia con l’essere sociale a cui appartiene». È una rivendicazione già perfettamente elaborata della posizione che la filosofia di Hannah Arendt e di Anders rivendicherà nei decenni seguenti: prima nella rappresentazione del pensiero totalitario e dei suoi meccanismi di condizionamento, poi nelle riflessioni sulla realtà della tecnica e sulle trasformazioni che la bomba atomica produce sulla percezione stessa della condizione dell’uomo come homo faber.
Esiste infatti – scrive ancora Arendt nella sua recensione – la possibilità di sottrarsi alle condizioni della società e della storia in un’indipendenza spirituale che permette all’individuo di «vivere nel mondo, essendo tuttavia determinato da una trascendenza che si dà come ciò che non è realizzabile sulla terra» e che produce trasformazioni reali: «Così, ad esempio, Max Weber (…) ha dimostrato come un determinato essere pubblico (il capitalismo) sorga da un modo determinato di isolamento e dalla sua autocomprensione (il protestantesimo)».
Sebbene in modi diversi, Arendt e Anders sarebbero rimasti sempre legati a questa visione del pensiero «dissidente» e dell’antagonismo produttivo dello spirito «apolide», estraneo al mondo e alla fin troppo solida realtà del soggetto sociale. Non per nulla nelle lettere e nei testi di questa piccola ma preziosa raccolta tornano con insistenza i riferimenti a Walter Benjamin (che di Anders era cugino di secondo grado).
E se nelle lettere del ’39-’40 è la sua situazione esistenziale a interessare i due esuli, in quelle successive alla sua morte è la preoccupazione per le sorti del suo lascito e della sua eredità intellettuale a occupare i loro pensieri.
Hannah Arendt, che aveva ricevuto da Benjamin alcuni manoscritti fra cui una copia (pubblicata nel 2010) delle tesi Sul concetto di storia, si interessa alle sorti della pubblicazione postuma delle opere dell’amico che Adorno aveva iniziato a curare per conto dell’Institut für Sozialforschung: invia quel che ancora possiede delle carte benjaminiane non perché sia convinta del lavoro ma per «un dovere di lealtà»; appare al corrente dei manoscritti giunti in America e quando lo stesso Adorno comincia a lesinarle le informazioni si rivolge a Anders per sapere quel che cerca: «Ti prego davvero di farmi sapere che cosa è stato deciso ai vertici, dal momento che mi sembra che Wiesengrund non si senta obbligato a tenermi al corrente».
È Benjamin, infatti, il filosofo a cui Arendt (a differenza di Anders) si sente più vicina; e anche dopo l’uscita della prima raccolta delle sue opere teme il diffondersi della vulgata adorniana. Così, ancora nel 1955 si rivolge a Anders: «È triste che tu non voglia scrivere niente su Benji. Chi dovrebbe farlo, oltre a noi, se non vogliamo lasciare il monopolio a Adorno?».
Dinamiche da rivedere
La preoccupazione è un fatto che trascende ormai l’amicizia e investe un modo di fare filosofia che è nato dal confronto con Mannheim, si è identificato con l’esempio benjaminiano e ora rischia di appannarsi nell’interpretazione postidealistica e antipositivista dei francofortesi. Di questi e altri momenti di quella che fu una lunga e drammatica stagione intellettuale, le lettere e i documenti che testimoniano i rapporti fra Arendt e Anders offrono un saggio importante: come importante sarebbe una ricostruzione finalmente minuziosa delle dinamiche relative ai rapporti di quella generazione di intellettuali che per primi hanno sperimentato nel loro pensiero la radicalità dell’opposizione fra lo spirito apolide e le determinazioni della storia e della società.
Luca Crescenzi - Pubblicato su Alias del 31/12/2017 -
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