Fascismi vecchi e nuovi
- Quel baratro aperto tra «sinistra» e «popolo» -
di Luciano Canfora
Narra Anneo Seneca, nel De clementia, che nell’anno 43 a.C. a cena i triumviri stilarono le liste di proscrizione. Con una divisione di compiti: Marco Antonio comandava, Lepido stava a guardare e il giovanissimo Ottaviano, futuro Augusto, scriveva sotto dettatura. Tra Salvini, Di Maio e Conte succede la stessa cosa: il primo comanda, il secondo sta a guardare con l’occhio chino e il terzo scrive. Se non fosse tragica, la situazione sarebbe farsesca, in omaggio alla regola generale secondo cui, nella replica, la tragedia diventa farsa. Ma parliamo del baratro in cui stiamo precipitando.
Ben si sa che la nozione di «fascismo» è stata declinata, sin da molto presto, in due modi differenti: per un verso come definizione inerente al fascismo italiano, inteso come fenomeno irripetibile, per l’altro in una accezione più ampia, comprensiva dei movimenti coevi, e successivi, che al fascismo italiano dichiaravano di ispirarsi.
Vi è poi stata un’altra vita del termine e (del fenomeno) «fascismo»: ben oltre la sconfitta politico-militare del 1945. Si è venuta manifestando, infatti, la sua capacità di riproporsi in forme aggiornate ben al di là delle formazioni esplicitamente neofasciste e perciò marginali. Che questo accadesse è dipeso da fattori tutt’altro che superficiali. Il fascismo fu — e può tornare a essere (non importa sotto quale veste) — un modo di affrontare la gestione delle società di massa mobilitando e coinvolgendo le masse: mescolando sciovinismo (da lanciare contro falsi bersagli) e welfare (purché compatibile con gli interessi della parte più disinvolta e politicizzata del grande capitale).
Oggi il rinnovato successo di un tale esperimento è agevolato dal baratro che si è venuto aprendo tra «sinistra» e «popolo». Nella abdicazione della «sinistra» ai compiti e ai fini per cui sorse, sono i nuovi movimenti fascistici pronti a lucrare su un disagio vero. A questo si aggiunga la percezione della sordità di Paesi-guida dell’Europa, i cui governi peraltro si tengono le mani libere in tutte le direzioni, di fronte al peso che sui «grandi malati» (Italia e Grecia) esercita il fenomeno storico della migrazione di popoli in fuga dalla povertà verso l’opulenza (sperata o presunta). Per i movimenti fascistici oggi all’offensiva questo è un dono: il «popolo» che essi dicono di voler difendere è sotto attacco su due fronti, spietatezza dell’élite eurocratica che chiama «riforme» la demolizione del welfare, e guerra coi poveri esterni. E su entrambi i fronti essi mostrano di difenderlo, coniugando la (necessaria) guerra all’élite eurocratica con la facile e facilmente trionfante xenofobia. Come fu difficile contrastare questo efficace mélange al tempo del fascismo storico, così lo sarà oggi, in assenza di un interlocutore, allora indomito, oggi inesistente, quale la sinistra. La migrazione in atto esaspera quei medesimi ceti deboli che la «moneta unica» ha penalizzato: ne discende una vasta possibilità di mietere consenso da parte di movimenti politici (Front national, Lega, Alba dorata) che mettono insieme, sotto i riflettori, questi due disagi.
La partita appare dunque truccata su entrambi i versanti: l’ex sinistra (En marche in Francia, il Pd in Italia) si è assunta il ruolo di puntello dell’élite sedicente «europeista»; il nazionalismo leghista e lepenista si propone come paladino del «popolo».
Di solito chi si sente classificare come «fascistico» si offende e sbraita. E spesso i giornalisti benpensanti gli danno ragione. Ciò dipende dal fatto che, per fortuna, dei metodi di chi conquistò il potere con la violenza (protetta da importanti pezzi dello Stato) e con tali metodi lo consolidò, ci si vergogna ancora. Ma l’uso analogico di tale categoria definitoria fa riferimento non già alla presa del potere, bensì, specificamente, a quello che Renzo De Felice chiamò «fascismo regime» e al blocco sociale che, come regime, esso seppe egemonizzare: quando ormai la conquista a mano armata del potere, l’olio di ricino e la banda Dumini erano alle spalle. Insomma quel fascismo di cui Winston Churchill era entusiasta nei tardi anni Venti e ancora in pieni anni Trenta, e che tanta ammirazione suscitava negli Usa: da Wall Street al sindacalista Samuel Gompers.
- Luciano Canfora - Pubblicato sul Corriere del 17/6/2018 -
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