lunedì 18 giugno 2018

Milena

milena kafka

La figura di Milena Jesenska (1896-1944), la destinataria delle famose lettere di Kafka, nonché sua traduttrice e suo amore incompiuto, è oramai nota anche grazie a delle fortunate biografie. Meno noti forse sono i suoi scritti (e le sue lettere), gli stessi che oggi presentiamo qui e che fanno della Jesenska una delle più vivide testimoni della vita e della cultura mitteleuropea tra le due guerre. Gli argomenti sono i più vari, dal costume, al cinema, all'arte e alla letteratura, per poi indirizzarsi - nella seconda sezione - in reportage di taglio più schiettamente politico, in concomitanza con la degenerazione della situazione nella giovane repubblica ceca che condurrà alla sua annessione da parte della Germania nazista. Sorprendono, dall'inizio alla fine, l'acume e l'efficacia dello stile, sempre in grado di mettere in luce il tragico, il comico e il grottesco dell'esistenza, mostrando sia un gran talento ironico sia, al contempo, inaudite doti di empatia. Nata a Praga in una famiglia benestante, partecipa sin da giovanissima alla bohème della capitale, per trasferirsi poco più che ventenne nella Vienna postbellica assieme al marito. Qui inizierà una felice carriera giornalistica, la quale ha però come controcanto una tormentata vicenda personale, che la porterà - complici un matrimonio fallito e una iniziale, poi sconfessata adesione al partito comunista - a una decennale dipendenza dalla morfina, dovuta ai postumi del travagliatissimo parto della sua unica figlia. E solo alla fine degli anni Trenta che la Jesenska ritorna a scrivere con la passione e l'intelligenza che contraddistinguono il suo personalissimo stile, partecipando nuovamente alla vita culturale del suo paese. Anche a causa di tale coinvolgimento sarà arrestata dai nazisti appena entrati a Praga e condotta al campo di Ravensbriick, dove morirà quattro anni più tardi. Tragedia del non tragico! L'inattitudine alla tragedia! Com'è tremendo, com'è doloroso, malinconico tutto questo! Gli uomini qui si sono rassegnati senza neppure saperlo, si sono rassegnati senza neppure lottare, con una naturalezza che spaventa. La maledizione dell'imperfezione, dell'incompiutezza, della mediocrità imitata grava qui su tutte le cose: sugli abiti, sul portamento della gente, sui mobili, sui posti a teatro, sulle vetrine. L'eterna schiavitù della promiscuità, l'eco di ogni lacrima e di ogni sospiro nella camera accanto piena anch'essa di gente, la tirannia di un destino che impone di osservare sempre con attenzione gli altri, perché qui ognuno è attore, spettatore e suggeritore al tempo stesso! Una qualsiasi evoluzione è impensabile, giacché è qui che finiscono le cattive imitazioni della vita e dell'arte, è per queste strade che si scrivono operette, farse d'infimo ordine e valzer sdolcinati atti a eccitare la sessualità miserevole e stremata di esseri che persino nel loro intimo non mancano mai di distinguere tra domenica e giorni feriali; [...] C'è dunque da stupirsi se questi uomini che col loro cervello e il loro cuore alimentano un mostruoso apparato, che per decenni non hanno mai vissuto né sentito in maniera personale e unica ma sempre e solo come massa, allineati l'uno accanto all'altro come merci in un magazzino con dentro lo stesso sentimento di rassegnata impotenza quali elementi di un cavo elettrico fra il mondo e Dio, c'è da stupirsi, dicevo, se essi un bel giorno, tutti insieme, mandano un urlo tremendo e si rivelano - per un istante nell'arco di secoli - terribili quanto prima erano stati docili? Con otto lettere a Max Brod su Kafka.

(dal risvolto di copertina di: Milena Jesenska: Qui non può trovarmi nessuno, Giometti&Antonello, pagg. 252, euro 24)

milena

Storia di Milena la Musa di Kafka che cambiò il ’900
- di Melania Mazzucco -

Il cognome era Jesenská, il nome di battesimo fu reso eterno dalle lettere d’amore che le spedì lo scrittore. Ma non visse all’ombra del genio: i suoi testi ora ripubblicati svelano un’autrice di talento, dallo spirito femminista
«Provveda per favore che le mie lettere che erano in mano di Franz siano date alle fiamme». Così, nel luglio del 1924, chiese Milena Jesenská a Max Brod. Kafka era morto da poche settimane ma lei non gli scriveva più da tempo — da quando, dal sanatorio sui monti Tatra, Kafka le aveva rivolto una «preghiera veramente mortale e ad un tempo un ordine: Non scrivere e impedisci che ci incontriamo». Questo solo avrebbe potuto permettergli di continuare a vivere. All’amico, anche Kafka aveva chiesto di bruciare le sue carte. Brod — come noto — non rispettò la sua volontà, e la storia della letteratura del Novecento è cambiata per sempre. La volontà di Milena fu invece eseguita, e così la fittissima corrispondenza tra loro è oggi nota come un monologo. Uno straordinario autoritratto dello scrittore, tanto da contenere la celebre frase «Tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso». Insieme alla Lettera al padre e alle Lettere a Felice, rappresenta il documento capitale per la conoscenza del mondo interiore di Kafka.
Ma a differenza di molte destinatarie ammutolite dalla distruzione delle loro lettere, la voce di Milena Jesenská è sopravvissuta. Non solo perché Kafka cita nelle proprie lettere qualche frase di lei. Ma perché Milena era una scrittrice. O avrebbe potuto esserlo, se le circostanze della sua vita e della storia glielo avessero permesso. Bionda, elegante, figlia di un ricco professore di stomatologia all’università di Praga, aveva ricevuto un’educazione moderna nel primo liceo classico femminile dell’Europa centrale. Cresciuta nel privilegio, si era fatta notare per la sua libertà e il suo anticonformismo: ostentava atteggiamenti lesbici, frequentava hotel malfamati, sperimentava droghe e i poliziotti l’avevano sorpresa a rubare nei negozi e a cogliere magnolie di notte in un parco (il professore aveva sempre rimediato). Ma quando Kafka la conobbe, non aveva un soldo.
Nel 1916, a vent’anni, Milena aveva intrecciato una relazione con Ernst Pollak: dieci anni più vecchio, dandy, donnaiolo, ma soprattutto ebreo. Per impedirle di frequentarlo e di sperperare denaro per lui, il padre l’aveva perfino rinchiusa nel manicomio di Veleslavin.
Invano, perché appena maggiorenne Milena lo sposò e lo seguì a Vienna. Nel maggio del 1920, quando iniziò la corrispondenza con Kafka, si guadagnava da vivere portando valigie alla stazione, scrivendo articoli per la rivista Tribuna e offrendo traduzioni dal tedesco. Tra queste, quelle di alcuni racconti di Kafka: Milena fu una delle sue prime lettrici e la più lungimirante.
Riconobbe subito il genio del timido, scrupoloso e tranquillo impiegato dell’Istituto d’assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori di Praga: un uomo insolito e profondo quanto i suoi testi.
Allora Kafka soggiornava in una pensione di Merano per curarsi i polmoni. Così lo descrisse Milena: «Alto, magro, il viso aguzzo e spigoloso, bello, malvagio e incredibilmente buono». Aveva 38 anni ma, come le fece notare, essendo ebreo, era già stato logorato dalla paura e dall’angoscia.
Fidanzato con Julie Wohryzek, pur desiderando il matrimonio cercava un’occasione per evitarlo. Milena invece ne aveva 24: pur essendo anche lei malata, reduce da un tentativo di suicidio e logorata dai tradimenti del marito, gli era apparsa come l’immagine della vita stessa. Iniziarono a scriversi tutti i giorni. Lei scriveva lettere che gli causavano tormento e spavento, lui lettere inconcludenti e ossessive, che dovevano allarmarla e invece la stimolavano a cercare di conoscerlo davvero. Pagine e pagine di riflessioni, progetti bislacchi, fantasticherie. Kafka la sognava spesso, e i suoi sogni non erano meno inquietanti e allucinati dei racconti che andava scrivendo. Le corrispondenze da Vienna che lei andava pubblicando, invece, erano spigliate e ironiche. Kafka apprezzava gli articoli di Milena. Trovava fresco e vivace il suo cèco, e acutissime le sue osservazioni sui costumi e i caratteri degli esseri umani. Non era solo l’amore per quella giovane donna esuberante come un uragano, passionale (e perciò terrificante come una Medusa) a renderlo così generoso nel giudizio.
Oggi possiamo leggere le corrispondenze di Milena (tradotte però dal tedesco da Donatella Frediani) nel volume "Qui non può trovarmi nessuno", curato da Dorothea Rein e corredato da una esauriente nota biografica (editore Giometti & Antonello). Le cronache viennesi di Milena forniscono un vivido spaccato della vita nella capitale del defunto Impero austroungarico nel primo dopoguerra — devastata dalla penuria, ma irrimediabilmente frivola e noncurante, in cui ogni gerarchia sociale è sovvertita (gli impiegati e i piccoli borghesi ridotti alla fame, gli operai e i proletari arricchiti dalla borsa nera).
Milena scriveva tuttavia anche articoli più personali: osservare il mondo stando in disparte, come dietro il vetro di una finestra, era la sua vocazione.
Scriveva di matrimonio, sesso, aborto. E di film. Fu tra le prime a intuire il potere consolatorio e sonnifero della cinematografia americana e a esaltare la modernità problematica di registi come Charlie Chaplin e Mauritz Stiller.
Milena e Kafka, che lei chiamava Frank, si scrissero un’infinità di lettere e telegrammi, ma si incontrarono solo due volte. La prima, per 4 giorni, a Vienna, alla fine di luglio del 1920.
Kafka capì che lei non avrebbe lasciato il marito, Milena che lui non avrebbe lasciato la sua malattia, che gli era necessaria per vivere. Puro, privo di difese, Kafka era inadatto all’esistenza. Perfino fare l’elemosina a una mendicante o chiedere un permesso al suo superiore d’ufficio lo gettavano nell’angoscia. La seconda volta, fu in un alberghetto di Gmünd, sulla frontiera. Un giorno solo, in agosto, fitto di malintesi, causa di imperitura vergogna per lui e sensi di colpa per lei, troppo donna — così Milena confessò a Max Brod — per votarsi a una vita d’ascesi.
La rottura non mise fine all’ammirazione di Milena per Kafka. Alla sua morte, scrisse un necrologio che ancora sorprende per la lucidità con cui descrive l’uomo e riconosce la grandezza dello scrittore. Se fosse sopravvissuto alla tisi e all’angoscia, Kafka sarebbe diventato forse un esule incompreso e ridicolo come il signor Kafka che insegnò ebraico a Philip Roth nella Newark degli anni Quaranta (e che Roth raccontò in "Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno, ovvero, guardando Kafka").
Milena sopravvisse a Kafka, al marito e al parto difficile della sua unica figlia, che la invalidò per anni e la rese morfinomane. Non divenne la scrittrice che avrebbe potuto essere. Ma fu qualcosa di più: la testimone della catastrofe europea.
Infatti, più degli spigliati feuilleton che piacquero a Kafka, apprezziamo oggi i suoi articoli onirici (come Un sogno del 1921, in cui lei, cristiana, profetizza la persecuzione degli ebrei) e i reportage politici del 1937-39. Milena narra con lucidità e orrore l’avanzata del nazismo nel suo paese e la tragedia dei profughi — socialisti, comunisti ed ebrei — divenuti i negri d’Europa e da tutte le nazioni democratiche compianti e respinti. Nel 1939 si adoperò per far fuggire quanti rischiavano l’arresto e la morte, fu a sua volta arrestata dalla Gestapo e finì nel campo di concentramento di Ravensbrück. Libera e coraggiosa, amava ardentemente la vita: era «forte come il mare», secondo la definizione di Kafka. Si arrese a un’infezione renale solo il 17 maggio del 1944.

- Melania Mazzucco - Pubblicato su Repubblica del 16/6/2018 -


Milena, la "giornalista" che indagò il caso Franz
- di Davide Brullo -

Chissà quel è stato l'ultimo pensiero di Milena, dopo tre anni e mezzo di reclusione, a Ravensbrück. Era stata arrestata dalla Gestapo nel 1940. Di solito, chiacchierava con Margarete Buber-Neumann, pasionaria comunista, in quel luogo definitivo, dove le donne, tante saranno 30mila «muoiono di fame e di freddo, altre soccombono all'angoscia e alla debolezza, altre ancora muoiono perché non sopportano più di vivere».
Milena è una giornalista acuta, una donna indipendente, che conosce l'arte di amare e che è stata molto amata. «Verrà davvero il giorno in cui potremo vivere fianco a fianco tedeschi, cechi, francesi, russi, inglesi senza farci del male, senza doverci odiare, senza farci torto a vicenda?», scrive in uno degli ultimi articoli, nel marzo del 1939, con sprint utopico, sul Pritomnost («Il presente»), settimanale di Praga «di tendenza liberal-democratica molto affermato», su cui firmano, per dire, Johannes Urzidil, Arthur Koestler, Heinrich Mann.
Milena viene arrestata con l'intento di essere «rieducata»: in realtà, aiutava i resistenti contro i nazisti. Incontenibile, inafferrabile, è una vita, in verità, che tutti tentano di «rieducare» Milena. Molti anni prima, nel giugno del 1917, poco più che ventenne, viene spedita in manicomio dal padre. «Insania morale», la diagnosi. Milena s'è innamorata di un uomo più grande di lei di dieci anni. E per lui fa tutto, «spende a piene mani il suo e il denaro degli altri e firma cambiali senza l'autorizzazione paterna». Dopo un fiotto di mesi di reclusione, da vera amazzone, Milena, ormai maggiorenne, sposa il suo dandy, Ernst Pollak. Ma l'ultimo pensiero di Milena, prima di morire a Ravensbrück per una infezione renale, non è per il marito. È per quell'uomo dal viso livido come una spada, di cui scrisse, nel 1920, a Max Brod, «i suoi libri sono stupefacenti. Più stupefacente è lui». Esattamente vent'anni prima di morire, nel 1944, reclusa nel più vasto campo di concentramento femminile della Germania hitleriana, Milena Jesenská scrive l'epitaffio per Franz Kafka, sulla rivista Národní Listy, «scrittore di lingua tedesca vissuto a Praga, morto avantieri nel sanatorio di Kierling, presso Klosterneuburg, nei dintorni di Vienna». Con l'arguzia di chi sa trarre auspici dalla corteccia di un albero e individuare il getto di un destino dalla fugacità di uno sguardo, Milena, in righe rapaci, dice tutto di Kafka. «Era un individuo solitario, un uomo che sapeva molte cose, spaventato dalla vita... era timido, scrupoloso, tranquillo e buono, eppure ha scritto libri spietati e dolorosi. Il suo mondo era popolato di demoni invisibili che annientano e dilaniano l'uomo privo di difese». Aveva tradotto Il fuochista, nel 1920, accorgendosi che Kafka non è uno scrittore, è una folla di chiodi incandescenti. Ti stigmatizza. Per la storia della letteratura, Milena è la destinataria delle lettere d'amore più belle che siano mai state scritte. Provateci. Le Lettere a Milena tradizionale traduzione Mondadori, per la cura di Ferruccio Masini e l'italiano di Ervino Pocar e di Enrico Gianni si leggono come un oracolo, strappando le frasi per appiccicarle sul frontespizio dei giorni dispari («Sapevo già cosa avrei trovato nella lettera... lo sapevo come uno che, dopo aver passato l'intera giornata con le finestre chiuse, immerso in un'angoscia di sonno e di sogno, apre di sera la finestra e naturalmente non si stupisce, perché sapeva di trovare il buio, un buio meraviglioso e profondo»).
Tanto ostinato nello splendore e tramortito nella debolezza era Kafka; tanto audace, eccentrica, estrema era Milena. Ora la statura intellettuale di Milena trova giustizia grazie a Qui non può trovarmi nessuno, antologia di scritti giornalistici «dei suoi 400 e più articoli ne sono stati raccolti qui 41» scelti da Dorothea Rein, tradotti da Donatella Frediani e pubblicati, con la consueta raffinatezza editoriale, da Giometti & Antonello (pagg. 252, euro 24), che torna ai lavori dopo la tragica morte di uno dei fondatori, il poeta Danni Antonello, lo scorso ottobre. Milena pratica l'arte giornalistica dal 1919, con arguzia e ambizione. Passa dagli sketch narrativi un pezzo quasi kafkiano sulle Finestre: «Vi è mai capitato, tornando a casa, di levare gli occhi verso le vostre finestre e di non avere più animo di salire?» ai corsivi caustici «Vienna uccide quelli che vogliono realizzare qualcosa, anche quelli che ne hanno la capacità... Vienna è come un pantano» agli articoli di costume quello su Charlie Chaplin, ad esempio, «Chaplin è un uomo di una sensibilità pari a quella di una corda di violino. Tutto ha un volto».
Pensò che Kafka potesse convertirla, riuscisse a torcerle la vita. Era infelice con Pollak («tutti o quasi tutti i matrimoni di oggi sono infelici», scriveva nel 1923, in un pezzo titolato Il diavolo in casa). Si dava alla cocaina. Capì quasi subito che Kafka, autore di lettere deflagranti ma allucinato dall'angoscia, era impedito alla vita. «Tutto questo mondo è e rimane enigmatico per lui», si confessa, a Max Brod. «Tutti noi siamo apparentemente capaci di vivere perché una volta ci siamo rifugiati nella menzogna, nella cecità, nell'entusiasmo, nell'ottimismo, in una convinzione, nel pessimismo o in qualcos'altro. Ma lui non si è mai rifugiato in un asilo che potesse proteggerlo. È assolutamente incapace di mentire come è incapace di ubriacarsi. È senza il minimo rifugio, senza un ricovero. Perciò è esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo». L'ultima lettera di Kafka è del dicembre 1923. Nei momenti della passione vertiginosa, lo scrittore aveva dedicato a Milena la sola definizione possibile del sentimento amoroso: «Amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso». Dopo la morte di Kafka, Milena divorzia dal marito, si risposa, diventa comunista; poi critica l'ideologia sovietica, poi si perde nelle nebbie della morfina, poi Ravensbrück. Gli anni che Milena passa nel campo di concentramento pareggiano gli anni che dura l'amore attraverso lettere che carcerano all'eternità con Kafka. Una nota, questa, che vale come cifra mistica.

- Davide Brullo - Pubblicato sul Giornale del 22/5/2018 -

Nessun commento: