Da dove vengono le parole, il vocabolario e la sintassi concettuale tipici dell'economia degli occidentali? A questa domanda - una domanda sull'origine delle categorie che hanno reso possibile pensare l'economia nell'Occidente cristiano - questo libro risponde ricostruendo una molteplicità di itinerari discorsivi. Si viene così a scoprire che fra teologia morale ed economia produttiva, o fra etica della carità e logica degli scambi commerciali, è esistita un'affinità stabilita da linguaggi, nozioni, immagini, per secoli funzionanti e comprensibili in ambiti apparentemente tanto diversi. La forza di metafore etico-religiose come quella che ingiungeva ai cristiani di comportarsi, per essere veramente tali, al modo di cambiavalute provetti, o l'esortazione all'attivismo economico che molta dottrina medievale volle leggere in parabole come quella dei "talenti", vengono a costituire lo stimolo di partenza per un viaggio testuale verso la scoperta delle premesse logiche e delle radici linguistiche di quanto è stato chiamato 'razionalità' economica occidentale.
(dal risvolto di copertina di: I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, di Giacomo Todeschini, pubblicato da Il Mulino.)
Introduzione al libro
- di Giacomo Todeschini -
Siamo costantemente bersagliati da messaggi pubblicitari, ossia da costruzioni linguistiche pubblicamente ammesse come sensate, decisi a persuaderci del Valore preternaturale di determinati oggetti. Un certo orologio è di tale pregio e durata che non si può nemmeno possederlo ma solo tramandarlo ai posteri. Sconfigge il tempo, e per ciò stesso, acquistandolo si acquisisce un potere, ovvero un dominio, sul trascorrere stesso del tempo. È’ stata coniata, a proposito di oggetti in commercio di questo tipo, la definizione “merci di culto”1, e, del resto, si sono anche potute ipotizzare analogie e complesse somiglianze formali fra percorsi linguistici teologici elaborati soprattutto dalla Scolastica bassomedievale, e le teoria economica più astrattamente impersonale e “scientifica”2. Un economista di grande fama ha, pois, dal canto suo, indicato nello smarrimento, o nella rimozione, del nesso fra etica ed economia – ossia nella scomparsa della rappresentazione dei significati etici all’interno dei discorsi formalmente economici – la radice che ha condotto ad un congelamento in modelli apodittici delle spiegazioni e delle previsioni economiche.3 Non può sfuggire che i lessici della cosiddetta “globalizzazione” economica, in tutta la loro ambiguità, possono funzionare in un ambiente semantico caratterizzato dalla fede senza confini in valori costituiti da prodotti e simboli che li rappresentano. Questo insieme di stimoli, ricerche e suggerimenti, sembrerebbero di per sé indicare come percorso di analisi ancora in parte da percorrere, quello costituito dalle modalità di formazione delle categorie discorsive poi fatte proprie dalla riflessione economica occidentale. Non nel senso ampiamente esplorato da Max Weber, dai suoi eredi e poi da storici del pensiero economico come Schumpeter e Langholm, di una ricostruzione cronologicamente evolutiva dei nessi fra “religione” ed “economia”, e del presupposto progressivo affrancamento o autonomizzazione della seconda dalla prima4, o anche dell’incorporazione di uno “spirito” elaborato dalla prima nella seconda, ma piuttosto nella prospettiva di un’indagine sui modi di parlare (di scrivere) di economia fra Medioevo ed Età Moderna, alla ricerca delle logiche e dei vocabolari concreti che, in seguito, l’economia, rinata come scienza pratica, assunse come propri, distinguendoli però da quelli del giudizio morale e religioso che, prima, ne facevano parte integrante. Si tratta quindi, in questo caso, non più di domandarsi se l’economia come scienza si realizzò pienamente scindendo etico da economico, ma piuttosto quanto dell’etico, del religioso, del carismatico che era parte strutturante del modo di esprimere i significati economici in Età premoderna, poté essere cancellato, e quanto invece, al di là del “disincanto” della modernizzazione, e delle scelte consapevolmente utilitaristiche degli economisti e dei teorici, rimase profondamente cifrato e operante negli ingranaggi logici e linguistici stessi del discorso economico occidentale, inteso dunque, ancor più che come teoria, come organizzazione discorsiva largamente preterintenzionale, ossia come insieme di procedure argomentative che, servendosi di determinati vocabolari storicamente stratificatisi, andò producendo significati e interpretazioni per i comportamenti economici umani in tutta la loro quotidianità, e li estrasse dalla caduca occasionalità delle situazioni che li concretizzavano, per sistemarli in paradigmi mentali astratti, costruiti tuttavia con i materiali categoriali che tutta una cultura aveva prodotto e trasmesso.1 Un’analisi di questo tipo mira dunque alla individuazione dei percorsi di formazione di categorie discorsive; non si pone come primario il problema del senso di teorie o dottrine economiche premoderne, per la buona ragione che appare infondato ricercare una tale natura dottrinaria e dunque teoricamente strutturata, a partire da sistemi di significati assestatisi come scientifici soltanto dopo la fase di genesi discorsiva di cui qui ci si vuole occupare. Nello stesso tempo, la questione della “rottura” fra morale ed economia o della fondazione religiosa di logiche economiche è rinviata al momento in cui si sarà appurato se la differenza fra discorso economico e discorso etico-religioso, come ci appare se guardiamo a ritroso dal presente verso il passato al modo dell’angelo di Walter Benjamin, è confermata dalle testimonianze storiche, o se, invece, non si tratti in questo caso di un’illusione ottica, capace di dissolversi se, distogliendo lo sguardo dalle dottrine e dalle teorie, si osservino piuttosto i materiali con cui i significati economici vennero costruiti fra Medioevo ed Età Moderna. In questa prospettiva apparirà più rilevante la trasposizione di metodi costruttivi di significati economici dal sacro al civico, che non la fitta e costante contraddizione che, per un lungo tratto di secoli, oppose doctores e magistri a proposito della liceità di questo o quel contratto. Come si è di recente fatto notare2, all’interno dell’itinerario semantico che determina l’apparizione e il consolidamento di una categoria interpretativa, è più storicamente rilevante la parentela concettuale, la similitudine metodologica e lessicale fra pareri e argomentazioni, che non le conclusioni ossia i giudizi divergenti a cui essi eventualmente pervengano o i contrasti che le oppongono sul breve periodo. Per questa via è possibile scoprire che testi segnati da nomi che, come quelli di Tommaso d’Aquino, Bernardino da Siena, o Giovanni Calvino, sembrano rinviare a continenti ideologici lontani fra loro, contengono invece elementi comuni e dialetticamente affini, e indipendentemente dalle caselle in cui i manuali di storia dottrinale o filosofica li sistemarono. In particolare, è parsa, in questo libro, di particolare rilevanza la storia di come si venne generando in Occidente, la nozione di bene comune economico, e, insieme, di comunità di mercato. In entrambi i casi, la “fede” reciproca e la convinzione di condividere uno specifico credo cristiano, sembrano avere avuto un forte rapporto con l’istituirsi di un modo di pensare e di definire interessi, profitti e utilità economiche, apparentemente estraneo al terreno della religione e della morale. E, forse, non è superfluo domandarsi, in un’epoca di compiuta diffusione mondiale del modello economico occidentale, e tuttavia in un’epoca che ne vede la crisi nella crescita enorme delle povertà e nella degenerazione delle economie “liberiste”, come pure nella selvaggia dittatura multinazionale o transnazionale di alcuni gruppi economici, con quali linguaggi e con quali lessici questa economia occidentale abbia cominciato a parlare.
- Giacomo Todeschini -
Il Capitale nel XIII secolo Quanto vale la corona di spine?
- di Amedeo Feniello -
La nostra idea di Medioevo resta carica di pregiudizi. Ne incontriamo a bizzeffe, non solo nel quotidiano. Uno di essi ci porta lontano: all’idea cioè che il Medioevo cristiano fosse privo di un pensiero economico. Pensiero che, secondo i più, emerge solo dopo, in un mondo secolarizzato figlio della Riforma protestante, della rivoluzione scientifica e industriale. In una parola, nella Modernità. Nel 2002 uno dei medievisti italiani di maggiore spessore internazionale, Giacomo Todeschini, pubblicava un libro — I mercanti e il tempio (il Mulino) — nel quale ribatteva punto per punto questa idea, proponendo un Medioevo della riflessione sui temi etici della finanza, ricco e innovativo.
Ora il volume è stato ripubblicato in Francia; ma si tratta, a ben vedere, di un altro libro. Innanzitutto, grazie alla sapiente traduzione di Ida Giordano (con la collaborazione di Mathieu Arnoux). Poi, per i saggi ritocchi compiuti dallo stesso Todeschini. Ma specialmente per la prefazione di Thomas Piketty, dal suggestivo titolo Il Capitale cristiano, che fa da suggello a questa edizione.
Partirò proprio da questo punto, dal concetto di «Capitale cristiano», un’affermazione forte, adesso che ci avviciniamo al bicentenario della nascita di Karl Marx, ma da non trascurare. L’analisi di Todeschini porta su questa strada, con una ricerca accuratissima e ad ampio spettro (da sant’Ambrogio fino a Calvino) che mostra come la maggior parte delle nozioni economiche che noi associamo al capitalismo finanziario moderno trovino in realtà la loro origine nell’edificio intellettuale che si sviluppa nell’Occidente cristiano tra l’VIII e il XV secolo. Una vera e propria cattedrale romanica, sulla quale si costruiscono fiumi di interpretazioni, riflessioni, critiche volte ad uno scopo principale: «La giustificazione e l’esplicitazione — osserva Piketty — di un reale progetto d’organizzazione sociale e di dominazione politica e religiosa», pianificato e promosso dalla Chiesa. Un progetto che si sviluppa lungo tanti tracciati. Le idee di avere, di possesso, di scambio, di consumo, di dono, di accumulazione, di indennizzo, di investimento, di industria, di bene comune sono tutti retaggi del pensiero medievale, cui contribuirono personaggi straordinari, come i grandi Papi Gregorio VII e Innocenzo III; o intellettuali di peso sorprendente — per citarne solo qualcuno: Bernardo di Chiaravalle, Pier Damiani, Ru- perto di Deutz, Tommaso d’Aquino, Pier di Giovanni Ulivi. Temi che plasmano in profondità il Medioevo e che transitano, con evoluzioni semantiche profonde, sino a noi, ma spesso non del tutto purgati dal loro significato originario. Questa nozione del Capitale, fatta non solo di pratiche dottrinarie ma di un evidente pragmatismo, segue una evoluzione definita, legata all’idea di ricchezza e di economia: questioni che, dal IV secolo in poi, da quando la società occidentale si cristianizza, diventano per la Chiesa in formazione problemi da affrontare senza infingimenti, faccia a faccia. In una condizione in cui essa si trovava ad accumulare vaste ricchezze, risultava indispensabile pensare ai requisiti di «una proprietà giusta e di una economia cristiana». La ricchezza diventa allora una componente positiva della società cristiana, col vincolo però che parte dei beni accumulati dai fedeli venisse trasmessa alla Chiesa e che fossero rispettate un certo numero di regole economiche e finanziarie.
Nascono norme. Canoni. Misure. E con esse un immaginario fatto di figure simbolo, tra cui Giuda, riletto non più e soltanto come l’incarnazione del traditore, ma per la sua cupidigia e avidità: lui, che voleva convertire in monete sonanti l’unguento prezioso che Maria di Betania cospargeva sui piedi di Cristo, viene presentato, proprio a partire da questo episodio, come l’ emblema del cattivo cristiano, che confonde un utile a breve termine e finito — il denaro — con un altro a lungo termine — l’eternità del Paradiso. Modello cui si oppone quello del monastero, il quale si regge su un’utilità economica solidale, dove tutto è di tutti e di nessuno, perché ogni monaco appartiene ad una medesima comunità, basata su una razionalità di comportamenti economici (basti pensare alla figura che affianca l’abate, il cellarius ovverosia l’economo). Comunità per la quale le logiche del commercio e della rivendita delle eccedenze, come quelle della buona e ragionata gestione del patrimonio, vengono rivendicate come pratiche legittime e riconosciute. Capacità che, a partire dall’XI secolo, trasforma i monasteri nei grandi motori economici della centralizzazione ecclesiastica.
Questo mondo del «Capitale cristiano» si anima di tante storie. Fra le più seducenti c’è quella che riguarda una delle grandi reliquie della Cristianità: la corona di spine, che fu protagonista di un frenetico scambio, che terminò nel 1239, tra il re di Gerusalemme Baldovino, il re di Francia Luigi IX e alcuni mercanti veneziani e francesi. Scambio che presuppone una questione importante, che non è soltanto quella del mercato delle reliquie — tipico del Medioevo — ma concerne il valore stesso della corona: che prezzo attribuire a questo sancta sanctorum? Non c’era al mondo niente di comparabile. Niente di più sacro appartenuto al Cristo. Fatto sta che, nella sua peregrinazione commerciale, la corona si trasforma, quasi sospesa in uno spazio compreso tra l’economia profana e quella del sacro: la sua essenza magico-religiosa, infatti, si desacralizza modificandosi in mezzo di pagamento — diventa appunto un mero oggetto di pegno — a causa di un debito non pagato da Baldovino ai veneziani; pegno che però sarà riscattato da alcuni mercanti francesi, che trasmuteranno il pegno in munus, ossia di nuovo in un dono sacro per il re di Francia.
Il libro apporta insomma una serie di elementi inaspettati non solo per la conoscenza della storia delle idee economiche, ma per chiarire tante prospettive che sono alla base del capitalismo moderno. Come ad esempio il tema del diritto di proprietà che, come assunto teorico, non nasce alla fine del XVII secolo, ma è un prodotto tipico delle dottrine cristiane volte ad assicurare la perennità della Chiesa come organizzazione religiosa e patrimoniale. Concretezza di analisi che tocca altri argomenti, tra cui quello dell’usura, dove il problema centrale che ci si pose non fu tanto quello di proibire l’usura, ma piuttosto di regolare, dice Todeschini, «le forme di investimento e di possesso ammissibili, di assicurarsi che il capitale fosse adoperato nelle forme più legittime», in maniera conforme con la dottrina cristiana.
Con un’ultima storia. Quando a Papa Innocenzo IV, nel cuore del Duecento, fu chiesto che cosa pensasse dell’usura, rispose grossomodo così: che non era quello il problema in quanto tale, ma che una ricchezza troppo elevata raggiunta in maniera così facile avrebbe spinto tanti a scegliere quella strada piuttosto che darsi ad attività altrettanto sicure, ma più faticose, figlie di una economia reale più che artificiale. Una bella lezione medievale, per i maestri della finanza creativa.
- Amedeo Feniello - Pubblicato sulla Lettura del 18/2/2018 -
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