venerdì 23 gennaio 2015

Il rifiuto di Duchamp

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In un libro recente, "Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro", Maurizio Lazzarato propone una riflessione sul "rifiuto del lavoro", una pratica che raggiungerà un livello di massa, nell'Italia degli anni 1960-1970, con lo sviluppo dell'operaismo: "Ci rimanda alle pratiche di lotta individuale e collettiva dell'operaio massa delle grandi fabbriche fordiste che, con le loro catene di montaggio e la loro concentrazione di operai, rappresentavano lo sfruttamento proprio al capitalismo industriale".
Diversamente, l'approccio al rifiuto del lavoro proposto da Marcel Duchamp permette più di lottare contro le nuove forme del capitalismo contemporaneo. All'inizio del XX secolo, Marcel Duchamp si confronta con il lavoro salariato e con l'integrazione dell'artista nel mercato, vedendole come due differenti forme di subordinazione della vita al capitale. I proletari che praticano il rifiuto del lavoro evocano l'ozio, l'illegalità, il piacere della festa ed il rifiuto della famiglia: "L'irregolarità, l'imprevedibilità, la mancanza di disciplina, costituiscono dei comportamenti da addomesticare, da normalizzare" - sottolinea Lazzarato.
Il rifiuto del lavoro, a partire dal XIX secolo, permette di opporsi alla colonizzazione della vita messa in atto dalla produzione. L'occupazione del tempo diviene uno strumento di controllo e di disciplina capitalista. Oramai, l'arte e gli artisti sono sottomessi al turismo e all'industria culturale. Marcel Duchamp si distingue dagli artisti sottomessi al mercato, dando valore alla creatività, all'autonomia e alla libertà. Rifiuta di conformarsi alle norme ed ai vincoli sociali. Afferma di preferire la vita, al lavoro: "Duchamp esprime un rifiuto ostinato del lavoro, sia che si tratti di lavoro salariato e di lavoro artistico. Rifiuta di sottomettersi alle funzioni, ai ruoli e alle norme della società capitalista", analizza Lazzarato. Quest'approccio si distingue da quello del movimento operaio ma si avvicina a quello dei nuovi movimenti di lotta: il rifiuto non concerne più solamente il lavoro salariato ma anche tutte le altre funzioni della società. In quanto uomini, in quanto donne, veniamo assegnati a dei ruoli, che siano quelli di consumatori, di comunicatori, di disoccupati.
L'artista diventa il modello del nuovo lavoratore che pensa di essere libero ma che invece si conforma al suo ruolo di "capitale umano". Marcel Duchamp non propone un'emancipazione che avvenga nel quadro della produzione. Il movimento operaio rimane attaccato al lavoro, e lo sciopero non è altro che un mezzo per ottenere dei nuovi diritti ai fini dell'organizzazione dello sfruttamento. Il rifiuto operaio del lavoro apre invece all'abolizione del proletariato e delle classi sociali. Ma rimane un approccio marginale: il diritto all'azio deve permettere di abolire lo scambio, la proprietà e il lavoro. L'ozio diventa un rifiuto che attacca il lavoro salariato, ma attacca anche ogni comportamento conforme a quello che la società capitalista si aspetta dall'individuo. Duchamp rivendica un rifiuto "di tutte le piccole regole che decidono che voi non dovete mangiare se non mostrate i segni di un'attività o di una produzione, in una forma o nell'altra". Certo, Marcel Duchamp può vivere grazie ad una piccola rendita e a dei mecenati, ma il rifiuto del lavoro richiede un'organizzazione della società radicalmente diversa.
Il rifiuto del lavoro artistico permette di non conformarsi ai modelli imposti dal mercato dell'arte e dalla disciplina della produzione. Allora, l'opera può essere creata più lentamente, senza sottomettersi a dei principi di valutazione e alle esigenze del pubblico. L'artista si integra progressivamente nell'economia capitalista e l'arte diventa una volgare merce: "E' una capitolazione. Oggi sembra che l'artista non possa vivere senza un giuramento di fedeltà al buon vecchio possente dollaro. Questo ci fa vedere fino a che punto sia arrivata l'integrazione". L'artista non è subordinato ad un padrone, ma deve sottomettersi ai vincoli commerciali.
Marcel Duchamp ha inventato il "ready-made": dei semplici oggetti facenti parte del quotidiano vengono esposti. "Il ready-made è una tecnica oziosa, perché non comporta nessun amore per l'arte, nessuna conoscenza specifica, nessuna attività di produzione, nessun lavor manuale". Il ready-made desacralizza la funzione dell'opera e si prende gioco del genio artistico. Nessuno crea un simile genere di installazione. L'attività artistica diventa così un'attività come un'altra. Al contrario, nel mercato dell'arte il suo valore è determinato dalla rarità, dall'unicità e dall'originalità del creatore. Duchamp rifiuta le norme stabilite e i valori estetici. Il ready-made non lusinga l'occhio, ma si rivolge allo spirito, cui dà una nuova direzione, il ready-made non viene fabbricato, viene scelto. Qualsiasi nozione di gusto fondata su pregiudizi e stereotipi, ne viene esclusa. "Per poter scegliere un ready-made bisogna arrivare alla 'libertà dell'indifferenza', cioè a dire, a sospendere le abitudini, le norme e i loro significati sociali".
Marcel Duchamp tenta di fuggire alla mercificazione dell'arte. Privilegia il gratuito. Ma, nel 1960, un gallerista trasforma le opere dello "anartista" in prodotti di consumo: i ready-made sono ora copiati in più esemplari, vengono venduti e diventano opere d'arte. Quest'evoluzione rivela quali sono le caratteristiche del capitalismo contemporaneo, capace di divorare tutto.
Duchamp insiste sulla creazione come processo di soggettivazione: in tutte le attività umane può emergere una dimensione creativa, le opere non coinvolgono solo l'artista, ma danno libero corso alla ricezione e alla riflessione degli spettatori; egli tenta di diffondere una nuova sensibilità per mezzo del processo creativo. "Quello che qui enuncia Duchamp, sono anche le condizioni e gli effetti che caratterizzano una rottura politica, una smobilitazione che sospenda le relazioni di potere stabilite e che apra lo spazio del processo di costruzione di una nuova soggettività". Predomina il rifiuto.
Ma ormai l'arte contemporanea accetta la mercificazione e l'estetizzazione, per diventare un prodotto del capitale. Duchamp rifiuta di conformarsi al piccolo ambito artistico e privilegia la provocazione iconoclasta, lo humour e l'erotismo: il dominio culturale, in quanto tecnica di governo delle soggettività, dev'essere attaccato. "La cosa importante, è vivere ed avere un comportamento. Questo comportamento ha ai suoi ordini il quadro che ho dipinto, il gioco di parole che ho fatto e tutto quello che ho prodotto, dal punto di vista pubblico". La rivolta contro il capitalismo passa anche per la costruzione di una nuova maniera di agire, di pensare, di vivere. Quest'approccio esistenziale si lega al rifiuto del lavoro per poter costruire una nuova soggettività.

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Nella seconda parte del libro, Lazzarato propone delle riflessioni polemiche contro il sociologo Pierre-Michel Menger, in quanto Lazzarato fa parte del gruppetto di esperti del CIP (Coordinazione Intermittenti e Precari. Questa organizzazione para-sindacale intende imporre il suo modello leninista di avanguardia intellettuale ai capi delle commissioni, ma la riflessione globale sembra cedere il posto ad una banale perizia al fine di "dissezionare" gli accordi per l'assicurazione contro la disoccupazione. Lazzarato ha per lo meno il merito di fare lo schizzo di una riflessione globale quando osserva la scomparsa della piena occupazione e la generalizzazione della precarietà che si esprime con contratti a breve termine e mal pagati. Denuncia con pertinenza l'illusione di un ritorno alla piena occupazione difeso da Menger e dall'insieme della sinistra. Tuttavia, si guarda bene dal criticare le proposte del CIP e del suo guru Mathieu Grégoire, che propongono dei nuovi diritti volti alla gestione dello sfruttamento e della precarietà per renderli più accettabili. E' pertinente anche l'attacco di Lazzarato a Luc Boltanski e ad Ève Chiapello; questi due sociologhi che, nel nuovo spirito del capitalismo, tentano di separare le due forme di critica del mondo della merce: la "critica sociale" che denuncia la miseria, lo sfruttamento, le condizioni di lavoro e di vita e la "critica artistica" che mette in discussione l'alienazione nella vita quotidiana, l'artificializzazione dell'esistenza e il dispossessamento di sé. Osserva a giusto titolo, Lazzarato, che le due forme di critica si trovano legate nei movimenti di lotta e la loro separazione, e la contrapposizione fra questo due processi di soggettivazione, appare perciò sospetta.
Diventa più difficile seguire Lazzarato quando difende il movimento degli intermittenti e dei precari, senza alcuna distanza critica, e rifiuta di analizzare i limiti di una lotta corporativa. Questo movimento, in realtà, comprende ben pochi precari e, soprattutto, dei lavoratori nel campo del teatro che si vivono come artisti; essi preferiscono rivolgersi al piccolo ambito artistico ed ai direttori di teatro, piuttosto che cercare di incontrare i disoccupati, i precari e gli interinali degli altri lavori salariati. Lazzarato difende anche il nuovo modello di indennizzo che è coinvolto nella reinvenzione di nuove forme di sfruttamento, quando la sola prospettiva credibile, al contrario, sarebbe quella di un movimento dell'insieme degli sfruttati che abbatta il mondo della merce.
Tuttavia, la critica artistica dell'alienazione può uscire dall'individualismo piccolo-borghese per diffondersi nei movimenti sociali. Marcel Duchamp, nei suoi discorsi e nella sua pratica, attacca veramente il capitale e le sue evoluzioni moderne. Ma l'artista si accontenta di una postura individuale per arrivare a perfezionare un modo di vita confortevole. Duchamp, allora, diventa una merce esposta, come qualsiasi altra, valorizzata e digerita dal conformismo capitalista. Il rifiuto del lavoro deve estendersi a tutto l'insieme della popolazione, in quanto solo un movimento sociale ampio può attaccare davvero la logica della merce ed esprimere la creatività ludica ed il piacere.

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fonte: Zones Subversives. Le Printemps mondial vient

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