28 maggio 1963, Jackson, Stato del Mississippi, seduti al bancone-per-soli-bianchi del Woolworth's Five and Dime store, John Salter, Joan Trumpauer Mulholland ed Anne Moody. Tutti e tre provengono dal Toogaloo College - la storica università nera che negli anni '50 e '60 divenne uno dei centri di attività del movimento per i diritti civili dello Stato del Mississippi - dove John Salter, un nativo americano che più tardi assumerà il nome tribale di Hunter Bear Gray, insegna sociologia. Le due ragazze sono studentesse: Joan Trumpauer Mulholland è una dei due soli studenti bianchi di Tougaloo.
Il momento è stato catturato da Fred Blackwell, fotografo del Jackson Daily News, che si trovava seduto in fondo al bancone. Nella foto, si vede una massa di persone bianche che circondano il terzetto, cospargendolo di zucchero, di ketchup e mostarda. La cosa andrà avanti per circa tre ore, fino a quando il proprietario non chiuderà.
Guardate attentamente il giovane che sparge lo zucchero sui capelli ben pettinati di Joan Trampauer, e lo sguardo perso e allucinato di quello che gli sta accanto, guardate la faccia del ragazzo con la sigaretta in bocca, guardateli bene. Guardateli tutti. Rabbia, odio, disprezzo, apatia, insieme ad ignoranza e paura. Tutto questo in una fotografia scattata quasi 52 anni fa, a ricordare come per molti quella che si vorrebbe essere storia, è ancora memoria.
Solo un blog (qualunque cosa esso possa voler dire). Niente di più, niente di meno!
sabato 31 gennaio 2015
La memoria e la storia
venerdì 30 gennaio 2015
I bambini di Rosemary
Il mercato assurdo degli uomini senza qualità
- Presentazione del libro di Robert Kurz, "Le ultime battaglie" -
di Anselm Jappe
Il capitalismo sta volgendo al termine. La prova: la caduta dell'Unione Sovietica. La base di quest'analisi: la "oscura" critica del "valore" di un tale Karl Marx. Forse la lotta di classe e la lotta per la democrazia sconfiggeranno il capitalismo? La lotta di classe non è stata altro che il motore dello sviluppo capitalista e non potrà mai portare al suo superamento. La democrazia non è l'antagonista del capitalismo bensì la sua forma politica, ed entrambi hanno esaurito il loro ruolo storico. La caduta dei regimi dell'Est non significa il trionfo definitivo dell'economia di mercato, ma un ulteriore passo in direzione del declino della società globale della merce.
Queste, fra le altre, le tesi più audaci di Robert Kurz e del gruppo che insieme a lui pubblica in Germania la rivista Krisis. Si tratta, forse, dell'inizio di una vera rivoluzione teorica: perciò, confrontarsi con le idee di questo gruppo darà molto fruttuoso per tutti coloro che non considerano questa società l'ultima parola della storia, e che non sono soddisfatti di una critica che si limita a trascinare stancamente dei concetti che appaiono sempre più chiaramente superati. Partendo dall'intenzione di rinnovare la teoria marxista, Kurz ed i suoi amici si sono imbarcati in una vera e propria avventura della riflessione e, in questo percorso, hanno finito per abbandonare molte delle venerabili certezze di sinistra. Tuttavia, al contrario di altri tentativi di revisione della teoria marxista, qui non si tratta di "realismo" o di riformismo, ma di una nuova collocazione della critica radicale.
Il lavoro più strettamente teorico è stato sviluppato, finora, in venti voluminosi numeri della rivista Krisis (precedentemente chiamata Marxistische Kritik), pubblicati a partire dal 1986. Robert Kurz, in libri, articoli, conferenze e dibattiti ha presentato ad un pubblico più ampio diverse analisi dell'attuale crisi economica e politica. Con ventimila copie vendute de "Il collasso della modernizzazione", pubblicato nel 1991 grazie ad Hans Magnus Enzensberger, le teorie di Krisis hanno cominciato ad essere ampiamente conosciute in Germania (*) (spesso, quelli che si sono mostrati più ricettivi nei confronti di Krisis, sono state persone di provenienza non strettamente marxista).
Il punto di partenza delle sue analisi si trova nei concetti marxiani di "feticismo" e di "valore" in quanto descrivono la trasformazione dell'attività umana concreta in qualcosa di astratto e puramente quantitativo come il valore di scambio, incarnato nella merce e nel denaro. Il "feticismo" non è, quindi, solamente un'illusione o un fenomeno della coscienza, ma una realtà: l'autonomizzazione delle merce che segue solo le sue proprie leggi di sviluppo. "Dietro" la processualità cieca ed auto-referenziale del valore non c'è nessun soggetto che "fa" la Storia. Ma, a differenza dello strutturalismo, Krisis non crede che il processo senza soggetto sia una legge fondamentale ed immutabile dell'esistenza, lo concepisce piuttosto come una fase storica necessaria, ma transitoria.
Nel n°13 di Krisis, Ernst Lohoff scrive: "L'attitudine contemplativa ed affermativa attraverso la quale Hegel fa sviluppare la realtà a partire dal concetto di Essere, è totalmente estranea alla descrizione marxiana (del valore). In Marx, il valore non può contenere la realtà, ma la subordina alla sua propria forma e la distrugge, distruggendo sé stesso in questo atto. La critica marxiana del valore non accetta il valore come un dato di base positivo, né lo difende, ma decifra come apparenza la sua esistenza auto-sufficiente. La realizzazione su grande scala della mediazione della forma merce non porta al trionfo definitivo di questa, ma coincide con la sua crisi." In altre parole: il "valore" contiene già nella sua forma essenziale (descritta nel primo capitolo del Capitale) una contraddizione insolubile che porta, inesorabilmente, anche se questo richiede molto tempo, alla sua crisi finale. Questa crisi sta cominciando davanti ai nostri occhi.
Un'importante conseguenza del riconoscimento della logica del valore come centro di tutte le crisi, è la critica del sociologismo e delle illusioni riguardo il soggetto. Lo sviluppo del capitalismo, con la dissoluzione di tutte le qualità che sembravano indissolubilmente legate alle persone, tende a separare le funzioni, come essere operaio o essere dirigente, dagli individui empirici: e Krisis accusa di sociologismo tutta la sinistra che considera i soggetti collettivi - come la borghesia ed il proletariato, con i loro interessi e la loro avidità di profitto - come attori di un sistema del quale sono solamente un ingranaggio. Invece di voler smascherare i veri interessi che si nascondono dietro gli imperativi tecnologici o del mercato, Krisis denuncia, come radice del male, l'esistenza di tali imperativi, osservando che attualmente non c'è nessuna proposta che vada oltre la formula della distribuzione quantitativa o della rivendicazione di maggior "giustizia". Questo, però, è completamente inutile: chiedere prezzi equi (ad esempio, per il Terzo Mondo) è tanto insensato quanto chiedere una pressione atmosferica giusta, poiché significa riferirsi a qualcosa che non è un soggetto, come se lo fosse. Il vero scandalo è la trasformazione di un oggetto concreto in un'unità di lavoro astratto e poi in denaro.
Così "l'addio al proletariato" viene ad essere definitivo: come gruppo sociale basato su condizioni identiche di lavoro, di vita, di cultura e di coscienza, il proletariato non è mai stato niente di più che il principale prodotto del capitalismo, se non un residuo feudale. Con la sua lotta per integrarsi pienamente nella società capitalista, in realtà il proletariato l'ha aiutata ad andare avanti e a raggiungere la sua piena realizzazione. Il movimento operaio e le sue ideologie non sono andate oltre l'orizzonte della società del valore, avendo giocato un ruolo centrale nella trasformazione degli individui in mere monadi, in particelle formalmente uguali e libere.
Da questo punto di vista, le presunte rivoluzioni dei paesi dell'Est e del Terzo Mondo, ma anche il fascismo ed il nazismo, possono essere interpretate come processi tardivi di modernizzazione e come tentativi di ristrutturazione accelerata di tali paesi, secondo le esigenze imposte dalla merce. Krisis non solo include in questo giudizio tutto il marxismo, perfino le sue correnti critiche, ma stabilisce anche una distinzione all'interno della teoria dello stesso Marx: il concetto di lotta di classe era, in fondo, una teoria di liberazione del capitalismo dai suoi residui pre-capitalisti, nella misura in cui è nella teoria del valore e del feticismo che Marx ha anticipato una critica che solo oggi acquisisce piena attualità.
E' inutile esigere più democrazia: la democrazia, intesa come uguaglianze e libertà formali, si è già realizzata e coincide con la società degli uomini senza qualità. Come la merce, tutti i cittadini sono misurati con lo stesso parametro: sono parti quantitative di una stessa astrazione. E pertanto, per la merce, e conseguentemente per la democrazia capitalista, è impossibile che tutte le parti siano uguali. Oggi, il compito non è la realizzazione della vera democrazia, sempre deformata dal capitalismo, ma il superamento di entrambi. Per Krisis, è inutile opporre le idee dell'illuminismo borghese, come l'uguaglianza e la libertà, ad una loro cattiva realizzazione, dal momento che già in queste idee riconosce una struttura creata dalla merce: il valore è sempre simultaneamente forma di coscienza, di produzione e di riproduzione.
Il movimento operaio ha sempre confuso il capitalismo con qualcosa che era solo una determinata tappa della sua evoluzione. Le lotte di classe erano conflitti di interesse che si sviluppavano sempre in un orizzonte di società della merce, senza metterla in discussione. Non poteva essere diversamente: il capitalismo era ancora in una fase ascendente, e non aveva ancora sviluppato tutte le sue possibilità, che avrebbero rappresentato un progresso effettivo se comparate alle fasi pre-capitaliste. Se il fordismo ha segnato il suo apogeo, è con l'informatizzazione che questo sviluppo entra definitivamente in crisi, e non solo sotto un aspetto particolare, ma in un aspetto centrale, che è la contraddizione insostenibile tra il contenuto materiale della produzione e la form ad essa imposta dal valore.
Quest'analisi ha permesso a Krisis di anticipare l'attuale crisi economica mondiale e di essere fra i primi a sostenere che la riunificazione delle due Germanie non poteva che condurre ad un disastro. L'Unione Sovietica, afferma Krisis, era pienamente integrata nel sistema mondiale della merce, ma non è riuscita più a resistere alla concorrenza del mercato mondiale a causa della pietrificazione delle stesse strutture di dirigismo grazie alle quali era prima riuscita a situarsi fra i paesi avanzati, ripetendo, a marcia forzata e sotto la direzione statale, il medesimo processo di accumulazione primitiva attraverso cui i paesi occidentali erano passati secoli prima, in maniera più lenta e quindi più morbida. Quando la coscienza occidentale inorridiva davanti al "totalitarismo", in realtà vedeva solo un'immagine concentrata del suo stesso passato.
La caduta dell'Unione Sovietica non dimostra la superiorità dell'economia di mercato di cui essa stessa faceva parte, ma evidenzia che si tratta di una gara il cui numero ristretto di partecipanti si riduce costantemente a causa della necessità di un impiego sempre maggiore delle tecnologie per poter produrre ad un costo competitivo, e che gli esclusi finiscono in miseria. La simultaneità della crisi economica e di quella ecologica, così come la tendenza ad una piccola guerra civile mondiale, sono conseguenza del fatto che le attuali capacità produttive, le più elevate che siano mai esistite, devono passare per la cruna dell'ago della forma astratta del valore e delle capacità di trasformarsi in denaro. Nessuna strategia che non miri all'abolizione di questo stato di cose potrà arrivare ad un cambiamento reale. Krisis pertanto non nutre alcuna speranza nelle diverse opzioni politiche attualmente disponibili sul mercato.
Dalla tesi per cui tutta la storia fino ad ora è stata, più che storia della lotta di classe, la storia delle relazioni feticiste, consegue che fino ad ora non è stata possibile la formazione di alcun soggetto. Non esiste nessun polo positivo "in sé" - il proletariato, o il Terzo Mondo, le donne, o la vita dell'individuo - che sia sufficiente per arrivare ad appropriarsi del mondo. Non si può andare a trovare il soggetto nel passato, ma è possibile che questo nasca a partire dal superamento della "seconda natura" in cui si è trasformata la società.
Il tentativo di leggere la storia come una "storia di relazioni feticiste", in cui il valore ha preso il posto della terra, della parentela di sangue e del totemismo, in quanto forme nelle quali si esprimeva la potenza umana incosciente di sé stessa, conduce all'affermazione per cui questa preistoria dell'umanità sta arrivando alla fine. Tutte queste forme si sono convertite in una seconda natura, come strumenti indispensabili all'uomo, per differenziarsi dalla sua prima natura. Ma oggi è possibile, e anche necessario, procedere ad una seconda umanizzazione, questa volta cosciente. Se sono le relazioni feticiste quelle che hanno finora fatto la storia e che hanno creato, insieme alle relazioni di produzione, anche le forme corrispondenti della coscienza, allora non è più necessario ricorrere a sofisticate teorie di manipolazione per spiegare come le classi dominanti siano riuscite ad imporre alla maggioranza, nel corso dei millenni, un sistema di sfruttamento.
(*) nota: di Kurz vale la pena sottolineare: "La vendetta di Honecker" (1991), "Il ritorno del Potemkin" (1993) - entrambi sull'impossibilità della riunificazone tedesca - e la raccolta di articoli "L'ultimo spenga la luce" (1993). Una serie di articoli di Peter Klein sulla Rivoluzione di Ottobre, pubblicati nei numeri 3 e 6 di Krisis, sono stati raccolti in un libro dal titolo "Die Illusion von 1917" (1992). Un volume collettivo sulla democrazia ed i suoi estremisti di destra è stato pubblicato col titolo "Rosemaries Babies" (1993).
Anselm Jappe – 31/12/1998 -
fonte: Krisis
giovedì 29 gennaio 2015
Costellazioni
"Se il cinema, da un lato, aumenta la comprensione delle costrizioni che governano la nostra esistenza, dall'altra ci assicura un ambito di azione inaspettato ed enorme. Le strade e le taverne delle nostre grandi città, i nostri uffici e le stanze ammobiliate, le stazioni ferroviarie e le fabbriche intorno a noi sembravano averci imprigionato senza più speranza di uscirne. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile ad un carcere; così noi siamo in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi tra le sue sparse rovine (...) La natura che parla alla cinepresa è diversa da quella che parla all'occhio." (Walter Benjamin - da "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica")
"Costellazioni" è una "riflessione per immagini" intorno ad alcuni concetti centrali dell'opera di Walter Benjamin; un insieme di citazioni audiovisuali - spezzoni filmici, fotografie, dipinti, registrazioni audio, animazioni, documenti storici ... - montati secondo una metodologia che lo stesso Benjamin ebbe a sviluppare. Diviso in sei capitoli, il film si accompagna ad una sorta di manuale (che si può leggere qui), di istruzioni per l'uso, che spiegano il senso e la provenienza dei diversi materiali utilizzati:
1. Illuminazione profana. Una teoria della conoscenza (00:45)
2. Città. L'esperienza della vita moderna (08:31)
3. Passaggi. I labirinti della merce (13:02)
4. Riproducibilità tecnica. Sulla distruzione dell'aura (17:28)
5. L'autore come produttore. Estetizzazione della politica e politicizzazione dell'arte (25:00)
6. Tesi sulla filosofia della storia (37:44)
Walter Benjamin. Constelaciones
Dirección y guión: César Rendueles y Ana Useros
Producción: Juan Barja
Imagen y montaje: Miguel Balbuena
Coordinación: Laura Manzano y Silvia Martínez
Ayudante de producción: Elena Guembe
Año: 2010; Duración: 46 minutos
mercoledì 28 gennaio 2015
Lucifero e la sfida della sofferenza
La Barbarie non è inevitabile
- in memoria di Robert Kurz (1943 - 2012) -
di Claus Peter Ortlieb
Robert Kurz è morto il 18 luglio 2012, all'età di 68 anni. Tutto sta ad indicare come l'influenza dell'opera di una vita continuerà ben oltre la sua morte. Tanto l'influenza suoi scritti, quanto l'influenza diretta esercitata da Robert Kurz sulle persone che lo conoscevano, appare evidente dai molti necrologi. Un'influenza che derivava essenzialmente da una relazione con le sue conoscenze e con le sue convinzioni, insuscettibili di essere corrotte o strumentalizzate, come constata Daniel Späth:
"Da quando lo conosco non l'ho mai visto utilizzare la sua straordinaria posizione teorica al fine di interessi tattici di potere, o considerare la critica come luogo di realizzazione di sensibilità personali; l'arroganza e il culto del proprio ego gli erano profondamente estranei. Che questa accusa a volte sia stata mossa contro di lui da parte di alcuni compagni e compagne di viaggio, va attribuito, in una certa misura, al desiderio di dislocare sul piano personale quelle che erano delle differenze oggettive di contenuto e le sue forme di decisione necessariamente veementi. Giacché, per quanto polemici fossero i suoi testi ed i suoi libri, dal loro spirito raffinato e dalla loro convincente inesorabilità poteva derivare un contrasto sul contenuto e sulla sua trasformazione in critica radicale, ma non la necessità dell'autopromozione di una mera denuncia. Per quanti che siano stati i confronti violenti,a volte spiacevoli, che Robert Kurz ha avuto nella e con la sinistra, egli non ha mai perso la speranza che questa sinistra si potesse liberare dai suoi residui borghesi, per realizzare finalmente il progetto di una 'anti-modernità emancipatrice'."
E' stata l'unità fra persona ed opera e, di pari passo con questa, l'assenza di ricerca di potere e di vantaggi personali, a conferire importanza all'impatto che Robert aveva nel suo campo d'azione e nei progetti cui partecipava, ma anche a fargli guadagnare dei nemici, come ebbe a constatare Heribert Böttcher, nel corso de suo elogio funebre:
"La sfida alla sofferenza umana non fece diventare Robert un moralista, ma gli diede da pensare. Lo portò ad un'analisi che gli permise di riconoscere cos'è che costituisce il male della situazione nella storia del capitalismo: la valorizzazione del valore come fine in sé stesso irrazionale, e - come poi assunse dal pensiero di Roswitha - la dissociazione delle attività che servono alla riproduzione della vita. Valore e dissociazione costituiscono il dominio astratto di un soggetto automatico che condanna le persone all'impotenza e all'apatia. E' importante distinguere fra quello che viene inteso, categorialmente, come essenza del capitalismo nel contesto formale del valore e della dissociazione, lavoro astratto, Stato, soggetto, ecc., e quello che può essere descritto come una sua manifestazione. Le alterazioni sul piano delle manifestazioni non raggiungono il contesto formale né, quindi, il dominio astratto. Con un simile riconoscimento, tuttavia, restano bloccate le strade del conforto e del sollievo. Resta bloccata la via di fuga verso l'immediatezza, tanto stanca quanto semplicistica, dell'attivismo politico, o verso la partecipazione alle campagne dei movimenti sociali. Non ha senso invocare un lavoro buono contro un lavoro alienato, o la Stato contro il mercato, o il soggetto contro l'oggetto. Un polo non è la soluzione all'altro polo, ma è parte del problema che dev'essere risolto.
Rispondere in forma moralistica e attivista alla sfida della sofferenza delle persone nel capitalismo appare concreto. In realtà, questa risposta è astratta in senso cattivo, in quanto astrae la mediazione oggettiva che fa soffrire le persone sulla propria pelle. Insistere sulla mediazione oggettiva della sofferenza degli esseri umani nel capitalismo e, quindi, sull'indispensabilità della teoria è una cosa talmente lucida che può portare a qualificare una persona come Lucifero. Il portatore della luce viene trasformato in Satana. Chi porta la luce della conoscenza in un sistema dal funzionamento cieco subisce il rifiuto, la diffamazione e l'ostilità da parte di quelli che si aggrappano alla presunta sicurezza delle categorie e strategie familiari dell'azione, non riuscendo così ad abbandonare le idee illusorie ed irrazionali che pretendono superare il capitalismo dentro il capitalismo.
Non è per caso che il pensiero di Robert sia stato anche sempre circondato dall'ignoranza e dall'ostilità, dal sarcasmo e dal dileggio, così come dalle accuse di rimozione della pratica e di mancanza di comunicazione. Tuttavia, Robert ha insistito nella ricerca della verità di quello che doveva essere riconosciuto. Ha resistito - per usare le parole di Adorno - 'alla compulsione quasi universale che confonde la comunicazione della conoscenza con la conoscenza e, eventualmente, dà più importanza alla comunicazione rispetto alla conoscenza'. Ha insistito sul fatto che: 'il criterio della verità non sta nella sua immediata comunicabilità a tutti.'
Resistere alle inimicizie e restare fermo davanti alle ostilità, è possibile soprattutto alle persone orientate, nel loro intimo, verso la forma contemplativa - la contemplazione intesa come tentativo persistente e resistente di andare fino al fondamento delle relazioni, come espressione della volontà indomabile di conoscenza teorica, ossia, di una conoscenza che mantenga lo sguardo sulla totalità. Questo non viene fatto per amore di conoscenza privata, ma per portare agli altri la conoscenza o, nel linguaggio del misticismo, ‘contemplata aliis tradere’, per portare agli altri quello che è stato contemplato. Nell'interesse della conoscenza e dell'umanità, bisogna sperare che la conoscenza che Robert ha lasciato a noi e al pubblico possa essere appresa e sviluppata, e che ottenga il riconoscimento che a lui è stato molte volte negato in vita. Speriamo che ci sia ancora tempo perché il pensiero di Robert possa dare i suoi frutti, per poter mettere fine a quello che egli ha descritto come una catastrofe che sta diventando realtà."
Fin dall'inizio, l'opera teorica di Robert ha definito l'esigenza del riconoscimento della teoria come un movimento autonomo e costitutivo dell'emancipazione sociale. Come viene detto nel 1988, nel Manifesto "Auf der Suche nach dem verlorenen sozialistischen Ziel" [In cerca dell'obiettivo socialista perduto]:
"Ma il ruolo di questa piena di produzione teorica non è mai stato quello di cantare la loro propria canzone alle forme di socializzazione capitalista, sviluppate fino alla riconoscibilità, in maniera da portarle alla ribalta. La teoria non ha mai veramente ottenuto il suo diritto, in quanto non è stata mai riconosciuta come un momento che avesse un proprio peso nel movimento di emancipazione sociale. La sinistra, a fronte delle circostanze esistenti, ha cantato solo le varie canzoni dei propri sogni, dichiarazioni di intenti e prestidigitazioni politiche nella teoria degradata a mero STRUMENTO. La scienza rivoluzionaria ha perso il suo orgoglio e i suoi artigli, poiché, nel suo insieme, è stata sistematicamente abbassata a Cenerentola delle premesse politiche e delle forme sociali di vita, ascientifiche e prescientifiche, che essa doveva servire in quanto serva della legittimazione. Dal momento che non passava per essere un mezzo per il raggiungimento di obiettivi sociali politici - i quali, essi stessi, restavano fuori dalla portata della riflessione critica - la teoria rivoluzionaria doveva perire. La comprensione della teoria di sinistra, nonostante tutte le dichiarazioni di intenti socialisti e comunisti, rimaneva in ultima analisi una comprensione borghese, positivista. Gli stessi obiettivi politici soggettivi erano sempre già presupposti alla teoria, invece di dover essere da essa dedotti. Questo sdentatamento metodologico, nell'intendere la teoria, e la falsa immediatezza della volontà politica portavano il segno dell'immanenza borghese, anche quando la sinistra non si era ancora rivelata nella sua più recente cittadinanza tricolorata."
La questione della relazione fra teoria e prassi si rivelò essere, nello sviluppo della critica della dissociazione e del valore, fonte principale e fiamma perpetua di malintesi e di inimicizie, perfino nei necrologi, nei quali Kurz è stato accusato di "rimozione della prassi" e di "essersi rinchiuso in una torre d'avorio teorica sempre più alta". Il testo "Grigio è l'albero d'oro della vita, e la teoria è verde" che si misura con tali accuse, così conclude:
"Una vera e propria auto-presunzione della riflessione teorica sarebbe la pretesa di voler "derivare" il superamento del capitalismo, perché significherebbe ancora una volta una ricaduta nell'oggettivizzazione della teoria della struttura; tutto il "derivabile" rimane di per sé prigioniero nel campo dell'immanenza capitalistica. Lo stesso vale per un'intenzionalità "esistenziale" avente la sua base nella teoria dell'azione e che sia indifferente all'oggettivizzazione reale feticista. Al contrario, l'intenzionalità della trascendenza deve affrontare proprio la falsa oggettivazione dominante; e questo è possibile solo nella misura in cui la riflessione teorica, in quanto tale, viene fermamente praticata, in modo continuato, anche al di là di sé stessa. Perciò si richiede una distanza cosciente della teoria critica rispetto a tutta la prassi che incontra.
La pretesa illusoria di smorzare questa distanza arriva da due direzioni. Da un lato, proviene dagli "attivisti" della stessa prassi, che si interrogano insoddisfatti sul "valore alimentare" della teoria riguardo i loro atti e le loro azioni apparentemente auto-evidenti. In questo caso, spesso non si tratta di portatori diretti di resistenza sociale sul fronte della crisi della socializzazione negativa, ma si tratta semmai di poli-attivisti, "circoli" (N.d.T.: "centri sociali") ecc. di sinistra che normalmente si trovano, essi stessi, per lo più in una relazione esterna in rapporto alle lotte sociali, oppure che solo le simulano. Falliscono nella loro possibile attività di mediazione, o agiscono semplicemente come quegli organizzatori di cui parlava Adorno. Ma, d'altra parte, la falsa pretesa della prassi proviene dalla stessa elaborazione teorica, quando i suoi portatori non mantengono la giusta distanza ed hanno nostalgia di una fusione con le forme di prassi esistente, le quali vengono facilmente mistificate. In entrambi i casi, la teoria critica diventa veramente superflua, oppure viene trasformata in un mero "sermone domenicale", come una sorta di letteratura edificante per operazioni di attivismo che, in fondo, si diffonderebbero anche senza di essa, con la loro azione di per sé legittimata, e che stanno a loro agio nella grettezza. La critica teorica può anch'essere ostracizzata a partire da tali stati di coscienza; come diceva Marx nella prefazione alla prima edizione del Capitale, anche per essa vale il "motto del grande fiorentino": Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!"
In tutti i progetti cui Robert Kurz ha partecipato con i suoi scritti ha sempre promosso lo sviluppo della teoria, al di là della discussione. E' il caso anche del suo ultimo libro, "Denaro senza valore", finito di scrivere poco tempo fa e pubblicato poco dopo la sua morte. Le innovazioni che vi si trovano, sono espresse già nel sottotitolo "Linee generali dei Fondamenti per una Trasformazione della Critica dell'Economia Politica". Robert ci ha lasciato un'eredità la cui assimilazione richiederà ancora molto tempo.
Per tutto il libro Robert Kurz si confronta con la "Nuova lettura di Marx" (M. Heinrich, fra gli altri) e con la "Ortodossia recente" (W.F. Haug, fra gli altri), cui attesta, ugualmente, un "più o meno chiaro allontanamento da Marx": Nell'introduzione del libro, scrive in proposito:
"In questo confronto si deciderà se avrà luogo una trasformazione della teoria di Marx nel senso di una rivoluzione teorica oppure se tale trasformazione avrà luogo nel senso di un revisionismo di nuovo genere. Al centro di questo processo si trovano necessariamente le categorie fondamentali della critica dell'economia politica ed il loro statuto. Si tratta quanto meno di cinque complessi di quedtioni che devono essere trattati e chiariti in tal senso, dal momento che il presente saggio non può fare altro che delimitare in maniera preliminare il terreno, al fine di fornire una rassegna delle principali linee dell'inevitabile conflitto teorico.
Il primo complesso riguarda la questione di sapere in che misura le categorie di Marx non rappresentano categorie meramente teoriche, ovvero un 'modello' meramente ipotetico, ma sono categorie reali o, per dirla con Marx, 'forme oggettive di esistenza', cui corrispondono 'forme oggettive di pensiero'. In quest'ultimo intendimento, però, la differenza fra la relazione storica reale ed il suo riflesso teorico non è ancora del tutto regolata. Viene fuori che nella teoria, lo statuto delle categorie è diverso dalla realtà. Ne consegue il famoso 'problema di esposizione' nello sviluppo sequenziale della teoria di Marx, che è stato tirato in ballo dalla Nuova Lettura di Marx, ma che non è mai stato in alcun modo risolto adeguatamente.
Il secondo complesso si riferisce alla storicità delle categorie in un senso duplice. Da un lato quello che è in questione è il loro statuto nella storia premoderna o pre-capitalista. Devono essere intese come trasversali alle formazioni, o addirittura trans-storiche, almeno per le culture cosiddette superiori a partire approssimativamente dalla rivoluzione neolitica? Oppure si applicano in senso rigoroso solo al capitalismo? Alla fine, in che cosa consiste la differenza? E come può essere tradotta in categorie, la costituzione storica primordiale del capitale? Dall'altro lato dev'essere determinato lo statuto delle categorie in seno alla storia interna del capitalismo. Si tratta di forme di esistenza dinamiche in sé, che nell'astrazione teorica possono solo apparire come sempre uguali? Oppure sono in sé statiche, in un modo tale per cui si confrontano con una storia di avvenimenti esterni e meramente empirici? Dalla risposta a questa domanda dipende non solo il sapere se è del tutto possibile un'esposizione definitiva del 'capitale in generale', ma dipende anche di sapere se esiste un limite storico interno alla valorizzazione del capitale (teoria della crisi).
Il terzo complesso attiene alla relazione fra le categorie e la totalità capitalista, ovvero il 'processo globale' (Marx) del capitale che viene trattato solo nel terzo volume dell'opera principale di Marx. Qui la questione dello statuto delle categorie si riferisce alla relazione fra la particolarità e la generalità sociale. Si ritiene che le categorie della critica dell'economia possano essere rappresentate concettualmente nella merce particolare e nel capitale individuale? Oppure, all'inizio, si tratta di categorie della totalità che, in quanto tali, si applicano solamente al tutto, e quindi deve sembrarci errata la prospettiva dei soggetti economici individuali e della loro attuazione? Ciò significherebbe anche che il concetto di 'valore individuale' di Marx è errato, e che è dovuto solamente al suo 'problema di esposizione', dove implicitamente ed involontariamente si manifesta 'l'individualismo metodologico' delle scienze sociali borghesi, bloccando così la prosecuzione della rivoluzione teorica.
Il quarto complesso misura lo statuto delle categorie nella relazione fra essenza ed apparenza. Si tratta, nel caso, delle categorie della critica dell'economia politica, delle determinazioni, da parte dell'essenza, di un 'apriorismo trascendentale' che non può manifestarsi, in quanto tale, sotto forma immediata, ma che costituisce ancora la realtà sociale? Oppure i fenomeni capitalistici possono essere compresi nelle categorie in forma diretta, ed esistere in forma indipendente? Come categorie reali trascendentali non possono essere empirici, e se venissero intesi come empirici non necessiterebbero di una definizione trascendentale. Nella prima comprensione, la teoria e la conoscenza empirica non possono fondarsi l'una sull'altra, ed i fenomeni devono innanzitutto essere decifrati; nella seconda comprensione, l'essenza e l'apparenza - ed insieme ad esse anche la teoria e la conoscenza empirica - coincidono in maniera immediata, oppure sono le stesse categorie ad essere immediatamente empiriche. In tal caso, esistono, per così dire, solamente i fenomeni, da un lato, e la loro osservazione 'scientifica'. dall'altro.
Il quinto complesso costituisce in qualche modo la conclusione della comprensione categoriale totale. Lo statuto delle categorie della critica dell'economia politica, sarà positivo o negativo? 'Positivo', qui dev'essere inteso nel senso di un'oggettività esterna neutra con cui si confronta il soggetto della conoscenza. E' questa la costellazione fondamentale del mondo della scienza, che esclude il concetto di critica e, insieme ad esso, a ben dire, esclude anche il sottotitolo del Capitale di Marx. La critica, in questo caso, dev'essere sostituita da un'etica ugualmente esterna. In questa prospettiva, le categorie non sono solo meri modelli di pensiero (come viene suggerito nel primo complesso), ma stanno anche relazionate ad un'oggettività indiscutibile, le cui 'leggi' devono solamente essere identificate e trattate in forma strumentale. Se, al contrario, lo statuto delle categorie fosse negativo, allora anche la loro conoscenza sarebbe solo negativa, ossia, potrebbe avvenire solo nel modus della critica nei confronti del proprio oggetto che dev'essere distrutto, e le cui 'leggi' devono essere abolite.
Da questa breve rassegna risulta già che la prosecuzione della rivoluzione teorica di Marx sarà, in termini epistemici, fondamentalmente critica della scienza, e dovrà farla finita con qualsiasi comprensione positivista del capitale, comprensione positivista che è stata anche caratteristica del marxismo del movimento operaio (tanto dell'ortodossia, quanto del revisionismo), e dovrà rinascere allegramente dalle ceneri in una forma post-modernamente riformulata. Un momento essenziale, in questa abolizione del pensiero positivista, è costituito dalla critica radicale dello 'individualismo metodologico', non solo come si è detto prima, nel terzo complesso, ma anche come momento comprensivo di tutti gli aspetti di una nuova interpretazione della critica dell'economia politica."
Il programma così formulato viene realizzato nella realtà nel Denaro senza Valore e nel concetto di denaro. C'era già denaro molto tempo prima del capitalismo, cosa che fa sì che le categorie capitalistiche che oggi si manifestano nel denaro (lavoro astratto, valore, forma merce) vengano frettolosamente pensate come trans-storiche, come se fossero esistite "da sempre". E' un errore, perché il denaro, nelle relazioni precapitalistiche, svolgeva un ruolo completamente diverso, in quanto "oggettività sacrificale simbolica"; non era denaro nel senso attuale, non rappresentava alcun valore. Anche nello sviluppo della società borghese, dai primordi dell'età moderna fino al capitalismo industriale sviluppato, la finzione sociale del denaro ha subito delle metamorfosi. Da questo risulta chiaramente, ancora una volta, che il capitalismo ha una storia interna e non è la ripetizione del sempre uguale. "Denaro senza Valore", pertanto riveste una duplice importanza: non solo descrive il passato, ma anche lo sviluppo futuro dell'auto-svalorizzazione del valore, e della "crisi storica del denaro" che in tal modo si manifesta.
Il libro si chiude con le tenebrose prospettive che si manifestano a partire da un "ritorno dell'arcaico" contro la "regressione" predominate "sul terreno del feticcio del capitale che non è più in grado di riprodursi":
"Chi afferma ancora che il feticcio del capitale e la sua 'ragione' immanente siano stati un passaggio positivo nella storia dell'umanità (come avviene per gli idealisti dello scambio, in quanto idioti storici dell'ideologia dell'illuminismo) dev'essere definito, nelle condizioni del XXI secolo, come un maniaco post-religioso, che non è secondo a nessun altro maniaco pseudo-religioso di quest'epoca. Tale ragione viene naturalmente distrutta per sua stessa conseguenza storica. Questo stato di emergenza della moderna relazione sacrificale paradossale - che in passato emergeva periodicamente - è già diventato lo stato normale per la maggioranza delle persone, nella società globale dell'inizio del XXI secolo, ed avanza passo dopo passo nei centri capitalisti. Fin ben dentro alla sinistra, si nota un'identificazione irrazionale e panica con la relazione sacrificale fondamentale, dal momento che le persone sono state istruite, perfino intellettualmente, nella categorie di questa relazione, ed hanno rimosso l'altro Marx della critica radicale del sistema della 'ricchezza astratta'.
La fuga verso la cogestione della crisi può portare solamente alla complicità con il sacrificio umano, prima consumato oggettivamente e poi, alla fine, con piena coscienza; non è più il sacrificio di energia lavorativa astrattizzata - fino a quando il materiale umano spremuto non cade morto - ma, dopo che questa compulsione costrittiva è diventata oggettivamente obsoleta, è solo 'eutanasia' nei confronti della masse dei non utilizzabili in termini capitalistici, che ora devono assumere tratti anomici. Dopo che il denaro è stato trasformato, da vittima simbolica, in oggettività generale del valore nel sistema del 'lavoro astratto', ora il 'denaro senza valore' può regredire a relazioni quasi arcaiche su questa base svalorizzata, desustanzializzata, che tuttavia non è più sottomessa a un qualche rituale limitato, ma finisce in una mattanza ed in una decivilizzazione incontrollata. Se le metamorfosi del denaro, nel passaggio dal sacrificio umano all'oggetto simbolico di sostituzione, hanno costituito un processo parziale di civilizzazione sulla base non soppiantata delle relazioni di feticcio, il feticcio del capitale ha ora innescato un movimento sacrificale reificato che ha come risultato la regressione di ogni elemento civilizzatore della precedente storia umana. Se comparati con i burocrati del sacrificio sull'altare del feticcio del capitale globale, all'epoca del suo limite storico interno, i sanguinarsi sacerdoti aztechi, al confronto, appaiono inoffensivi ed amichevoli."
Quanto è stato esposto fin qui, ovviamente non sono le conseguenze del processo di una legge naturale, come Robert Kurz non si stancava mai di ripetere: il feticcio del capitale è stato creato dagli esseri umani e quindi può essere da loro eliminato. La barbarie non è inevitabile!
Claus Peter Ortlieb
fonte: Ensaios e textos libertàrios
martedì 27 gennaio 2015
Il mulino ad acqua e l'albero che nasconde la foresta
Una piccola discussione sul materialismo storico
di Christophe Darmangeat
Il precedente post su "Arco, Nordamerica e complessità sociale" mi ha fatto guadagnare la mail di un amico. Troppo lunga per inserirla nei commenti, apro un nuovo post:
Buongiorno,
Come sempre, i problemi sollevati nel tuo blog sono di primaria importanza e questo - che si concentra soprattutto sulle relazioni fra tecnica e società - non fa eccezione. Il fatto che il post cominci con un libero "adattamento" della famosa frase di Marx - "Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale; il mulino a vapore, la società col capitalista industriale" - non è evidentemente un caso.
Senza entrare in una discussione generale di questa frase, direi che l'acutezza della formula ha portato a volte un po' lontano Marx... e noi. E' semplicemente un abuso, associare il Medioevo al mulino a braccia, quando fra esso ed il mulino a vapore si trova il mulino ad acqua ed il mulino a vento che sono molto più emblematici di quella società di quanto lo sia il mulino a braccia (che si associa piuttosto ad uno stadio molto più primitivo delle forze produttive). Mulini ad acqua ed a vento vengono, insieme, associati al Medioevo. Evidentemente, una discussione generale di questi punti ci porterebbe lontano.
Perciò torniamo a questo post e a questa prima frase. Essa oppone le società senza ricchezza alle società complesse (quando si dovrebbe parlare di società tecnicamente complesse) e stratificate. Una tale opposizione mi sembra molto bizzarra, e francamente aberrante; anche gli sviluppi di questa critica ci porterebbero lontano. Alain Testart rifiutava con forza il concetto stesso di società complessa (in opposizione a società semplice, cioè a dire primitiva).
L'idea di base del tuo scritto è quella di opporre la lancia col propulsore, all'arco, essendo il secondo associato ad uno stadio di sviluppo "superiore" della società. Noto innanzitutto che, malgrado i bei dipinti di Catlin, i tuoi riferimenti sono i popoli del sud del Nordamerica, e non tanto quegli Indiani della Pianure e delle Praterie che cacciano il bisonte, a cavallo ed armati di arco. Questi popoli hanno fatto un "tragitto storico" un po' bizzarro poiché sono ripassati da uno stadio di cacciatori che praticavano anche l'agricoltura ad uno stadio di cacciatori che conoscevano la ricchezza ed utilizzavano il cavallo. Sappiamo come questi Indiani cacciassero quelle bestie enormi che sono i bisonti quando non conoscevano il cavallo e si muovevano per mezzo di slitte trainate dai cani? Si trovavano nelle medesime condizioni dei cacciatori della preistoria europea che, per affrontare delle bestie imponenti, cacciavano per mezzo di lance con propulsori. Ma nei paesi dove non c'erano animali di grossa taglia, non era necessariamente così. Inoltre, mi sembra piuttosto che il cavallo favorisca l'uso dell'arco: è vero per gli Indiani delle pianure come è vero per tutti i popoli delle steppe (Mongoli, ecc.). Conosciamo, inoltre, numerosi esempi per cui dei popoli estremamente primitivi utilizzavano l'arco (Andamani, Boscimani, ecc.). E’ vero, al contrario, che pochi (forse nessuno?) popoli conoscevano la ricchezza utilizzando esclusivamente la lancia col propulsore.
Per riassumere, se la lancia col propulsore si trova, per cacciare, solo presso i popoli senza ricchezza, l'arco si trova sia nelle società del mondo I, che in quelle del mondo II (o III).
L'opposizione propulsore/arco sembra essere associata piuttosto ad una doppia opposizione: caccia/guerra e scarsa mobilità/cavallo. Non sono uno specialista di tali questioni, ma mi pare che la lancia col propulsore venisse utilizzata solo per la caccia, quando la lancia soltanto veniva utilizzata anche in guerra; mi sembra evidente che in guerra, la lancia col propulsore sia meno "efficace" dell'arco, anche solo per la lentezza ad essa associata - lentezza nel portare una serie di colpi. Una lancia ucciderà un avversario... se lo tocca, ma in un lasso di tempo molto lungo. Poiché dev'essere chiaro che le due cose messe in opposizione non si riferiscono alla stessa realtà: la caccia e la caccia-e-la-guerra. Gli archi sono anche delle armi da guerra, e possono essere temibili. Si sa che i cavalieri mongolo scoccavano delle frecce ad una cadenza assolutamente eccezionale (diverse decine al minuto) e prima dell'invenzione del Winchester a caricamento automatico, l'utilizzo del fucile era più lento di quello dell'arco.
Resta il fatto che, contrariamente a quanto ho detto sul Medioevo che conosceva diversi tipi di mulini, non conosco delle società dove si trovino utilizzati insieme sia la lancia col propulsore che l'arco. Forse era così nel Neolitico; può darsi che il propulsore sia stato "detronizzato" dall'arco che è stato in grado di adattarsi a situazioni differenti - visto che l'arco è uno strumento che si è enormemente evoluto ed è diventato rapidamente estremamente complesso tecnicamente, adatto sia alla fanteria che alla cavalleria...
Per tornare all'arco, rimane ancora un mistero: quello dell'Australia. L'arco non viene utilizzato affatto; sia la caccia che la guerra si fanno con le lance. Alain Testar difendeva l'idea di un rifiuto puro e semplice dell'arco, idea sorprendente ma logica per poter spiegare il basso livello di forze produttive che ha permesso il mantenimento del comunismo primitivo. Si potrebbe credere che gli Aborigeni non conoscessero affatto l'arco e non avessero mai avuto l'idea (per stupidità?) di inventarlo. Ora, anche se non avessero mai avuto tale idea (ignoranza generale delle proprietà elastiche dei corpi * ?), i vicini Australiani dello Stretto di Torres avevano visto degli archi all'opera, eppure non avevano mai adottato una tale tecnica. Mancanza di un legno adeguato da usare per costruire archi? Condizioni ecologiche inadatte alla caccia con l'arco? Si possono fare innumerevoli ipotesi ma rimane una domanda: per quel che riguardava le guerre fra le tribù (e sono state numerose), perché non aver fatto di tutto per avere degli archi, che sono di gran lunga più letali delle lance? In una società dove non c'erano schiavi o servi, dove non si facevano prigionieri, immaginiamo i danni (e gli stermini) che avrebbe fatto una tale arma; e poi, che ne sarebbe stato dei genitori, dove avrebbero trovato le loro mogli, i guerrieri? Ma i combattimenti erano assai più spesso dei duelli, e i duelli non si fanno con gli archi...
Associare un tipo di strumento, o uno stato di forze produttive, ad un modo di produzione o ad una formazione sociale è un'idea semplice, ma che può rapidamente diventare semplicistica. Il mulino ad acqua che ha giocato un ruolo (tecnico) assolutamente fondamentale per la "rivoluzione" del XI secolo, era già conosciuto e usato già dal secolo precedente (ed anche prima). I propulsori coesistevano con differenti tipi di arco in società molto simili. Un dato stato di forze produttive permette l'evoluzione da un modo di produzione ad un altro ma, reciprocamente, il passaggio da un modo di produzione ad un altro può permettere lo sviluppo di certe forze produttive. Non c'è un passaggio brutale da un modo di produzione ad un altro; c'è un passaggio di una società (formazione sociale, struttura complessa dei modi di produzione articolati gli uni sugli altri) ad un'altra dove le relazioni di dominio dei modi di produzione cambiano. Ma questa è un'altra storia...
* nota: Questa questione, da sola, merita una seria riflessione: alcuni popoli sembrano ignorare alcune proprietà della realtà che pertanto non appaiono loro "evidenti". E' così per la ruota per quanto riguarda il mondo sudamericano che ha portato ad un evidente blocco delle forze produttive (ma non della capacità di produrre oggetti di qualità, le ceramiche inca sono lì a dimostrarlo); è probabilmente così anche per quel che riguarda le proprietà elastiche dei corpi per il mondo australiano. Il problema ora è sapere il perché di tali blocchi cognitivi: mancanza di materiali adeguati, mancanza di interesse (vengono trovate altre soluzioni a dei problemi pratici che si sono rivelate essere dei freni per l'adozione di soluzioni più avanzate), ecc..
Questa lettera mi ispira molte cose, a cominciare dalla constatazione di come l'umorismo di secondo grado (N.d.T.: umorismo tipicamente francese, ironico e spesso discreto, nel senso che non viene esercitato come battuta, ma fa parte del tono con cui si parla) sia un'arte difficile da padroneggiare, soprattutto per iscritto. Il détournement della frase di Marx, che apriva il mio post, coleva essere largamente ironico; il seguito del testo mostrava il mio scetticismo circa il nesso di causalità che intercorrerebbe fra arco e trasformazioni sociali - scetticismo tanto maggiore alla luce dei meccanismi invocati, che si riferiscono non alla produttività del lavoro, ma alla possibilità di controllo sociale. Quindi per risponderti, sono convinto che la filosofia della storia proposta da Marx sia la cosa migliore, e che il cambiamento sociale sia in ultima analisi condizionato dal progresso tecnico, sono anche convinto che si può facilmente andare a finire nello schematismo e che ogni progresso tecnico non sia direttamente e meccanicamente sinonimo di trasformazioni sociali.
Riguardo l'arco, la mia ironia proveniva proprio dalla tua stessa constatazione, ossia che l'arco esiste in numerose società senza ricchezze. Aggiungerei a questo che certe società di ricchezza, o statali, hanno conservato il propulsore; è il caso dei soldati Maya e Aztechi. Presso i primi, a quanto pare è stata l'arma da lancio esclusiva, mentre presso i secondi veniva considerata l'arma nobile, ed era appannaggio delle unità d'élite, le altre unità erano equipaggiate con l'arco.
E' difficile stabilire con certezza i vantaggi dell'arco sul propulsore. Questo articolo di Pierre Catelain fa una diagnosi abbastanza sfumata. Seppure siano noti un certo numero di famosi inconvenienti, il propulsore possiede nondimeno due vantaggi innegabili (e troppo spesso dimenticati) sull'arco: 1) la quantità di movimento del suo proiettile, molto più letale quando viene lanciato. 2) il fatto che può essere maneggiato con una mano sola, permettendo quindi all'altra mano di reggere uno scudo... o una pala, come avviene presso gli Inuit, i quali sono un altro esempio delle società dove coesistono arco e propulsore, a seconda che si tratti di caccia terrestre o marina.
Un altro elemento attiene al fatto che il propulsore non possiede un margine importante di progresso tecnico, contrariamente all'arco; tra l'arco moderno, a pulegge e fatto di materiale sintetico, e l'arco mesolitico, c'è una considerevole differenza di efficacia. E non mi sorprenderebbe se la sostituzione relativamente rapida del propulsore, da parte dell'arco, in Nordamerica, si potesse attribuire in buona parte al fatto che l'arco in questione, importato dall'Asia, era direttamente un arco composito (ma credo che manchino elementi sufficienti per ragionare su questo punto). Inoltre, non so molto su come cacciassero il bisonte prima di possedere l'arco, ma chiaramente lo facevano (i siti archeologici abbondano di resti di bisonti nei millenni). Senza dubbio utilizzavano altre armi da lancio... in particolare il propulsore, la difficoltà consisteva nell'avvicinarsi (e, forse, nel non essere calpestati una volta individuati dal branco).
Il "mistero" del "rifiuto dell'arco" in Australia è, come sai, una questione che mi assilla da molto tempo e sulla quale non mi sono mai fatto convinto delle tesi di Alain Testart. Ho riunito degli elementi per tentare di scrivere qualcosa sul soggetto. Inizierò il prima possibile, a condizione che le feste di fine anno e le ultime modifiche del mio prossimo libro me ne lascino il tempo.
Infine, vorrei tornare sull'idea di Alain Testart, che tu riprendi, secondo la quale, contrariamente all'opinione corrente (riflessa nel vocabolario dei neo-evoluzionisti americani), l'evoluzione sociale non avverrebbe da forme semplici verso forme più complesse. Se non ricordo male, è negli "Elementi di classificazione delle società" che viene esposta quest'idea. Ora, gli argomenti presentati non mi appaiono sufficienti per arrivare ad un'adesione su questo punto.
Testart spiega soprattutto come le società primitiva, anche quelle senza ricchezza, non sono poi così semplici quanto spesso si crede ( e lo illustra con degli esempi di discussioni politico-giuridiche dove si verifica in effetti la complessità dei problemi e la sottigliezza sia delle rappresentazioni mentali che delle decisioni). Tutto questo è incontestabile, ma non prova affatto che tali società siano complesse come le nostre; solo che sono meno semplici di quanto si voglia credere per un pregiudizio corrente. La cosa è assai diversa. Sarebbe esattamente come se, per negare che l'evoluzione biologica ha prodotto delle complessità, si insistesse a lungo sulla complessità del funzionamento di una cellula. Quest'insistenza, per quanto legittima sia, non prova niente, poiché semplicità e complessità sono delle nozioni relative: il problema non è sapere se le forme primitive sono anche semplici, ma se esse sono più semplici (meno complesse) delle forme evolute.
Su questo piano, il solo argomento presentato da Testart è che il progresso della complessità non concerne altro che certe dimensioni della vita sociale (ad esempio, e soprattutto, la tecnica); se si considerano altre dimensioni, per esempio la parentela, l'evoluzione al contrario è avvenuta verso una maggiore semplicità. E' innegabile, ma credo che sia un argomento del tipo "l'albero che nasconde la foresta". L'evoluzione della complessità sociale di certo non concerne necessariamente sempre, e in tutti i luoghi, ogni dimensione della vita sociale; l'evoluzione biologica, anch'essa a volte ha semplificato alcune funzioni o certi organi. Questo non prova affatto, ad un livello più generale, l'assenza della tendenza all'accrescimento della complessità (quando compariamo un essere umano ad una singola cellula). Parimenti, la semplificazione cui l'evoluzione sociale talvolta ha dato luogo non deve nascondere che, globalmente, le società moderne sono più complesse, perché più differenziate, delle società di cacciatori-raccoglitori.
Infatti, la confusione deriva dal fatto che la nozione di complessità non viene chiaramente definita e che ci si può mettere o levare quel che si vuole a misura del ragionamento. Ora, anche se non ignoro affatto il dibattito acceso che ha avuto luogo su questo punto, continuo a pensare che sia lecito intendere la complessità sociale alla stessa maniera in cui si intende la complessità biologica, vale a dire che essa esprime la diversità delle parti (organi) che costituiscono il tutto e, di conseguenza, il grado di coordinazione necessaria al loro funzionamento collettivo.
Ma c'è almeno un punto a proposito del quale Alain Testart è stato costretto a riconoscere, per quanto implicitamente, la crescita tendenziale della complessità dell'organizzazione sociale: parlo dell'organizzazione politica, che egli ha qualificato come "minimale" in tutte le società senza ricchezza e che si sa che sono statali (quindi costituite da organi ed istanze specifiche) nelle società di classe.
che nel corso dei secoli, il coincidere del progresso della complessità sociale con quello della complessità tecnica, non siano semplicemente un caso, credo sia una banalità per chiunque non sia un idealista senza speranza. Rimane il fatto, e siamo d'accordo su questo, che la comprensione dettagliata delle interazioni fra queste due linee di progresso sollevi delle formidabili difficoltà, che non devono essere risolte con un colpo di mano dogmatico, ma considerate interamente, studiandone attentamente i diversi casi (in particolare, penso, quelli che sembrano i più paradossali ed intriganti... come il "rifiuto dell'arco" in Australia. Al lavoro, quindi...
- Christophe Darmangeat -
lunedì 26 gennaio 2015
Ombre Rosse
L'arco, il Nord America e la complessità sociale
di Christophe Darmangeat
"Il propulsore vi darà la società senza ricchezza; l'arco, la società complessa e stratificata." (liberamente adattata da Karl Marx)
Nell'immaginario occidentale, gli Indiani d'America rappresentano il prototipo per eccellenza della società di cacciatori con l'arco. I western, uno dopo l'altro, hanno stampato l'idea di un continente nordamericano popolato interamente da allegri selvaggi che vivevano in tepee, che galoppavano a dorso di cavallo e che scagliavano frecce contro le mandrie dei bisonti. Ora, questo cliche corrisponde solo ad una realtà molto limitata, sia nello spazio che nel tempo.
Tutti gli indiani non vivevano affatto in un western.
La prima cosa da dire è che il cavallo è stato un elemento di importazione piuttosto recente, dal momento che è arrivato solo con i primi conquistadores, all'inizio del XVI secolo. E bisognerà aspettare ancora per un buon secolo prima che quegli animali tornati allo stato selvaggio (i mustang) siano catturati e montati dai nativi. Se gli indiani sono diventati eccellenti cavalieri, questo è accaduto da molto poco tempo; fino ad allora non disponevano di alcuna cavalcatura (né di alcun animale da tiro) e, per mancanza di specie disponibili, avevano soltanto addomesticato il cane.
Ma il cavallo non è il solo falso dell'America indiana "tradizionale". Lungi dal vivere dappertutto di caccia e di raccolta, gli Indiani avevano sviluppato l'agricoltura su un parte molto grande del loro territorio. Tutto il bacino del Mississippi (dai Grandi Laghi fino al Golfo del Messico), su quasi tutte le terre situate sulla sua riva orientale, e in più una larga zona del Sud Ovest (corrispondente grosso modo agli attuali Nuovo Messico, Arizona e Colorado), erano luoghi di pratiche agricole anche molto avanzate, come, per esempio, un'irrigazione sistematica.
Infine, il nomadismo non era affatto generale. La sedentarietà riguardava sicuramente le tribù che praticavano l'agricoltura. Ma la sedentarietà era anche la realtà di numerosi popoli che vivevano nelle regioni dove abbondavano le risorse per la caccia, per la pesca e per la raccolta, che venivano fatte oggetto di uno stoccaggio sistematico. La costa Nord-Ovest, quella lunga zona situata fra le Montagne Rocciose e l'Oceano Pacifico, è anch'essa un esempio classico di questo - la risorsa principale era il salmone. Più a Sud, la California offre ugualmente molti esempi che rientrano in questa categoria. All'altra estremità del continente, nel sud della Florida, fioriscono gli incredibili villaggi permanenti dei pescatori Calusa.
In un certo numero di casi, la sedentarietà, che si appoggiasse o meno sull'agricoltura, aveva portato queste società verso quello che i neo-evoluzionisti americani chiamano "la complessità", e che si caratterizza per l'emergere di una stratificazione sociale a volte molto marcata o per un'architettura monumentale. La civiltà del Mississippi ha lasciato migliaia di tumuli che hanno richiesto una spesa colossale di lavoro sociale. Il suo più grande agglomerato, Cahokia, vicino all'attuale Saint Louis, ne conta da solo più di un centinaio; al suo apice, nel XIII secolo, aveva dai 20mila ai 30mila abitanti.
L'arco: un elemento di recente importazione
Ma c'è un altro aspetto, forse ancora più inaspettato, per cui l'America del Nord obbedisce solo imperfettamente ai suoi cliché: gli è che l'arco, quest'accessorio, per eccellenza, dell'indiano, in fin dei conti è stato solo un'innovazione molto recente. E' piuttosto difficile stimare l'antichità dell'arco: le materie organiche che formano l'arma, la corda e i corpi delle frecce si conservano molto male; più spesso si ritrovano solo le punte dei proiettili, che rimane difficile attribuire a delle frecce piuttosto che a delle zagaglie lanciate per mezzo di propulsori.
Eppure, se ci troviamo d'accordo nel pensare che in Europa gli archi più antichi risalgono almeno a 10mila anni prima della nostra era (cioè a dire all'inizio del Mesolitico), l'arco sembra che faccia la sua comparsa nell'America del Nord solo intorno al 3mila a.C.. Non è un'invenzione locale, ma un elemento di importazione, diffusosi lentamente a partire dall'Asia: le tracce più antiche si trovano perciò, naturalmente, in Alaska (la situazione appare differente in America del Sud, dove l'arco è stato senza dubbio inventato localmente - ma anche qui, si manca di certezze). In seguito l'arco si diffonde molto lentamente. Il suo utilizzo si estende poco a poco, nelle zone artiche, forse nella misura in cui gli antenati degli attuali Inuits si sostituiti ai precedenti occupanti; la costa orientale ci arriva intorno al 1500 a.C.. Manca qualsiasi elemento per conoscere il ritmo della progressione verso il sud. Tutta la zona detta subartica è troppo povera di resti archeologici per fornire informazioni affidabili. Bisogna scendere ancora un po' di più verso il sud - più o meno, lasciare il territorio dell'attuale Canada e addentrarsi negli Stati Uniti - per trovare elementi più affidabili. Qui, sono passati numerosi secoli; l'arco non sembra apparire nel Grande Bacino (ad Ovest, tra le Montagne Rocciose e la Sierra Nevada) che verso l'anno 200 della nostra era. Sulla costa Ovest e nelle Grandi Pianure - la regione dei Western - si diffonde solo verso il 500; tocca la costa Est verso il 600, ed il sud-est nel 700, forse l'800. Gli indiani del Nordamerica sono quindi degli arcieri tutto sommato recenti; per la maggior parte della loro storia, hanno cacciato (o si sono fatti la guerra) con il propulsore.
L'arco e la complessità sociale
Tornando al presente, all'emergere delle società dette complesse. Numerosi sono coloro ad essere stati colpiti dalla coincidenza per cui, nelle zone a priori senza influenze le une sulle altre, queste emergono in un ristretto lasso di tempo. Per parlare solo delle più emblematiche (e anche se si tratta di processi che si sono sviluppati minimo per diversi decenni), si situa la comparsa della civiltà Anazasi (nel su-ovest) e di quella dei Calusa, verso l'anno 800, quella dei Chumash della California verso l'anno 900 e quella del Mississippi verso l'anno 1000.
Tradizionalmente, vengono invocate due spiegazioni per questa fioritura: un cambiamento climatico ed una crescita della popolazione. Ma, similmente a quel che concerne la rivoluzione neolitica nel vicino Oriente, queste due tesi si prestano a numerose obiezioni - di cui qui non parlo, ci tornerò negli eventuali commenti o in un prossimo post.
Gli è che, negli ultimi anni, alcuni ricercatori hanno suggerito un'altra via di ricerca, facendo notare che, sull'insieme del territorio, la comparsa delle società complesse segue da vicino l'introduzione dell'arco. Secondo loro, non si può trattare di una semplice coincidenza: siamo di fronte ad un rapporto di causa ed effetto. Si sono perciò fatte due grandi ipotesi:
1 - l'arco avrebbe consentito un progresso nelle capacità di sfruttamento dell'ambiente, migliorando considerevolmente il rendimento della caccia. . E' il tipo di ragionamento più strettamente "marxista" (sottolineo le virgolette): un progresso tecnico, accrescendo le forze produttive, avrebbe indotto il cambiamento, se non dei rapporti di produzione, quanto meno delle forme sociali. Quest'ipotesi si presta nondimeno ad una evidente obiezione: non si vede bene come il miglioramento del rendimento della caccia potesse accrescere significativamente le capacità di produzione agricola o della pesca e, dunque, l'arco come avrebbe potuto avere un impatto sull'organizzazione sociale dei popoli agricoltori (Mississippi, Anasazi) o pescatori (Calusa).
2 - L'influenza dell'arco si sarebbe giocata intorno alla superiorità militare che esso conferiva ai suoi possessori. Una volta adottato da certi popoli, esso avrebbe costretto i loro vicini a formare degli insiemi più grandi (e, indirettamente, socialmente più differenti) al fine di potersi difendere. Quest'ipotesi, che si può definire militare, non sembra affatto assurda. Essa si presta nondimeno, fra le altre, all'obiezione per cui le società complesse non formano un continuum. Appare perciò difficile spiegare la loro comparsa a causa della pressione dei vicini.
Di fronte ai problemi sollevati da queste spiegazioni, è stata esplorata un'altra pista - per esempio, nel 2013, da P. Bingham, J. Souza e J. Blitz: quella detta della "coercizione sociale". Essa consiste nel dire che la dimensione di una società è limitata a priori dalle possibilità di conciliare (il più sovente con la forza) gli interessi e le aspirazioni degli individui non legati da strette relazioni di parentela. Aumentando l'efficacia e la disponibilità di violenza in seno ai gruppi umani, l'arco avrebbe permesso di stabilire dei gruppi più numerosi.
Confesso di essere sufficientemente scettico circa una tale ipotesi - per esempio, non sono convinto che la dimensione attuale dei raggruppamenti umani sia del tutto dovuta alle capacità di armamento che permetterebbero di legare gli individui che non giocano affatto al gioco sociale (descrivo qui, con parole mie, gli argomenti di Bingham ed altri). Ho anche la sensazione molto netta che dopo molti millenni, almeno, l'armamento non serve principalmente per impedire i comportamenti egoisti, ma semmai a preservare tali comportamenti contro l'interesse sociale generale - intendo parlare del ruolo dello Stato come difensore della classe dominante. Naturalmente, si vede che il problema oltrepassa la questione dei comportamenti individuali, a partire dai quali è ben difficile cercare di spiegare le strutture sociali.
Comunque, tutta questa discussione ha il merito di puntare il dito sul problema più generale delle relazioni fra tecnica, capacità produttive ed organizzazione sociale, sottomettendo un ulteriore caso alle nostre concezioni teoriche. Vorrei concludere senza alcuna risposta definitiva, ma con quattro punti:
1 - Quello che governa su questo problema, è l'ipotesi della determinazione dell'avvento dell'arco. Il ragionamento della forma delle punte dei proiettili è molto indiretto e, mi sembra, molto fragile. Non è quindi impossibile che l'arco abbia penetrato il continente molto più anticamente (o, perché no, più recentemente) di quando indicano le date - in ogni caso, che la sua coincidenza con l'emergere di forme sociali stratificate sia molto meno stretta di quanto le date riportate ci lasciano intendere.
2 - Così come per quanto riguarda la coincidenza apparente fra arco e complessità sociale, si può essere colpiti dal ritmo ineguale con l'arco avrebbe penetrato il continente. La sua diffusione, in partenza, sarebbe stata molto lenta: quindici secoli per coprire la zona artica, senza nessuna penetrazione verso la zona più temperata. Poi, in un paio di secoli, forse tre o quattro, si sarebbe diffuso sulla totalità del territorio. Quel quasi stallo iniziale appare intrigante quanto la rapida diffusione nel periodo recente.
3 - Credo che esista un contro-esempio molto evidente per quel che riguarda il legame fra arco e complessità sociale: si tratta della costa Nord-ovest, dove la stratificazione sociale sarebbe apparsa nel secondo millennio prima della nostra era, ossia duemila anni prima dell'arrivo presunto dell'arco (sì, naturalmente, se l'arrivo è datato correttamente). Se queste date venissero verificate, ciò indicherebbe che l'arco può tutt'al più essere una causa fra tante della complessità sociale, ma una causa né necessaria, né sufficiente.
4 - Più in generale, appare chiaro che l'evoluzione sociale è una risultante complessa e, per il momento, molto malintesa, dell'interazione fra più fattori; se così non fosse stato, la variabile unica capace di spiegare in maniera soddisfacente la più parte delle situazioni, sarebbe stata identificata da molto tempo. Ora, tutti i candidati sono stati uno ad uno bocciati. Che la tecnica sia uno di questi fattori, ed uno dei più decisivi, così come lo sottolineava Marx, mi sembra incontestabile. Ma nessuno di questi fattori agisce da solo e la relazione fra tecnica e forme sociali non si lascia per niente comprendere attraverso una semplice formula generale. Capire meglio queste relazioni è senza dubbio una delle questioni più difficili (ma è anche la più essenziale e la più stimolante) dell'antropologia sociale.
- Christophe Darmangeat -
Riferimenti:
John H. Blitz, « Adoption of the Bow in Prehistoric North America », North American Archaeologist, vol. 9(2), 1988.
Paul M. Bingham, Joanne Souza, John H. Blitz, « Social Complexity and the Bow in the Prehistoric North American Record », Evolutionnary Anthropology 22, 2013.
Bruce Owen, « Bows and Spearthrowers in Southern Peru and Northern Chile: Evidence, Dating, and Why it Matters. », 63rd Annual Meeting of the Society for American Archaeology, Seattle.
domenica 25 gennaio 2015
Rompere l'incantesimo!
Confusione di Crisi
Lettera aperta alle persone interessate ad EXIT! nel passaggio dal 2014 al 2015
di Claus Peter Ortlieb
Nei due anni successivi alla morte di Robert Kurz, la crisi del capitale mondiale, da lui analizzata e pronosticata già da 28 anni, si è ulteriormente acutizzata, e viene così ora percepita da un pubblico ancora più ampio - seppure di norma in maniera errata, ignorandone le vere cause. Questo, in particolare, è avvenuto nel 2014, non solo per la memoria dei disastri, 100 anni dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, 75 anni dopo l'inizio della seconda guerra mondiale e 25 anni dopo il collasso del blocco dell'est e la fine della cosiddetta concorrenza fra sistemi.
Nel suo articolo di fondo a proposito dell'anno appena trascorso, la redazione dello Spiegel si mostra preoccupata del fatto che il 2014 potrebbe rivelarsi, a posteriori - com'è avvenuto con il 1989, in maniera del tutto differente da quello che allora si pensava - come una sorta di "anno cerniera" della storia mondiale, in particolare perché avrebbe dato inizio alla fine "dell'Occidente" e del suo "progetto normativo di democrazia, di Stato di diritto, di diritti umani e di libertà". L'Occidente, nel 2014, sarebbe stato costretto sulla difensiva: "Quest'anno le democrazie sono state sfidate come non avveniva da molto tempo, per mezzo di pensieri ed atti autoritari ed intolleranti, sia internamente che esternamente."
Come prove, vengono citate: la Russia "che si è annessa la Crimea" e che sta istigando una guerra civile nell'est dell'Ucraina; l'avvento dello "Stato Islamico" e l'umiliazione dell'Occidente, con la decapitazione degli ostaggi americani e britannici davanti alle telecamere; la Cina, che per la prima volta diventa l'economia più forte del mondo, se si considera il potere di acquisto, e la cui "leadership comunista" pretenderebbe di armare militarmente il gigantesco impero; la Turchia che ora si avvicina alla Russia invece che all'Unione Europea; la fine della "Primavera Araba", di cui è rimasta solo la Tunisia come "esempio positivo", in quanto negli altri luoghi è in marcia "l'autoritarismo" ; il successo dei partiti populisti di destra nelle elezioni per il Parlamento Europeo, il "movimento popolare" Pegida a Dresda, il successo di Alternative für Deutschland (AfD) nelle elezioni statali; la sorprendentemente alta "accettazione del nazionalismo aggressivo di Putin" proprio in Germania ed il finanziamento del Fronte Nazionale francese da parte di una banca russa.
La cosa più interessante di questa lista un po' strana ed incoerente di sviluppi isolati, suppostamente orientati contro i valori occidentali, è forse quello che non viene detto. In primo luogo, la lista avrebbe potuto unire più cose, come prova del fatto che l'Occidente ha smesso da tempo di prendere sul serio i suoi propri valori, nella sua lotta contro le "sfide poste dal pensiero e dagli atti autoritari ed intolleranti". Invece, di questa lotta fanno parte sia la tortura e la morte deliberata e senza processo dei civili, quanto la vigilanza generalizzata delle telecomunicazioni e non solo del suo stesso popolo, ragione per cui la politica occidentale si rende semplicemente ridicola nel suo esigere diritti umani in altri luoghi. In secondo luogo, non si pone nemmeno la domanda per sapere da dove venga improvvisamente questo presunto movimento contro "l'Occidente ed i suoi valori", considerato che in fin dei conti la "concorrenza fra sistemi" è finita da 25 anni. Il tentativo di rispondere a questo metterebbe certamente lo Spiegel davanti a dei problemi insolubili.
Come già sottolineato da Marx, i valori occidentali, i "diritti inalienabili" a vita, la libertà e la ricerca della felicità, si riferiscono centralmente alla libertà e all'uguaglianza dei diritti del soggetto del mercato, alla garanzia della proprietà privata e alla sicurezza, garantita dallo Stato, delle transazioni commerciali, dal momento che, allora, gli schiavi, le donne ed i negri liberi non erano (ancora) previsti, come titolari, nella dichiarazione di questi cosiddetti diritti umani. Al loro godimento accedono solo i soggetti produttori di merci ed i guadagnatori di denaro. "Un essere umano è titolare di diritti, ossia, titolare di diritti umani, unicamente se egli può funzionare nella legalità capitalista, la quale è stata dichiarata legge naturale della società. Il cosiddetto illuminismo borghese intende per ‘esistenza umana’ solamente l'esistenza dei soggetti del ‘lavoro astratto’ negli spazi funzionali dell'economia d'impresa e del commercio delle merci sul mercato (ossia: nella sfera della realizzazione della valorizzazione del capitale). E' sottinteso che l'essere umano nasce già in questa forma sociale all'uscita dall'utero materno, perché può essere concepito, sia fisicamente che spiritualmente, solo sotto la forma di un simile essere "economico".
L'ascesa del modo di produzione capitalista, e la conseguente inclusione di segmenti sempre maggiori della società nella valorizzazione del capitale, ha fatto sì che sempre più persone ottenessero lo status di soggetti del mercato con capacità giuridica, diventando quindi titolari di diritti umani. Ma questo movimento nel frattempo si è invertito. Nella misura in cui, a seguito della crisi finale, le persone diventano superflue per la valorizzazione del capitale, per loro smette di esistere il presupposto della definizione illuminista dell'Uomo. I "superflui" del capitalismo, secondo tale definizione, non sono esseri umani, ma sono solamente oggetti naturali, come lo sono un sasso, uno scarafaggio (il marchese de Sade era arrivato a questa conclusione, con calcolato cinismo, già nel XVIII secolo).
Da questo ne consegue che i moderni diritti umani non sono una promessa, bensì una minaccia: se una persona non è più funzionale ed utilizzabile economicamente allora non è, in linea di principio, soggetto di diritto, e se non è più soggetto di diritto, allora non è nemmeno più un essere umano. La disumanizzazione potenziale dei "superflui" è contenuta nella concezione borghese dell'illuminismo, nella misura in cui l'essere umano capitalisticamente reificato, nella forma "anti-naturale" dell'escluso, è ancora meno di una cosa. Quest'ultima conseguenza è il principio segreto di tutta l'economia politica e, con essa, della moderna politica democratica in generale. E' l'essenza di quel "realismo" insolente che ha tanto inquinato la stessa sinistra politica. Tutta la RealPolitik porta su di sé il "segno di Caino" di quest'implacabile logica.
Il "progetto precario dell'Occidente", di cui si vanta lo Spiegel, non è stato messo sulla difensiva negli ultimi anni a causa di un contro-movimento venuto dall'esterno. Invece, questo movimento che si pretende contrario risulta dalle contraddizioni interne di questo stesso progetto e del modo di produzione capitalista sul quale esso si basa. Nella fase di declino di questa formazione sociale, dove la concorrenza delle economie nazionali, delle imprese e dei soggetti del lavoro e della merce si acutizza sempre più, la democrazia ed i diritti umani diventano un lusso; in ogni caso, essi non sono mai stati pensati per gli esclusi né per chi sarebbe stato escluso in futuro.
Quello che è necessario è un vero contro-movimento contro questa dinamica distruttiva, che non sia volto a riscattare il progetto occidentale, ma semmai a soppiantarlo, nel senso di un naturale "riconoscimento dell'essere umano, ossia, di tutti gli esseri umani, nella loro esistenza corporale, spirituale e sociale" che può solamente "avvenire oltre la definizione capitalista-illuminista dell'essere umano".
L'insostenibilità delle condizioni prevalenti hanno già portato, quanto meno, ad una pluralità di movimenti di ricerca di alternative che, tuttavia, spesso ritengono di poter fare a meno di una critica del capitalismo: La conseguenza è che i cosiddetti concetti alternativi rimangono quasi inevitabilmente intrappolati nelle categorie capitaliste che pretendono di superare. Dal momento che senza un'analisi ed una critica approfondita della socializzazione della dissociazione-valore non è possibile il suo superamento cosciente, il compito del progetto EXIT! consiste più in un "programma di abolizioni" e nel mostrare le carenze del laboratorio, abbondantemente disponibile, di concetti suppostamente post-capitalisti, di cui noi stessi partecipiamo. Qui ci sono alcuni riferimenti alle corrispondenti aree problematiche:
Tra tutte le risposte alla crisi ecologica, percepite dai media ufficiali, il movimento post-crescita viene considerato il più radicale: dal momento che non si dà crescita economica senza distruggere le basi naturali, possiamo sopravvivere solo in un futuro senza crescita. Ma, lasciando senza risposta la domanda su che cosa abbia realmente bisogno di crescere in maniera così ossessiva, a causa della mancanza di un'analisi sufficientemente critica del capitalismo, emerge immediatamente, a partire dalla critica della crescita, una critica del consumo, e da questa, improvvisamente, una concezione neoliberista: "Chi si accomoda nel confortevole servizio completo non-stop non può, allo stesso tempo, preservare la sovranità dell'individuo che lega le proprie esigenze solo alla possibilità di riproduzione, se necessario, solo attraverso i suoi propri sforzi."
Vedere la povertà materiale come supposta condizione di liberazione individuale può anche rivelarsi perfino assai utile come strumento di amministrazione della crisi. Ma la ricaduta nell'economia di sussistenza, qui in ultima analisi propagandata, difficilmente può far parte del superamento della crescita capitalista coercitiva a cui si aspira.
Anche una critica del capitalismo e del feticismo che si pretende fondamentale non è esente dal correre il pericolo di far parte dell'amministrazione della crisi e di una nuova imprenditorialità basata, per così dire, sulla "Società a responsabilità limitata unipersonale", una volta messi i piedi nelle istituzioni della società borghese. Il capitalismo fino ad oggi ha sempre saputo assumere i rigori della critica che gli veniva fatta e li ha saputi adattare alle sue proprie forme, finendo per incorporarle. Questo può avvenire anche con la critica sociale - perfino radicale - che entra nei mulini della scienza istituzionalizzata, poiché le persone che hanno a che fare con essa sono anche preoccupate per il loro successo personale e, pertanto, bisogna tener conto delle peculiarità del contesto di rete opportunistica nel quale si muovono. La scelta delle domande, così come la direzione nella quale si cercano le risposte, possono diventare rapidamente un mero mezzo per uno scopo completamente diverso, come ad esempio il profilo del proprio "ego imprenditoriale", o il profano appropriarsi di un finanziamento esterno per il prossimo progetto. I risultati di una critica sociale sorta in simili contesti dovrebbero essere considerati con un certo sospetto, e con la certezza che l'intero ambito in cui si verificano dev'essere oggetto di riflessione insieme ad essi.
Per quanto gradevole possa sembrare a prima vista il sorgere in altri contesti, di parti o anche solo di idee provenienti dalle teorie sviluppate nel contesto di EXIT!, va visto, con ancor maggior rigore, come tali parti o idee vengono impiegate. Questo è vero, in maniera diversa dalle scienze umane e sociali, anche per le aree che si misurano con le conseguenze sociali dello sviluppo delle tecnologie dell'informazione. Non è per caso che lì si incontrino spiegazioni della crisi che non enfatizzano il capitale finanziario suppostamente diventato selvaggio, ma che vedono le cause nello sviluppo delle forze produttive e nella sparizione, a tale sviluppo associato, del lavoro nella produzione. Fin qui, tutto bene. In tali contesti orientati alla tecnica, tuttavia, appare essere molto generalizzata l'idea per cui lo sviluppo tecnologico in sé porterebbe da solo, quasi automaticamente, fuori dal capitalismo ed aprirebbe la strada verso una società libera. Un tipico rappresentante di queste idee, ed anche il più importante, è Jeremy Rifkin:
"Con tutto l'entusiasmo per le prospettive aperte dall'Internet delle cose, passa completamente inosservato il fatto che, con la fusione di tutti e di tutto in una rete globale e spinta dal motore di una "estrema produttività", ci viene offerta con una velocità mai vista prima un'era di beni e di servizi quasi gratuiti. La cosa, a sua volta, porterà nel prossimo mezzo secolo alla sparizione del capitalismo e all'aumento dei beni comuni in collaborazione, come modello dominante di organizzazione della vita economica." (Jeremy Rifkin: Die Null-Grenzkostengesellschaft. Das Internet der Dinge, kollaboratives Gemeingut und der Rückzug des Kapitalismus, 2014).
Una particolare tecnica ("l'Internet delle cose") porterebbe, pertanto, alla sparizione del capitalismo e alla nascita di una nuova organizzazione di attività economica. Non si parla delle persone, come titolari di una trasformazione che deve essere modellata coscientemente, tutto va da sé. Questa visione probabilmente può essere descritta semplicemente come feticismo della tecnologia.
Un secondo punto da criticare, si riferisce all'idea connessa, e molto diffusa nei relativi circoli, di una propagazione graduale della nuova società su quella vecchia, con la simultanea riduzione del "settore" capitalista, che lo stesso Rifkin ritiene che non sparirà totalmente. Questo concetto in "forma embrionale" è guidato da una determinata immagine di quella che sarebbe stata la nascita della società capitalista nella società feudale, dove cominciò come piccola, poi si espanse e andò sostituendo gradualmente la vecchia formazione. Indipendentemente dal sapere se una tale immagine corrisponda realmente alla verità, bisogna tener conto che nella dissoluzione del capitalismo non sarà possibile sostituirlo per mezzo di una nuova società, qualunque essa sia, e questo per una semplice ragione: il capitalismo non può ridursi. Esso o cresce, o collassa. Un settore capitalista sempre più piccolo, che si combini armoniosamente con la nuova formazione è un'impossibilità.
Non c'è dubbio che gli sviluppi tecnici descritti da Rifkin ed altri andranno ad esacerbare la crisi e ad accelerare il declino del modo di produzione capitalista ancora di più. Ma quello che ne seguirà non sarà una questione di tecnica. Il capitale, come relazione sociale, non sparisce dalla faccia della terra semplicemente perché diventa obsoleto. E' necessario un movimento per una sostituzione cosciente - non automatica - della formazione sociale vigente, e la configurazione - ugualmente cosciente - di una nuova formazione, della quale attualmente nessuno può dire come sarà. Il semplice fatto della decadenza del capitalismo non darà vita ad un tale movimento, anzi al contrario: l'esperienza dei paesi che nella periferia sono già entrati nella fase del collasso, come quelli a margini del centro capitalista, mostrano che la maggioranza degli individui realmente esistenti reagisce in maniera differente al fatto di essere diventati superflui, ossia, reagisce per mezzo di costruzioni ideologiche reazionarie, con l'organizzazione dei soggetti della concorrenza, soprattutto di sesso maschile, in bande criminali mafiose o fascistoidi, e con la trasformazione della guerra civile di tutti contro tutti, finora contenuta dalla forma giuridica, in violenza nuda e cruda.
E questo accade anche nella stessa Germania - che fino ad oggi è riuscita, in gran parte, a mantenere la crisi lontano da sé, da un lato, per mezzo della chiusura dell'Europa nei confronti del flusso dei rifugiati delle vicine zone di crisi, e, dall'altro lato, attraverso il suo campionato mondiale di esportazione, e di esportazioni connesse - dove la disoccupazione mostra gradualmente quello che ci possiamo aspettare quando un tale status speciale non potrà più essere mantenuto:
"L'atteso sollevamento delle masse si sta ora spostando lentamente, e questo movimento è di destra. Al contrario dell'isteria nazista, generalizzata e sfrontata, questo non significa radicalismo e violenza, ma semplicemente il ritorno al senso comune. E' normale amare il proprio paese, apprezzare la sua cultura e desiderare che il suo popolo continui ad esistere e non venga sostituito. I tedeschi vogliono che la Germania torni ad essere tedesca. Sono semplicemente stanchi dell'islamizzazione, che non può continuare ad essere ignorata, e del disprezzo del loro stesso governo. Vogliono indietro la vera Germania nella quale le loro famiglie possano vivere felici" (Georg Immanuel Nagel: Der Aufstand des Volkes [O levantamento do povo], Blaue Narzisse, 2014).
Queste dichiarazioni, tratte dall'edizione online del giornale nazionalista tedesco "Blue Narzisse", non si basano su una pia illusione. Pongono la questione, che viene agitata dalla politica e dai media, di sapere se Pegida ed i movimenti analoghi siano di estrema destra e razzisti, o se in essi vengano solo espresse le preoccupazioni e le legittime paure del centro della società, la risposta è semplice: entrambe le ipotesi sono vere, la famosa "maggioranza silenziosa" pensa razzista - ed anche antisemita e sessista. I timori della piccola borghesia - che trovano fondamento nella crisi - per la retrocessione sociale, la precarizzazione e la superfluità si legano al desiderio di una identità collettiva nazionale non affetta dalla crisi, la cui appartenenza tuttavia può essere determinata solo negativamente, dal momento che vengono esclusi tutti quelli che in qualche modo sono considerati estranei. Una "Germania tedesca" non può essere molto ben definita in altra maniera, e per far questo "l'Islam" è attualmente lo strumento che è a portata di mano, e questo avviene proprio nelle regioni della Repubblica tedesca dove i musulmani appaiono solo molto sporadicamente.
Che sia così per la clientela tedesca della normalità, che si aggira nelle strade, seppure ancora solo in alcune regioni, diventa un problema anche per i partiti che si definiscono di "centro politico". Pazienza, bisogna stare con la propria gente, che sfila a braccetto con figure riconosciute come di destra. Non mancano le reazioni corrispondentemente ambivalenti. Davanti alle manifestazioni di comprensione delle preoccupazioni della propria clientela - che sta per andare fuori controllo - prevalgono le demarcazioni più o meno chiare dal nuovo movimento razzista. Ma questo non cambia il fatto che sono più di vent'anni che la Realpolitik si avvicina a questo in obbedienza anticipata, ossia, dall'abolizione di fatto del diritto fondamentale di asilo con la "legge sull'asilo" del 1993. Da allora, si tratta solo di sapere se la legge di asilo in generale dev'essere ancora più ristretta, o se dev'essere riformulata, di modo che possano essere ammessi gli/le immigranti utili alla valorizzazione del capitale - e nella misura in cui siano portatori di diritti umani - e i superflui possano continuare a rimanere fuori. La Realpolitik non si è mai opposta - tranne che simbolicamente nel corso del messaggio per il Nuovo Anno - a quello che ora si manifesta in maniera xenofoba e razzista da parte del "ritorno al senso comune", i cui fondamentali presupposti condivisi, in verità, hanno ben più di vent'anni.
Ora, anche nella prospettiva della critica sociale, ha poco senso pretendere di affrontare lo sviluppo in corso argomentando o ricorrendo ai fatti (dicendo, per esempio, che non si può realmente parlare di islamizzazione imminente, anche se secondo un sondaggio il 34% dei cittadini tedeschi ne è convinto). Abbiamo a che fare con un sistema completamente delirante e non serve a niente perdere tempo con esso. Possiamo solo tentare di spiegare come questo sia avvenuto. Dal punto di vista della posizione sviluppata nel progetto EXIT!, è chiaro che si tratta di una manifestazione di crisi, di una mistura di ideologie della crisi che nei momenti di prosperità economica rimanevano nascoste, ma che ora diventano socialmente accettabili: "Nella stessa misura in cui la biologizzazione e la naturalizzazione della società cominciano nuovamente ad affogare la coscienza di crisi del capitalismo, e a fiancheggiare la selezione sociale neoliberista, questa tendenza assassina si rivolge di nuovo ad una pseudocritica di destra, fascistoide, del liberalismo e della ‘economificazione’ capitalista ‘del mondo’. La nazione ‘etnica’ e la ‘razza’ ritornano, in una coazione patologica, come contro-immagine fantasmatica, al posto di una critica radicale dell'economia che il marxismo del movimento operaio non poteva svolgere." (Robert Kurz - Schwarzbuch Kapitalismus, 1999).
Robert Kurz, già 15 anni fa, ha descritto quello che ora si presenta in maniera sempre più chiara: "Con sullo sfondo una darwinizzazione generale del pensiero ed un inselvaggimento delle relazioni sociali, 'economia di mercato e democrazia' si decompongono in strutture particolarizzate di lotta "per la sopravvivenza". Sono corporazioni transnazionali con eserciti privati e propri servizi segreti, sono mercenari e squadroni della morte commerciali, sono milizie 'etniche', sette apocalittiche o bande neonaziste: la mappa della decivilizzazione prende forma, mentre il circo mediatico prosegue fantasmaticamente ed il plastico discorso democratico diventa ogni giorno più ignorante e più vuoto. Così come rispetto alla democrazia il 'quarto potere' della macchina capitalista stava a monte, così ora, come risultato della disfunzione irreversibile di questa macchina, nella terza rivoluzione industriale, il 'quinto potere' dei branchi sta a valle. Non c'è nessuna sollevazione emancipatrice, ma tutti cominciano ad armarsi." (Robert Kurz - idem)
Di fronte a questa esperienza di distruzione e di autodistruzione, confermata empiricamente tutti i giorni nella fase finale del capitalismo in decomposizione, la questione cruciale è di sapere se e come un contro-movimento per soppiantare in maniera emancipatrice il capitalismo sarà in grado di costituirsi, senza reprimere fin dall'inizio anche i suoi stessi propri membri con la matrice del capitalismo. Per un gruppo di teoria come quello del contesto di EXIT!, che non è in grado di mettere in piedi un tale movimento, ne consegue il compito di dover guardare, più di prima, alle devastazioni inflitte dalla società borghese ai suoi membri, a seguito delle quali "è stato completamente rimosso dalla coscienza sociale quello che è evidente e che non deve esser detto, come se fosse stato pronunciato un incantesimo." (Robert Kurz, idem).
In relazione al problema del come si è avverato questo sortilegio feticista e su come può essere spezzato, la maggior parte delle questioni rimane ancora aperta. Per poter essere chiarito, pertanto, al di là degli approcci esistenti, bisogna tentare di rendere feconde per la critica della dissociazione-valore le teorie psicoanalitiche. Se questo alla fine avrà successo, è cosa che rimane tutta da vedere.
La critica della dissociazione-valore cerca in realtà di prendere le distanze dal suo oggetto, senza la qual cosa non sarebbe possibile alcuna critica teorica. Tuttavia, essa si muove - così come le persone che la esercitano - forzatamente nel contesto della società da essa criticata e rimane, pertanto, dipendente non solo dal supporto, ma anche dalle risorse finanziarie. Per questo chiediamo agli interessati e alle interessate ad EXIT! un appoggio materiale, oltre che idealmente, al nostro progetto anche per il 2015.
Claus Peter Ortlieb, per la redazione di EXIT!, Gennaio 2015
******
Verein für kritische Gesellschaftswissenschaften
Conto nº: 0446551466
IBAN DE13440100460446551466
Codice Banca: 44010046
BIC PBNKDEFF440
Postbank Dortmund
fonte: EXIT!