sabato 30 giugno 2018

Adamo e Giulietta, ovvero Eva e Romeo

GreenBlatt

Narrata in pochi versetti all’inizio della Genesi, la storia di Adamo ed Eva ha avuto, nei secoli, un influsso determinante sulle concezioni delle origini e del destino umani. Pochi racconti si sono dimostrati così tenaci, così diffusi e così “reali”. L’insistenza sulla verità letterale della narrazione biblica diventò uno dei pilastri dell’ortodossia cristiana e i pittori rinascimentali conferirono un persuasivo senso di realtà ai primi esseri umani e così alla loro storia. Ma a che cos’è dovuta la sua fortuna? Perché ha affascinato tante menti brillanti e tanti artisti straordinari? È la domanda che si pone Stephen Greenblatt in “Ascesa e caduta di Adamo ed Eva”, a cui risponde facendo rivivere il racconto della nascita dell’umanità attraverso le sue numerose e diverse interpretazioni: dagli antichi rabbini ai protocristiani, dai codici di Nag Hammâdi agli esegeti coranici, da Agostino a Tommaso, da Milton a Whitman e Mark Twain, passando per van Eyck, Masaccio, Hieronymus Bosch, Dürer e Michelangelo, in una galoppata mozzafiato tra capolavori dello spirito e della fantasia. “Gli uomini non sanno vivere senza storie. Alcuni di noi le creano di professione e altri – compreso il sottoscritto – dedicano la vita adulta a cercare di comprenderne la bellezza, il potere e l’influenza.” Oggi, per molti di noi, quella storia è un mito. L’Illuminismo e Darwin hanno svolto il loro compito, e la comprensione delle origini è stata liberata dalla morsa di un’illusione un tempo potente. “L’uomo e la donna nudi nel giardino, con strani alberi e il serpente parlante, sono tornati nella sfera dell’immaginazione da cui erano originariamente emersi.” Ma non per questo hanno perso il loro fascino. Adamo ed Eva sono al tempo stesso un’incarnazione della responsabilità e della vulnerabilità umane, della possibilità di scegliere la ricerca della conoscenza disobbedendo alla massima autorità oppure, in alternativa, della possibilità di lasciarsi sedurre fino a operare una scelta insensata, dalle conseguenze catastrofiche e indelebili. “Tengono aperto il sogno di un ritorno, in qualche modo, un qualche giorno, a una beatitudine che è stata perduta. Possiedono la vita – la peculiare, intensa, magica realtà – della letteratura.” La stessa che trapela da ogni pagina di questo libro.

(dal risvolto di copertina di: Ascesa e caduta di Adamo ed Eva, di Stephen Greenblatt, Rizzoli.)

Shakespeare batte Bacone nel rispondere alle domande sulla natura dell’uomo
- di Giulio Giorello -

Nella Bibbia Dio sembra convinto di aver fatto «cosa buona» creando il primo uomo e la prima donna. Quando ho letto il libro di Stephen Greenblatt Ascesa e caduta di Adamo ed Eva (Rizzoli) mi ha colpito il gesto di ribellione di Adamo: «Odio Dio». Era quel che gli aveva messo in bocca l’ex monaco agostiniano Lutero, peraltro così attento alla parola biblica. Ma Greenblatt, riprendendo il titolo del celebre poema di John Milton, concludeva che «il Paradiso terrestre non era affatto perduto, piuttosto non era mai esistito». Dello straordinario Giardino dell’Eden, almeno come è stato rappresentato da poeti e narratori soprattutto di cultura inglese, Greenblatt, che insegna letteratura alla Harvard University e che mercoledì 27 giugno sarà a Venezia, si è occupato a lungo, arrivando alla tesi che la storia di Eva e di Adamo ha preteso di spiegarci un «fatto» che forse non è mai avvenuto. Ho l’occasione di discuterne proprio con lui, muovendo dalla differenza tra letteratura e scienza, ovvero tra due modi talvolta contrapposti di decifrare e interpretare la realtà.

In che cosa consiste davvero la diversità tra il letterato e lo scienziato? Letteratura e scienza sono destinate a combattersi?

«La nave della letteratura ha le vele gonfie di un vento millenario. La scienza, in confronto, è ancora adolescente. Quando William Shakespeare attingeva alla sapienza secolare del mondo classico greco e latino, Francesco Bacone era ancora incerto sulla via che avrebbe imboccato una scienza che si proponeva il benessere dell’umanità».

Lei, dunque, non è certo tra coloro secondo cui Shakespeare faceva da prestanome al filosofo della natura…

«Non mi riconosco per nulla in quella particolare concezione dell’autore dell’Amleto, anche perché se Shakespeare si appoggia a una grande tradizione, Bacone, nella sua Nuova Atlantide (come altrove), vuole piuttosto inaugurarne una nuova. Ma gli inizi sono sempre difficili».

Del resto, Bacone non guardava nemmeno con troppa simpatia a figure come Giovanni Keplero e Galileo Galilei, colpevoli ai suoi occhi di perdersi in eccessive sottigliezze matematiche...

«È davvero così. Galileo aveva anche un suo particolare senso del teatro, come mostra la disputa che mette in scena nel Dialogo sui massimi sistemi del mondo. Ma a mio parere la letteratura, specie quando si tratta di indagare la natura umana, con tutti i suoi misteri, dalla sofferenza all’amore, e di darci qualche risposta alla domanda che non riusciamo a eludere, quella del significato della vita, ci dà delle risposte più coinvolgenti. Penso appunto al teatro shakespeariano, ma anche allo stesso Milton. E Shakespeare mostra talvolta di non ignorare un grande dibattito che oggi noi chiameremmo scientifico, il conflitto tra tolemaici e copernicani, come ha mostrato bene Gilberto Sacerdoti nel bellissimo libro Nuovo cielo, nuova terra (il Mulino, 1990)».

Quali sono, allora, le relazioni che possono emergere tra il mito e la scienza? È ancora legittimo pensare che l’uno tramonti quando l’altra sorge?

«Il mito non va confuso con la favola o la leggenda: è una modalità di conoscenza che si rivolge all’interno dell’animo umano, laddove la scienza indaga l’esterno. Il mito, insomma, nell’accezione data da Mircea Eliade, si può intendere come la fonte di ogni forma di religiosità apparsa su questa Terra e, con la sua concezione ciclica e ricorrente delle vicende umane si rivela forse ben più efficace di una concezione troppo lineare della crescita della conoscenza».

Le magnifiche sorti e progressive su cui ironizzava Giacomo Leopardi…

«Dico questo perché una delle cose che la vita mi ha insegnato è che non puoi mai prevederla. Uno pensa che le cose stiano andando e debbano andare in una direzione “razionale”, e all’improvviso tutto prende una piega inaspettata: la direzione imprevista! Questo è per me contemporaneamente fonte di disappunto e di piacere. Sono un professore di letteratura, e quando, all’età di vent’anni, ero un combattivo e convinto marxista, mi sentivo sicuro che le cose andassero secondo la Ragione, ma ora so che non è così, e dunque avevo torto allora. Quindi so che è un bene che le cose vadano come devono andare, anche se, talvolta, ciò può risultare frustrante. Comunque, ci tengo a precisare che, per quanto possa apprezzare il mondo dei miti, e la loro numinosa bellezza, quando mi ammalo e ho bisogno di curarmi, mi rivolgo a un dottore e non a uno sciamano. Se, a volte, posso essere scettico sui risultati della scienza, non lo sono sui metodi. Del resto, vivo in un mondo che è pieno di brillanti scienziati, persone che hanno saputo mettere bene a frutto le conoscenze ereditate dai predecessori. Nella stessa biologia evoluzionistica — che, come ho avuto modo di scrivere in un mio libro, pretende di aver confutato la storia di Adamo ed Eva — non troviamo delle risposte così articolate e soddisfacenti quanto quelle che ci vengono offerte dalle grandi opere letterarie, se le sappiamo leggere bene».

Su che cosa sta lavorando adesso?

«Uno dei problemi che mi affascinano di più è come sia nata e si sia faticosamente affermata l’idea di tolleranza in Occidente».

Sono portato a credere che la tolleranza sia un concetto moderno. Non voglio però sostenere che nelle società antiche proliferassero troppe forme di intolleranza. Anzi, anche nel mondo pre-greco c’era almeno un atteggiamento che considerava come «ospiti» coloro che avevano miti e riti differenti.

«Mi viene in mente una testimonianza del mondo classico, che racconta di tre dotti amici, due cristiani e un pagano, che approfittano di un giorno di pausa nelle loro ordinarie occupazioni per andare al mare e arrivano alla spiaggia di Ostia, dove il clima è mite, il mare calmo e la spiaggia piena di fanciulli che giocano spensierati. Qui si imbattono nella statua di un’antica divinità. Il pagano le manda un bacio per onorarla, il che irrita uno dei cristiani, che chiede all’altro se non sia il caso di intervenire per rimproverare quel nostalgico degli Dei di un tempo. Essendoci rapporti di amicizia e trattandosi comunque di un’anima confusa, non era forse loro dovere riportarlo sulla retta via? Il pagano rimane sorpreso e turbato dalle loro ammonizioni, e il fatto che quest’opera sia datata 190 o 192 d.C. ne fa una delle testimonianze più antiche del genere. Questo è un segno di come si spense quello spirito di accoglienza che abbracciava tutti gli Dei, e di come cominciò a prendere forma un sentimento di angoscia provocato da un unico Dio, che era per di più “geloso”».

Una domanda su Lucrezio e il suo «De rerum natura», che è un singolare connubio tra un’arte poetica raffinata e un atteggiamento scientifico poi interpretato come profondamente secolarizzato. Lucrezio dispiega sotto gli occhi stessi di noi moderni, in modo potente, un universo in cui dominano atomi e vuoto. In me i suoi versi suscitano sempre un’intensa emozione, e in lei?

«Certamente sì. Dal punto di vista scientifico, ovviamente, le sue intuizioni hanno fatto il loro tempo. Però, hanno reso un gran servizio al mondo. Ora che ci confrontiamo con nozioni come quella di “materia oscura”, se la paragoniamo agli atomi immaginati dalla tradizione che va da Leucippo e Democrito fino a Epicuro e a Lucrezio stesso, il De rerum natura, per quanto brillante, non può esserci di grande aiuto. Ma senza le idee metafisiche degli antichi atomisti, Lucrezio incluso, non ci sarebbe stata la catena di ripensamenti che ha portato alla fisica delle particelle cosiddette elementari».

- Guido Giorello - Pubblicato sulla Lettura del 24/6/2018 -

venerdì 29 giugno 2018

a ciascuno il suo ebreo

troncoAntisemitismo strutturale e critica tronca del capitalismo
- di Thomas Schmidinger -

Il fatto che un antisemitismo più o meno dichiarato, nei confronti di Israele o nei confronti dei sionisti, presunti o reali, oramai non risparmi più la sinistra, è cosa ben nota. Quindi questo testo non affronterà il tema dell'«aperto antisemitismo» della sinistra, ma quello della vicinanza strutturale esistente fra l'antisemitismo moderno e la critica tronca del capitalismo, in questi ultimi anni particolarmente presente nei dibattiti sulla globalizzazione.

Gli ebrei ed il denaro
Già nell'alto Medioevo - prima che si sviluppassero i rapporti capitalisti di produzione - gli ebrei e le ebree si vedevano ricorrentemente associati alle operazioni monetarie, all'«astratto» visto in opposizione al «lavoro produttivo concreto». «Bernard de Clairvaux, guida spirituale della Seconda Crociata - che, come la prima, fu soprattutto una crociata contro gli ebrei -, aveva sostituito nei suoi sermoni, in maniera del tutto naturale, l'espressione "prestare denaro" con il verbo "giudeizzare", in latino "judaicare" (Scheit, 1997)».
Quindi, l'antisemitismo tradizionale del Medioevo non era solo religioso ma presentava già, in parte, un carattere economico. Gli «ebrei» vennero assimilati alle attività monetarie. La rabbia dei contadini e delle contadine durante la Guerra dei Contadini [*1] non si rivolse solo contro monasteri e nobili, ma anche contro gli ebrei e le ebree. Non sorprende perciò che il movimento operaio tedesco, proprio come l'antisemitismo tedesco e la sua forma più estrema. il nazionalsocialismo, si riferisse in maniera positiva alla Guerra dei Contadini del 1525.

Il capitalismo come sistema di dominio mediato attraverso la merce.
Parallelamente all'invenzione di un razzismo che definiva gli ebrei non più in quanto comunità religiosa, ma come (contro)razza, lo sviluppo del capitalismo in epoca moderna giocò un ruolo decisivo nella formazione dell'antisemitismo contemporaneo. Contrariamente al feudalesimo, il capitalismo non si basa su un rapporto di dominio diretto, ma si caratterizza proprio a partire dal fatto di essere un sistema di dominio mediato attraverso le merci. A prima vista, ciò costituisce una contraddizione: da un lato il principio di dominio continua ad esistere, le contraddizioni sociali e politiche sono sempre presenti, ancora più acuite, mentre dall'altro lato i dominanti non possono più essere identificati. Al posto dei rapporti di dominio personali, compresi quelli fra servo e signore, emerge l'uguaglianza formale borghese, la quale tuttavia non presuppone un'uguaglianza materiale, e lascia sussistere le gerarchie e le disuguaglianze.
Questa contraddizione costituisce la base di una necessaria falsa coscienza che si manifesta quando il capitalismo non viene riconosciuto come un sistema di dominio impersonale mediato attraverso le merci. Di fronte a questo dominio senza dominanti, questa falsa coscienza conclude che i dominanti riescono a celarsi e che esercitano il loro potere in seno ad una società segreta, una forza oscura che tira i fili nascosta dietro le quinte. Risiedono in questo le fondamenta dell'idea della cospirazione mondiale. Le evidenti contraddizioni del capitalismo non vengono riferite al sistema in quanto tale, nei termini dell'analisi critica di Karl Marx, ma appaiono come l'opera di un potere malvagio che dominerebbe questo sistema, e che sarebbe concretamente responsabile di tutte le malefatte che esso commette. Quindi, gli ebrei e le ebree non vengono più percepiti soltanto a partire dal prisma dello stereotipo del detentore di denari, che ancora prevaleva nel Medioevo. Gli ebrei vengono visti, secondo quelle che sono le parole di Moishe Postone, nel suo saggio "Nazionalsocialismo e antisemitismo", «come responsabili delle crisi economiche, e identificati con le ristrutturazioni e le rotture sociali che accompagnano la rapida industrializzazione: l'esplosione dell'urbanizzazione, il declino delle classi e degli strati sociali tradizionali, l'emergere di un vasto proletariato industriale che si organizza sempre più, ecc. In altri termini, il dominio astratto del capitale che - specialmente con la rapida industrializzazione - imprigiona gli uomini in una rete di forze dinamiche che non potevano comprendere comincia ad essere percepita come dominio del "ebraismo internazionale"» (Postone, 2003).
Sono stati soprattutto i primi socialisti pre-marxisti che, non potendo ancora disporre degli strumenti analitici della critica marxiana del valore e del capitalismo, si sono smarriti nella loro critica al capitalismo emergente. La loro confusione, tuttavia, non porta sistematicamente all'antisemitismo aperto che troviamo, ad esempio, nell'«anarchico» misogino Pierre-Joseph Proudhon. L'antisemitismo di quest'ultimo si basa sulla distinzione fra sfera della circolazione e sfera della produzione. La nefasta dinamica del capitalismo non sarebbe contenuta solo nella sfera della produzione, come constata Marx, ma sarebbe il risultato di un problema di ripartizione legato all'arricchimento speculativo di alcuni. La critica proudhoniana del capitalismo rimane perciò impantanata nella critica della circolazione. Gli ebrei e le ebree sono, secondo questa tradizione del movimento operaio emergente, il bersaglio principale della critica della circolazione.
Si possono altresì trovare delle posizioni antisemite anche in Marx - in particolare ne "La questione ebraica" - ma queste non sfociano affatto in un'ideologia antisemita, costituita e chiusa su sé stessa. In particolare, Marx non opera alcuna separazione fondamentale fra circolazione e produzione. I suoi strumenti di analisi ci forniscono invece la possibilità di una critica totale del capitale che, per l'appunto, non rimane intrappolata in un'analisi tronca, e nella ricerca di un pugno di colpevoli.

Personificazione del capitalismo.
Quest'eredità del movimento operaio spiega come l'affinità strutturale esistente fra critica tronca del capitalismo ed antisemitismo moderno non sia rimasta solo monopolio di oscuri adepti di Silvio Gesell [*2]. Per cui, una somiglianza evidente si manifesta in maniera regolare in seno alla sinistra marxista, agli anarchici e alle femministe tradizionali.
La personificazione del capitalismo porta soprattutto a voler indicare il colpevole, piuttosto che a sottoporre il sistema ad una critica radicale. Nel marxismo del movimento operaio, di tradizione leninista o socialdemocratica, non si vuole affatto «individuare e superare la società capitalista nella sua totalità, ma si cerca piuttosto di incarnare uno dei poli all'interno di questa costellazione, in contraddizione antagonistica con la società, al quale bisognerebbe rendere giustizia. La categoria del valore, costitutiva della relazione capitalistica, rimane fuori dal campo dell'analisi critica, e appare unicamente in quanto plusvalore estratto dal capitalista, e quindi come una categoria fondamentalmente positiva della quale converrebbe riappropriarsi» (Gruber / Ofenbauer, 1998).
Ne consegue una prassi politica nei confronti non del capitalismo, ma dei capitalisti. In questa visione del mondo, una classe capitalista «malvagia» si oppone ad una classe operaia «virtuosa», laddove la seconda deve strappare alla prima il capitale ed i mezzi di produzione. Il lavoro politico concreto di questi gruppi si riduce perciò a porsi dalla parte della classe operaia al fine di renderle giustizia.
Ancora una volta, la sfera della circolazione resta la sola ad essere messa in discussione, rimanendo quella della produzione fuori dal campo della critica. La questione del capitalismo viene ridotta ad un «problema di distribuzione», all'appropriazione, da parte di alcuni «ricchi malvagi», dei giusti salari dei «poveri sfruttati». Questo genere di argomentazione la si ritrova non solo nella sinistra classica, ma anche in tutta una serie di attori che cercano di affrontare le grandi imprese. Allora si combatte contro Mc Donalds o contro Nike, presi come se fossero l'unico volto del nemico, e contro cui si organizzano meeting e dimostrazioni. A nessuno viene in mente che Mc Donalds o Pizza Hut non sono altro che delle varianti, di successo, della birreria locale o del kebab del quartiere.
L'idea, secondo cui l'ingiustizia, anziché derivare dalla natura del sistema, avrebbe un nome e un indirizzo - che il capitalismo si ridurrebbe perciò ad una cospirazione di alcuni malfattori ricchi - è un vecchio mito assai diffuso in larghi settori della sinistra.
«Il desiderio di conoscere il nome e l'indirizzo di questo potere sinistro ed onnipresente, di quest'incarnazione del lato oscuro della modernità, non era ovvio solo per i nazisti, ma anche una larga parte della società: "gli ebrei sono la nostra infelicità" (Treitschke) [*3]» (Lohoff, 1998).

L'imperialismo come fase suprema del capitalismo.
Il testo di Lenin, "L'imperialismo, fase suprema de capitalismo", non solo ha svolto un ruolo importante per le diverse formazioni leniniste (partiti comunisti e vari gruppi comunisti e anti-imperialisti), ma ha anche lasciato delle tracce in numerosi settori della sinistra che non si riferiscono esplicitamente a Lenin o che lo rifiutano fermamente. Gli argomenti della teoria leninista dell'imperialismo hanno orientato in maniera più o meno esplicita tutto il dibattito intorno all'Accordo Multilaterale sugli Investimenti (AMI) [*4] e sulla globalizzazione.
Lenin interpreta quindi «il passaggio storico al capitalismo per azioni come un cambiamento qualitativo del capitalismo: come sostituzione del capitalismo della libera concorrenza con il capitalismo monopolistico, il quale sarebbe controllato da alcuni "oligarchi della finanza" e nel quale "la furia cieca della legge del valore" sarebbe stata parzialmente abolita. Questa mutazione sarebbe opera del sistema creditizio borghese, che sottometterebbe a sé tutta la produzione, e la utilizzerebbe per i suoi fini nefasti» (Gruber / Ofenbauer, 1998.)
Per Lenin, il capitale usuraio non costituisce, come avviene per Marx, «la forma più feticizzata» del capitale, ma piuttosto «un rapporto di dominio concepito in prima istanza come direttamente personale» (Gruber / Ofenbauer, 1998).
Il parallelismo fra le teorie del complotto, di estrema destra, e l'idea secondo la quale nel capitalismo monopolistico ogni potere viene attribuito alle «oligarchie finanziarie», diviene così chiaramente visibile. Gli attributi assegnati al «capitale finanziario internazionale», all'«oligarchia finanziaria», ecc. corrispondono nei singoli dettagli a quegli attributi che gli antisemiti assegnano agli ebrei: tutto il potere, malaffare, clandestinità, ecc.
La visione del mondo degli antisemiti è dunque assai vicina a quella manifestata dalle teorie tradizionali dell'imperialismo. Gli «sporchi ricchi» ed i «parassiti», mossi unicamente dal profitto a breve termine, a scapito del bene collettivo, sarebbero dovunque all'opera, sfruttando il popolo e favorendo l'internazionalizzazione. Pertanto, «il capitale finanziario internazionale, attraverso i partiti del sistema installati al governo, lavora alla distruzione dello Stato sociale e della cultura» (Nation und Europa, 5/98) [*5].

Globalizzazione, AMI e GATT.
La comprensione tronca del capitalismo da parte di Lenin, che in ultima istanza va ricondotta alla realpolitik bolscevica e al fallimento della rivoluzione mondiale, non domina solamente i gruppi leninisti ed antimperialisti. È avvenuto proprio nel corso del dibattito intorno all'AMI - a proposito dell'Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT) [*6] e a proposito della «globalizzazione» - che i legami e le analogie che hanno con le teorie antisemite del complotto mondiale sono stati messi all'ordine del giorno. In seguito al crollo dell'URSS e alla crisi parallela della sinistra leninista, la difesa dello Stato-nazione è tornata ad essere una parola d'ordine proposta non solamente dalle formazioni leniniste, ma anche nell'ambito dello ONG, come ATTAC o Greenpeace. Quando non solo Helmut Schmidt [*7] ed altri vecchi socialdemocratici, ma anche l'«anarchico» Noam Chomsky, e quindi un largo fronte d'opposizione al GATT e all'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) [*8], si mettono a difendere lo Stato-nazione contro la «follia globale» degli «speculatori furiosi» e del loro «capitalismo rapace», allora possiamo affermare che la critica tronca del capitalismo e le teorie del complotto sono ancora una volta tornate ad essere egemoniche in seno alla sinistra.
Ne consegue quindi che la speculazione non viene concepita come un processo cui ognuno e ciascuno si concede nella misura in cui partecipa al quotidiano scambio di mercato, ma sarebbe un'attività propria dei soli «malvagi speculatori».
Ogni calcolo di mercato ha tuttavia un carattere speculativo. Questo si esprime semplicemente in maniera più aperta nella speculazione borsistica, poiché la valorizzazione qui appare nella sua forma più astratta (A-A') [*9], e sembra quindi che venga soddisfatta in una disconnessione totale con il valore d'uso. La distinzione fra capitale finanziario e capitale produttivo, fra speculatori ed «onesti produttori», permette tuttavia di identificare i colpevoli e di trasformare la rabbia contro il capitalismo in rabbia contro alcuni scellerati.
Le manifestazioni degli alter-globalisti a Seattle, a Praga o a Genova sono rimaste così bloccate a metà strada, in quanto si sono accontentate di attaccare dei capitalisti individuali - perfino delle organizzazioni internazionali, viste come delle cospirazioni a livello mondiale - a scapito di una critica radicale del capitalismo in quanto sistema. Il fatto che degli oppositori alla globalizzazione, di sinistra, ma anche di estrema destra, si ritrovino dalla stessa parte della barricata , nella resistenza contro l'OMC, il GATT, l'AMI o la Banca mondiale, non sorprende. Le vignette esprimono con maggior chiarezza le teorie cospirazioniste latenti nella critica della globalizzazione. Prendiamo ad esempio l'immagine del Kraken [*10] che stritola il mondo intero e che incontra dappertutto la resistenza da parte dei lavoratori produttivi. Le illustrazioni degli oppositori della globalizzazione, sia di sinistra che di destra, tendono così a convergere. Alcuni gruppuscoli di estrema sinistra non riescono nemmeno ad evitare di ricorrere al naso storto di rigore, dove rappresenta l'imprenditore capitalista che fuma il sigaro e indossa un cappello a cilindro, un immaginario che potrebbe provenire tanto dallo Stürmer [*11] quanto da una pubblicazione trotskista, maoista o da Attac. A sinistra, si può vedere una caricatura del Partito dei Pirati che denuncia il trattato ACTA sulla proprietà intellettuale, del 2010. A destra una caricatura di Stürmer del 1938 che aveva come bersaglio la dominazione ebraica mondiale.

tronco2

L'antisemitismo globalizzato.
Mentre la maggior parte delle teorie di sinistra del complotto mondiale operano senza riferimenti agli «ebrei mondiali» e ai «massoni», le caratteristiche che vengono assegnate al «capitale finanziario» presentano una sorprendente somiglianza a quelle delle teorie cospirazioniste di estrema destra. Anche in assenza di aperto antisemitismo, una visione del mondo oppone il «bene» ed il «male», associando a quest'ultimo delle caratteristiche e dei concetti dalla connotazione antisemita, e alla fine tende ad avvicinarsi all'antisemitismo puro e semplice per poi arrivare a delle forme aperte, molto più facilmente di quanto si immagini.
Una simile visione del mondo non ha necessariamente come bersaglio gli ebrei e le ebree. Se osserviamo più da vicino le posizioni anti-armene che portarono allo sterminio di una gran parte della popolazione armena dell'Anatolia e di Istanbul, o le rivolte anti-cinesi, perpetrate nel quadro delle proteste sociali nell'Asia del Sud-Est, emergono dei significativi parallelismi con l'antisemitismo moderno in Europa. Proiezioni simili interessano anche gli Indiani nell'Africa dell'Est, i cinesi e le cinesi in Messico oppure anche i musulmani in India. Malgrado i loro effetti differenziati, tutti questi esempi si basano sulla critica tronca del capitalismo, la quale associa la sfera della circolazione, dello scambio e dalla speculazione ad un gruppo di individui particolari, anziché combattere il capitalismo in quanto sistema specifico. In molti casi, quest'associazione è stata operata dalla sinistra, o quanto meno dalle forze progressiste del momento. Nell'impero ottomano, i giovani turchi repubblicani attuarono la distruzione degli armeni, nell'Asia del Sud Est asiatico le masse che prendevano parte alle rivolte sociali attaccarono i mercanti cinesi, e durante i sollevamenti afro-americani a Los Angeles, nel 1992, i rivoltosi neri attaccarono per la prima volta i piccoli commercianti coreani, che venivano percepiti come delle personificazioni del capitalismo.
Una sinistra che contribuisce a questo tipo di movimenti sociali, o che quanto meno li tollera con compiacenza, prepara il terreno per un'agitazione apertamente antisemita. Quest'ultima, per manifestarsi non ha aspettato il movimento contro la guerra in Iraq,  combinando un'opposizione all'imperialismo USA avido di petrolio, che ha il mondo sotto il suo controllo, con un'aperta difesa del regime fascista baathista ed antisemita iracheno.

- Thomas Schmidinger - Pubblicato nel giugno del 2018 su "Solitudes Intangibles" -

NOTE:

[*1] - La Guerra dei Contadini tedeschi, è stato un conflitto che ha avuto luogo sotto il Sacro Romano Impero germanico fra il 1524 ed il 1526 nelle regioni della Germania del Sud, della Svizzera, della Lorena tedesca e dell'Alsazia. Questa rivolta ha avuto delle cause religiose, legate alla riforma protestante, e delle cause sociali, nella continuità delle insurrezioni che allora infiammarono periodicamente il Sacro Impero. Il movimento, nacque nel giugno del 1524, a sud del paese di Baden, vicino a Schaffhouse, quando i contadini si rifiutarono di raccogliere lumache per i loro signori. Durante l'inverno, la rivolta si sviluppò in Svevia, in Franconia,in Alsazia e nelle Alpi austriache. I contadini si impadronirono di castelli e città (Ulm, Erfurt, Saverne). I contadini mescolarono le rivendicazioni religiose (elezione dei preti da parte del popolo, limitazione delle tasse sulle decime), con quelle sociali ed economiche (soppressione della servitù, libertà di pesca e di caccia, aumento della superficie delle terre comunali, soppressione della pena di morte). Si stima che generalmente si ribellarono 300.000 contadini e che furono 100.000 a rimanere uccisi.

[*2] - Jean Silvio Gesell (1862 – 1930) era un commerciante tedesco, teorico monetario del denaro gratuito. Influenzato dal pensiero di Proudhon, pubblicò nel 1916 "L'ordine economico naturale". In esso presentava la sua teoria della moneta gratuita che lo renderà famoso, la quale consiste nel mettere in circolo una moneta che si deprezza ad intervalli fissi (ogni mese, o ogni due mesi). I suoi scritti esprimono molti stereotipi sugli ebrei. Il marxista Elmar Altvater ha visto nella sua opera un esempio di "antisemitismo strutturale"

[*3] - Heinrich Gothard von Treitschke (1834-1896) era uno storico e teorico politico tedesco, membro del Partito Liberale Nazionale. Deputato nazionalista dal 1871 al 1884, professore all'Università di Berlino a partire dal 1874, sostenne la politica di Bismarck dopo aver pubblicato nell'agosto del 1870 un'opera dal titolo "Cosa reclamiamo dalla Francia? L'Alsazia". Come quelle di Edouard Drummond in Francia, le sue tesi antisemite riscossero grande successo in Germania, dove i nazisti ripresero più tardi la sua celebre formula: "Gli ebrei sono la nostra infelicità", apparsa nel 1879 sugli Annali prussiani.

[*4] - L'Accordo multilaterale sugli investimenti è stato negoziato segretamente nei ventinove paesi membri dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) fra il 1995 e l'aprile 1997. Proponendo una liberalizzazione accresciuta degli scambi (divieto di discriminazioni a partire dalla nazionalità degli investitori) in modo da favorire lo sviluppo , esso ha suscitato vive proteste da parte dei partigiani dell'eccezione culturale, dei movimenti ambientalisti e di alcuni movimenti sindacali, quando è stato reso noto all'opinione pubblica da parte da dei movimenti di cittadini americani.

[*5] - "Nazione ed Europa" era una rivista tedesca di estrema destra che è stata pubblicata fra il 1951 ed il 2009.

[*6] - L'Accordo generale sulle tariffe ed il commercio (GATT) venne firmato il 30 ottobre 1947 da 23 paesi, per armonizzare le politiche doganali dei paesi firmatari. Quest'accordo multilaterale di libero scambio è stato concepito per abbassare il prezzi per i consumatori e per meglio utilizzare i fattori di produzione, e per favorire l'occupazione nei settori in cui ciascun paese detiene un vantaggio comparativo.

[*7] - Helmut Heinrich Waldemar Schmidt (1918-2015) è stato un politico tedesco, membro del Partito Socialdemocratico (SPD). Nel 1974 succede a Willi Brabdt come cancelliere federale ed occupa questo posto fino all'uscita dei liberali dalla sua coalizione.

[*8] - L'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) è un'organizzazione internazionale che elabora le regole del commercio internazionale fra i paesi. L'organizzazione si basa sugli accordi, negoziati e firmati nell'aprile 1994 a Marrakech dalla maggior parte delle potenze commerciali del mondo, che vennero ratificati poi dalle loro assemblee parlamentari. L'OMC ha come  fine principale quello di favorire l'apertura commerciale. Per far questo, cerca di ridurre gli ostacoli al libero scambio, di aiutare i governi a risolvere le loro differenze commerciali ed assistere nelle loro operazioni gli esportatori, gli importatori ed i produttori di merci e di servizi.

[*9] - La formula del capitale: Denaro - Merce - più Denaro ( A - M - A ' )

[*10] - Il Kraken è una creatura fantastica tratta dalle leggende scandinave medievali. Si tratta di un mostro enorme dotato di numerosi tentacoli. Il Kraken è in grado di spezzare lo scafo di una nave e di farla colare a picco.

[*11] - "Der Stürmer" era una rivista nazista pubblicata da Julius Streicher dal 1923 alla fine della seconda guerra mondiale


Fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

giovedì 28 giugno 2018

Dall'età degli Estremismi!

lefebvre libro

Scritto fra il 1934 ed il 1935, questo saggio è un puro prodotto de «L'Età degli estremismi», per riprendere il titolo del libro che lo storico Eric Hobsbawm ha dedicato al «Secolo Breve». I suoi propositi così come il suo stile recano in maniera indelebile le tracce di quest'epoca tumultuosa di confronto spietato fra il capitalismo e tutto ciò che è stato presentato come socialismo, con sullo sfondo l'ascesa dei fascismi e la crisi del movimento operaio. Per gli autori, il dibattito intellettuale partecipa di una lotta politica in cui la «polemica» e la «satira» vengono esplicitamente rivendicate come ingredienti indispensabili dell'argomentazione. Avremo quindi ben presto modo di collocare questa carica teorica contro la «mistificazione borghese», intesa come «un contributo alla creazione di una coscienza vera e rivoluzionaria», nel bel mezzo delle opere obsolete di un'epoca passata. Tuttavia a torto. Certo, il manicheismo «proletario» che impregna tutto l'insieme dell'approccio appare terribilmente datato. E lo stesso vale anche per la fiducia un po' forzata, che Guterman e Lefebvre ripongono nel trionfo finale della «Verità».
Questa fuga in avanti nell'ottimismo dell'intelligenza rivela meno metodo dialettico di quello del buon dottor Coué. Ma al di là degli eccessi e delle derive imputabili ad una congiuntura in cui i conflitti e gli scontri venivano resi particolarmente aspri a causa del carattere drammatico della posta in gioco, quanti punti di vista penetranti e quante osservazioni pertinenti!
Testimonianza di una lucidità tale che molti di questi punti di vista e di queste osservazioni sembrano riguardare l'evoluzione più recente del capitalismo. Qualsiasi cosa ne pensino - o fingano di pensarne - gli accondiscendenti, l'alienazione, il feticismo e la mistificazione, di cui i due autori si impegnano a svelarne i fondamenti e a smantellarne i meccanismi, fanno più che mai parte integrante del dominio. Ed è questo il motivo per cui gli sviluppi critici dedicati al «funzionamento automatico dei feticci» potrebbe essere perfettamente applicato ai discorsi che celebrano la «esplosione delle nuove tecnologie della comunicazione», che sono state erette come se si trattasse di veri e propri deus ex machina di una «rivoluzione informatica» che si imporrebbe all'umanità come se essa non fosse il prodotto della sua stessa propria attività.
Allo stesso modo, mentre si parla sempre più solamente di «produrre del valore per l'azionariato», alcuni passaggi sembrano essere stati scritti appositamente per degli analisti finanziari ai quali l'aumento continuo degli indici di borsa hanno fatto perdere qualsiasi giudizio critico.
«Questo denaro vuole riprodursi di per sé ad un ritmo sempre più rapido, in un turbinio, liberato da ogni peso materiale: libero dalla produzione materiale che disprezza. La speculazione è inebriante; si precipita negli spazi dell'astrazione; fa pensare allo speculatore che sia stato liberato dalla materia. Vive in una piena astrazione algebrica, in piena irrealtà psicologica [...]».

La falsificazione, che secondo Guterman e Lefebvre appare come un fattore centrale «per ogni teoria dell'ideologia borghese», ormai non risparmia neanche il campo politico. Proseguendo nella loro ricerca chimerica di un capitalismo alla fine domato e civilizzato dallo Stato, organismo della volontà collettiva e salvatore supremo del bene comune, i crociali dell'anti-liberalismo e gli altri difensori del «pensiero unico» - tanto per citare solo loro - farebbero bene a leggere le righe che gli autori dedicano a questa «mistificazione colossale». Distinguendosi dalla società in nome degli interessi comuni, aggiungono che «lo Stato si distingue dall'interesse generale, o piuttosto presuppone che non ci sia un interesse veramente generale, in quanto sennò allora il popolo potrebbe amministrare sé stesso». Un'osservazione iconoclasta rispetto alla quale la creazione dell'ENA non fa che confermarne la fondatezza.
In un libro che è rivolto innanzitutto a guidare una contro-offensiva sul fronte culturale - trascurato non solo dal marxismo ufficiale, ma dagli stessi Marx ed Engels, per mancanza di tempo - appare logico che per i pensatori più in vista dell'epoca quel fronte costituisse un obiettivo privilegiato. Non è che siano all'origine della «onnipresente mistificazione» in cui si bagna la coscienza che l'uomo ha di sé stesso. Dal momento che «non inventano la materia del loro pensiero; ricamano sui temi che nascono dalla vita quotidiana; il loro lavoro è soprattutto quello di una sistematizzazione, una giustificazione delle contraddizioni che trovano bell'e pronte». Ed è proprio alla «critica della vita quotidiana» che Henri Lefebvre si dedicherà più tardi. Non è forse essa che fornisce il terreno, la «base sociale» su cui fioriscono, secondo un processo di «creazione continua», ideologie ed illusioni?
Lefebvre e Guterman non sono per niente avari di diatribe contro i «mentitori specializzati», gli «impostori di successo» ed altri esempi di quella che è il «servitorume» filosofico, letterario e artistico. Le pagine da antologia dedicate a questa «burocrazia culturale» non fanno una piega: basterebbe solamente attualizzare i cognomi, «dal momento che tutto è progettato dagli editori e da un compromesso perpetuo; compiacere, vendere, offrire qualcosa di nuovo, ma in delle vecchie cornici [...] Il fine: arrivare a tutta la clientela. Certo, piani diversi; ma l'insieme funziona come se fosse una nassa per i pesci a più scomparti.»
Il periodo di restaurazione ideologica e di decomposizione intellettuale che seguì alla crisi del 1929 ebbe, fra le altre cose, anche i suoi «nuovi filosofi»- «Maligni, i "nuovi filosofi". Hanno creato un'atmosfera di compiacenza generale. I bei spiriti pubblicano libri; si critica gentilmente, con cortesia. O si prendono in prestito dei pezzi. Non si passa sulle idee. Repubblica dei buoni amici dello Spirito.» Seguono poi dei nomi che potrebbero essere facilmente sostituiti da quelli delle star più contemporanee del pensiero conforme. Ma, proseguono Guterman e Lefebvre, «sono questi i costumi in tempo di pace.» Basta che si verifichi un serio conflitto, sociale o militare, «ed ecco che coloro che sono distaccati tornano di colpo nella vita reale.» Assumendo dei comportamenti adatti, come si è verificato nuovamente durante lo sciopero del novembre-dicembre 1995 o nel corso della guerra imperialista contro la Jugoslavia. «Il distacco filosofico si rivela una commedia, ed i legami appaiono manifesti, e sono i legami di una servitù piatta e cieca. Il pensiero puro ha smesso di essere la casta al servizio della teologia solo per diventare la prostituta del capitale.»
Chi oserebbe dire che queste osservazioni hanno perso ogni attualità? Potremmo moltiplicare le analogie, perché i «pezzi di bravura» di questa medesima vena abbondano in questo libro. Basti dire che la sua lettura è assai rinvigorente!

- Jean-Pierre  Garnier - Pubblicato in: L'Homme et la société, N. 135, 2000. « Pensée unique » et pensées critiques. pp. 174-176.

(Norbert Guterman, Henri Lefebvre, La conscience mystifiée, [1936] préface de Lucien Bonnafé, René Lourau, préface de Henri Lefebvre à la 2e éd., Paris, Syllepse, 1999.)

fonte: Persee

mercoledì 27 giugno 2018

Poeti civili

orwell

Per un'ecologia del pensiero e della scrittura secondo George Orwell
- di Marguerite de Soos -

Scrivere un articolo, o esporre il proprio pensiero, non è un compito facile. Utilizzare le parole non è un atto neutro. Nel suo saggio "Politics and English Language", George Orwell ricorda l'importanza della scrittura ed i suoi problemi nascosti.  Propone quindi un nuovo metodo di scrittura, prodigandosi in consigli ed avvertimenti, a partire dai quali, sotto molti aspetti, numerosi giornalisti ed intellettuali potrebbero trarre ispirazione. Al momento della stesura del saggio di George Orwell, il contesto politico non era solo quello della fine del nazismo, della vittoria del liberalismo e del consumo, dell'avvio della decolonizzazione. o dell'inizio di un disinibito multiculturalismo. Ma era anche quello in cui si assisteva ad un avvenimento linguistico: era l'inizio dell'epoca di una post-verità industriale. Era il 1946, quando George Orwell decise di interessarsi nel dettaglio alla relazione esistente fra la politica ed il linguaggio. Linguistica e politica non sono affatto dei domini separati. I grammatici erano dei funzionari del Regno che lavoravano all'unificazione nazionale attraverso l'istituzione di un'Accademia (nel 1634, Richelieu aveva fondato l'Académie française), di un dizionario e di una letteratura (Joachim du Bellay scriveva nel 1549 "La Défense et illustration de la langue française"). Non è perciò sorprendente vedere George Orwell reagire alle qualità ortografiche e redazionali dei suoi contemporanei.
Orwell ritiene che ci siano troppi testi scritti male: secondo lui, l'uomo del mondo libero è libero di scrivere ciò che vuole, ma la quantità della sua produzione non ne garantisce affatto la qualità; anzi, è il contrario. In questo vede il segno di un'epoca "decadente". La debolezza del pensiero rende la scrittura uno sforzo mentale e fisico. Nel suo saggio, svolge in quattro punti una diagnosi di quelli che sono i mali inglesi: «parole senza significato», «ampollosità», «Operatori, o gambe di legno verbali» e «metafore spompate»...
Rigorosamente, egli basa la sua denuncia su delle prove e degli esempi giornalistici, politici ed accademici.
Orwell ritiene che la lingua sia ormai entrata nel registro della «parodia». Per iscritto, dà numerosi consigli al fine di chiarire e strutturare un proposito: la preferenza per le parole corte, la soppressione di ciò che è superfluo, la punteggiatura precisa... Teorizza quindi un'economia della scrittura, se non una vera e propria ecologia del pensiero. Ma prima di essere un ecologista, Orwell è un linguista antimoderno, convinto e militante: «Come ho cercato di mostrare, lo scrivere moderno nella forma peggiore non consiste nello scegliere le parole per quello che significano  e inventare immagini per renderne il significato più chiaro. Consiste nell’appiccicare insieme lunghi nastri di parole che qualcun altro ha già messo in fila e rendere il risultato adeguato grazie alla pura malafede.» Per lui, la modernità cerca la rapidità e la facilità a spese della verità.
La lingua inglese moderna è per natura una lingua capitalista: le parole fanno esperienza dell'inflazione, la grammatica è soggetta ad una ristrutturazione, la punteggiatura alla scomparsa. Essa crea solamente un discorso "svalutato", svuotato del suo valore.
Secondo lui, «Lo  stile  pomposo  è  di  per  sé  una  sorta  di  eufemismo.» Ecco perché è tempo di dedicarsi ad una decrescita dell'attività intellettuale e giornalistica, al fine di rivoluzionare la scrittura. A tal proposito, George Orwell si richiama a Simone Weil.

Una decadenza che ha origini politiche
«Ogni argomento è argomento politico e la politica stessa è una montagna di bugie, scantonamenti, stupidità, repulsione e schizofrenia. Quando l’atmosfera  generale è cattiva, il linguaggio soffre per forza. Mi aspetterei di scoprire – è un’ipotesi che le mie conoscenze non mi permettono di verificare – che il tedesco, il russo e l’italiano si siano tutti alterati negli ultimi dieci o quindici anni, come risultato della dittatura. Ma se il pensiero corrompe il linguaggio, anche il linguaggio può corrompere il pensiero». Per George Orwell, i suoi contemporanei, vittime di un'ideologia linguistica, sono sotto molti aspetti delle "marionette", "senza occhi" in quanto senza visione. Gli intellettuali sono ciechi e bugiardi. La loro professione consiste nel trasmettere il reale, ma si rivelano incapaci di vederlo. Quella che opera è una mistica della scrittura: lo scrittore ideologizzato cerca di imporre la sua parola, mentre dovrebbe essere la parola che si impone allo scrittore.
Il pensiero di George Orwell segue il conflitto moderno fra artista ed artigiano. E propone all'intellettuale un ritorno all'umiltà: Orwell è un giornalista che ha vissuto col popolo, e che trae da questo una filosofia, la famosa decenza comune. Secondo lui, il giornalista deve smettere di imporre le sue parole al popolo ed accettare di fare da semplice ripetitore delle parole del popolo, poiché in realtà non svolge una professione; egli non produce niente. Il giornalismo è un sacerdozio - direbbe George Bernanos - vale a dire un servizio, una cancellazione del sé a favore dell'altro. George Orwell non è altro che l'inviato della miseria popolare nei lussuosi ambienti londinesi. È questo il motivo per cui la letteratura può essere solo letteratura impegnata.
Tuttavia, egli ci mette anche in guardia contro una forma di ortodossia che toglie la vita alle parole. Orwell si oppone allo «stile imitativo». Propone uno stile quasi ecologico: delle parole fatte in casa, fresche e vive, e che non escono dalle industrie giornalistiche o editoriali. Avvenne durante la stesura di questo saggio che George Orwell ebbe l'intuizione che più tardi avrebbe chiamato neolingua, la quale rimandava al discorso totalitario. Secondo lui, la riflessione non è un riflesso, bensì un atto di "volontà". Si è convinto, a furia di combattere su quel terreno, che l'uomo non è un robot e che lo scrittore non è una macchina da scrivere. Il pensiero e la verità hanno una vita, e l'intellettuale deve rispettarla.
George Orwell desidera perciò consigliare i suoi colleghi e attraverso domande e consigli dare inizio ad una nuova generazione di giornalisti. «Che cosa sto cercando di dire? Con quali parole lo esprimerò? Quale immagine o modo di dire lo renderà più chiaro? Questa immagine è abbastanza fresca da avere un qualche effetto? Potrei dirlo più brevemente? Ho scritto qualcosa di bruttezza non necessaria?», sono domande utili per ciò che Baudelaire avrebbe chiamato un'igiene mentale. George Orwell mostra di essere particolarmente attento alla bellezza della lingua. È ciò che Bertrand Vergely chiamerebbe un "poeta civile", vale a dire un uomo che libera l'energia poetica di un'epoca. Pier Paolo Pasolini portava avanti questa stessa lotta contro la lingua pubblicitaria fatta di slogan. Sulla sua isola, Orwell si batte contro la lingua dei robot e degli uomini ideologizzati.

Alla ricerca di un pensiero incarnato
George Orwell preferisce lo stile dell'immagine e dell'analogia a quello delle lunghe descrizioni, cliniche e astratte: «Quando pensate a qualcosa di astratto siete più propensi ad usare le parole fin da principio e, a meno che non facciate uno sforzo consapevole per evitarlo, il gergo esistente irromperà a fare il lavoro per voi, offuscando o perfino mutando il vostro significato. Probabilmente è preferibile evitare di usare le parole più a lungo possibile e chiarirsi quanto più si può il significato attraverso immagini e sensazioni. In seguito uno può scegliere – non semplicemente accettare  – le frasi che meglio esprimono il significato e infine cambiare ruolo e stabilire quale impressione le parole scelte probabilmente faranno ad un’altra persona.
Quest’ultimo sforzo mentale taglia via tutte le immagini stantie o promiscue, tutte le frasi prefabbricate, le ripetizioni inutili, malafede e vaghezza in  genere.
»
La pretesa "scrittura pura" ispirata e spontanea, archetipo dell'uomo moderno e talentuoso, deriva da una visione romantica del pensatore che in realtà lascia spazio a degli errori e a delle derive ideologiche. Per l'uomo, scrivere è un processo lungo, laborioso, ma naturale: è per questo che Orwell vuole mettere a confronto il lettore e lo scrittore. Il pensiero viene scritto, e quindi completato, quando è fresco, breve e bello. Orwell utilizza un linguaggio colorito che parla da solo: «Un uomo può cominciare a bere perché si sente un fallito e così fallire sempre di più per il fatto che beve. È più  o meno quello che sta accadendo alla lingua inglese.» Poeta, parla per metafora al fine di illuminare gli spiriti. San Tommaso consigliava: «E' meglio illuminare gli altri che brillare solo per se stessi». Questo è senza dubbio un precetto che George Orwell si è sforzato di seguire, assumendo di essere solo l'umile corriere di una conoscenza che va al di là di lui.
È pieno di ottimismo quando continua: «[La scrittura] diventa brutta e imprecisa perché i nostri pensieri sono stupidi, ma la trascuratezza della nostra lingua ci rende più facile avere pensieri stupidi. Il punto è che il processo è reversibile.» Sta a noi essere «l'azione consapevole di una minoranza». Contrariamente a Simone Weil, che si dice pronta ad instaurare un Tribunale di verità e menzogne, Orwell propone un'autocorrezione ed una correzione fraterna per chiarire e fondare il pensiero. Ecco quali sono i cinque consigli che dà ai giornalisti ed ai politici dei suoi tempi per "de-ideologizzare" i loro discorsi:

« 1. Mai usare una metafora, similitudine o altra figura retorica che siete soliti vedere sulla stampa.
   2. Mai usare una parola lunga quando una corta va bene altrettanto. 
   3. Se è possibile tagliar via una parola, tagliatela sempre. 
  4. Mai usare il passivo quando potete usare l’attivo. 
  5. Mai usare una locuzione straniera, un termine scientifico, una parola di qualunque gergo se riuscite a        pensare all’equivalente in comune inglese. 
   6. Violare qualunque delle regole precedenti piuttosto che scrivere qualcosa di barbaro.»

- Marguerite de Soos - Pubblicato il 24 maggio 2017 su Philitt -

martedì 26 giugno 2018

Capitale cristiano!

todeschini2

Da dove vengono le parole, il vocabolario e la sintassi concettuale tipici dell'economia degli occidentali? A questa domanda - una domanda sull'origine delle categorie che hanno reso possibile pensare l'economia nell'Occidente cristiano - questo libro risponde ricostruendo una molteplicità di itinerari discorsivi. Si viene così a scoprire che fra teologia morale ed economia produttiva, o fra etica della carità e logica degli scambi commerciali, è esistita un'affinità stabilita da linguaggi, nozioni, immagini, per secoli funzionanti e comprensibili in ambiti apparentemente tanto diversi. La forza di metafore etico-religiose come quella che ingiungeva ai cristiani di comportarsi, per essere veramente tali, al modo di cambiavalute provetti, o l'esortazione all'attivismo economico che molta dottrina medievale volle leggere in parabole come quella dei "talenti", vengono a costituire lo stimolo di partenza per un viaggio testuale verso la scoperta delle premesse logiche e delle radici linguistiche di quanto è stato chiamato 'razionalità' economica occidentale.

(dal risvolto di copertina di:  I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, di Giacomo Todeschini, pubblicato da Il Mulino.)

Introduzione al libro
- di Giacomo Todeschini -

Siamo costantemente bersagliati da messaggi pubblicitari, ossia da costruzioni linguistiche pubblicamente ammesse come sensate, decisi a persuaderci del Valore preternaturale di determinati oggetti. Un certo orologio è di tale pregio e durata che non si può nemmeno possederlo ma solo tramandarlo ai posteri. Sconfigge il tempo, e per ciò stesso, acquistandolo si acquisisce un potere, ovvero un dominio, sul trascorrere stesso del tempo. È’ stata coniata, a proposito di oggetti in commercio di questo tipo, la definizione “merci di culto”1, e, del resto, si sono anche potute ipotizzare analogie e complesse somiglianze formali fra percorsi linguistici teologici elaborati soprattutto dalla Scolastica bassomedievale, e le teoria economica più astrattamente impersonale e “scientifica”2. Un economista di grande fama ha, pois, dal canto suo, indicato nello smarrimento, o nella rimozione, del nesso fra etica ed economia – ossia nella scomparsa della rappresentazione dei significati etici all’interno dei discorsi formalmente economici – la radice che ha condotto ad un congelamento in modelli apodittici delle spiegazioni e delle previsioni economiche.3 Non può sfuggire che i lessici della cosiddetta “globalizzazione” economica, in tutta la loro ambiguità, possono funzionare in un ambiente semantico caratterizzato dalla fede senza confini in valori costituiti da prodotti e simboli che li rappresentano. Questo insieme di stimoli, ricerche e suggerimenti, sembrerebbero di per sé indicare come percorso di analisi ancora in parte da percorrere, quello costituito dalle modalità di formazione delle categorie discorsive poi fatte proprie dalla riflessione economica occidentale. Non nel senso ampiamente esplorato da Max Weber, dai suoi eredi e poi da storici del pensiero economico come Schumpeter e Langholm, di una ricostruzione cronologicamente evolutiva dei nessi fra “religione” ed “economia”, e del presupposto progressivo affrancamento o autonomizzazione della seconda dalla prima4, o anche dell’incorporazione di uno “spirito” elaborato dalla prima nella seconda, ma piuttosto nella prospettiva di un’indagine sui modi di parlare (di scrivere) di economia fra Medioevo ed Età Moderna, alla ricerca delle logiche e dei vocabolari concreti che, in seguito, l’economia, rinata come scienza pratica, assunse come propri, distinguendoli però da quelli del giudizio morale e religioso che, prima, ne facevano parte integrante. Si tratta quindi, in questo caso, non più di domandarsi se l’economia come scienza si realizzò pienamente scindendo etico da economico, ma piuttosto quanto dell’etico, del religioso, del carismatico che era parte strutturante del modo di esprimere i significati economici in Età premoderna, poté essere cancellato, e quanto invece, al di là del “disincanto” della modernizzazione, e delle scelte consapevolmente utilitaristiche degli economisti e dei teorici, rimase profondamente cifrato e operante negli ingranaggi logici e linguistici stessi del discorso economico occidentale, inteso dunque, ancor più che come teoria, come organizzazione discorsiva largamente preterintenzionale, ossia come insieme di procedure argomentative che, servendosi di determinati vocabolari storicamente stratificatisi, andò producendo significati e interpretazioni per i comportamenti economici umani in tutta la loro quotidianità, e li estrasse dalla caduca occasionalità delle situazioni che li concretizzavano, per sistemarli in paradigmi mentali astratti, costruiti tuttavia con i materiali categoriali che tutta una cultura aveva prodotto e trasmesso.1 Un’analisi di questo tipo mira dunque alla individuazione dei percorsi di formazione di categorie discorsive; non si pone come primario il problema del senso di teorie o dottrine economiche premoderne, per la buona ragione che appare infondato ricercare una tale natura dottrinaria e dunque teoricamente strutturata, a partire da sistemi di significati assestatisi come scientifici soltanto dopo la fase di genesi discorsiva di cui qui ci si vuole occupare. Nello stesso tempo, la questione della “rottura” fra morale ed economia o della fondazione religiosa di logiche economiche è rinviata al momento in cui si sarà appurato se la differenza fra discorso economico e discorso etico-religioso, come ci appare se guardiamo a ritroso dal presente verso il passato al modo dell’angelo di Walter Benjamin, è confermata dalle testimonianze storiche, o se, invece, non si tratti in questo caso di un’illusione ottica, capace di dissolversi se, distogliendo lo sguardo dalle dottrine e dalle teorie, si osservino piuttosto i materiali con cui i significati economici vennero costruiti fra Medioevo ed Età Moderna. In questa prospettiva apparirà più rilevante la trasposizione di metodi costruttivi di significati economici dal sacro al civico, che non la fitta e costante contraddizione che, per un lungo tratto di secoli, oppose doctores e magistri a proposito della liceità di questo o quel contratto. Come si è di recente fatto notare2, all’interno dell’itinerario semantico che determina l’apparizione e il consolidamento di una categoria interpretativa, è più storicamente rilevante la parentela concettuale, la similitudine metodologica e lessicale fra pareri e argomentazioni, che non le conclusioni ossia i giudizi divergenti a cui essi eventualmente pervengano o i contrasti che le oppongono sul breve periodo. Per questa via è possibile scoprire che testi segnati da nomi che, come quelli di Tommaso d’Aquino, Bernardino da Siena, o Giovanni Calvino, sembrano rinviare a continenti ideologici lontani fra loro, contengono invece elementi comuni e dialetticamente affini, e indipendentemente dalle caselle in cui i manuali di storia dottrinale o filosofica li sistemarono. In particolare, è parsa, in questo libro, di particolare rilevanza la storia di come si venne generando in Occidente, la nozione di bene comune economico, e, insieme, di comunità di mercato. In entrambi i casi, la “fede” reciproca e la convinzione di condividere uno specifico credo cristiano, sembrano avere avuto un forte rapporto con l’istituirsi di un modo di pensare e di definire interessi, profitti e utilità economiche, apparentemente estraneo al terreno della religione e della morale. E, forse, non è superfluo domandarsi, in un’epoca di compiuta diffusione mondiale del modello economico occidentale, e tuttavia in un’epoca che ne vede la crisi nella crescita enorme delle povertà e nella degenerazione delle economie “liberiste”, come pure nella selvaggia dittatura multinazionale o transnazionale di alcuni gruppi economici, con quali linguaggi e con quali lessici questa economia occidentale abbia cominciato a parlare.

- Giacomo Todeschini -

Todeschini

Il Capitale nel XIII secolo Quanto vale la corona di spine?
- di Amedeo Feniello -

La nostra idea di Medioevo resta carica di pregiudizi. Ne incontriamo a bizzeffe, non solo nel quotidiano. Uno di essi ci porta lontano: all’idea cioè che il Medioevo cristiano fosse privo di un pensiero economico. Pensiero che, secondo i più, emerge solo dopo, in un mondo secolarizzato figlio della Riforma protestante, della rivoluzione scientifica e industriale. In una parola, nella Modernità. Nel 2002 uno dei medievisti italiani di maggiore spessore internazionale, Giacomo Todeschini, pubblicava un libro — I mercanti e il tempio (il Mulino) — nel quale ribatteva punto per punto questa idea, proponendo un Medioevo della riflessione sui temi etici della finanza, ricco e innovativo.
Ora il volume è stato ripubblicato in Francia; ma si tratta, a ben vedere, di un altro libro. Innanzitutto, grazie alla sapiente traduzione di Ida Giordano (con la collaborazione di Mathieu Arnoux). Poi, per i saggi ritocchi compiuti dallo stesso Todeschini. Ma specialmente per la prefazione di Thomas Piketty, dal suggestivo titolo Il Capitale cristiano, che fa da suggello a questa edizione.

Partirò proprio da questo punto, dal concetto di «Capitale cristiano», un’affermazione forte, adesso che ci avviciniamo al bicentenario della nascita di Karl Marx, ma da non trascurare. L’analisi di Todeschini porta su questa strada, con una ricerca accuratissima e ad ampio spettro (da sant’Ambrogio fino a Calvino) che mostra come la maggior parte delle nozioni economiche che noi associamo al capitalismo finanziario moderno trovino in realtà la loro origine nell’edificio intellettuale che si sviluppa nell’Occidente cristiano tra l’VIII e il XV secolo. Una vera e propria cattedrale romanica, sulla quale si costruiscono fiumi di interpretazioni, riflessioni, critiche volte ad uno scopo principale: «La giustificazione e l’esplicitazione — osserva Piketty — di un reale progetto d’organizzazione sociale e di dominazione politica e religiosa», pianificato e promosso dalla Chiesa. Un progetto che si sviluppa lungo tanti tracciati. Le idee di avere, di possesso, di scambio, di consumo, di dono, di accumulazione, di indennizzo, di investimento, di industria, di bene comune sono tutti retaggi del pensiero medievale, cui contribuirono personaggi straordinari, come i grandi Papi Gregorio VII e Innocenzo III; o intellettuali di peso sorprendente — per citarne solo qualcuno: Bernardo di Chiaravalle, Pier Damiani, Ru- perto di Deutz, Tommaso d’Aquino, Pier di Giovanni Ulivi. Temi che plasmano in profondità il Medioevo e che transitano, con evoluzioni semantiche profonde, sino a noi, ma spesso non del tutto purgati dal loro significato originario. Questa nozione del Capitale, fatta non solo di pratiche dottrinarie ma di un evidente pragmatismo, segue una evoluzione definita, legata all’idea di ricchezza e di economia: questioni che, dal IV secolo in poi, da quando la società occidentale si cristianizza, diventano per la Chiesa in formazione problemi da affrontare senza infingimenti, faccia a faccia. In una condizione in cui essa si trovava ad accumulare vaste ricchezze, risultava indispensabile pensare ai requisiti di «una proprietà giusta e di una economia cristiana». La ricchezza diventa allora una componente positiva della società cristiana, col vincolo però che parte dei beni accumulati dai fedeli venisse trasmessa alla Chiesa e che fossero rispettate un certo numero di regole economiche e finanziarie.

Nascono norme. Canoni. Misure. E con esse un immaginario fatto di figure simbolo, tra cui Giuda, riletto non più e soltanto come l’incarnazione del traditore, ma per la sua cupidigia e avidità: lui, che voleva convertire in monete sonanti l’unguento prezioso che Maria di Betania cospargeva sui piedi di Cristo, viene presentato, proprio a partire da questo episodio, come l’ emblema del cattivo cristiano, che confonde un utile a breve termine e finito — il denaro — con un altro a lungo termine — l’eternità del Paradiso. Modello cui si oppone quello del monastero, il quale si regge su un’utilità economica solidale, dove tutto è di tutti e di nessuno, perché ogni monaco appartiene ad una medesima comunità, basata su una razionalità di comportamenti economici (basti pensare alla figura che affianca l’abate, il cellarius ovverosia l’economo). Comunità per la quale le logiche del commercio e della rivendita delle eccedenze, come quelle della buona e ragionata gestione del patrimonio, vengono rivendicate come pratiche legittime e riconosciute. Capacità che, a partire dall’XI secolo, trasforma i monasteri nei grandi motori economici della centralizzazione ecclesiastica.
Questo mondo del «Capitale cristiano» si anima di tante storie. Fra le più seducenti c’è quella che riguarda una delle grandi reliquie della Cristianità: la corona di spine, che fu protagonista di un frenetico scambio, che terminò nel 1239, tra il re di Gerusalemme Baldovino, il re di Francia Luigi IX e alcuni mercanti veneziani e francesi. Scambio che presuppone una questione importante, che non è soltanto quella del mercato delle reliquie — tipico del Medioevo — ma concerne il valore stesso della corona: che prezzo attribuire a questo sancta sanctorum? Non c’era al mondo niente di comparabile. Niente di più sacro appartenuto al Cristo. Fatto sta che, nella sua peregrinazione commerciale, la corona si trasforma, quasi sospesa in uno spazio compreso tra l’economia profana e quella del sacro: la sua essenza magico-religiosa, infatti, si desacralizza modificandosi in mezzo di pagamento — diventa appunto un mero oggetto di pegno — a causa di un debito non pagato da Baldovino ai veneziani; pegno che però sarà riscattato da alcuni mercanti francesi, che trasmuteranno il pegno in munus, ossia di nuovo in un dono sacro per il re di Francia.
Il libro apporta insomma una serie di elementi inaspettati non solo per la conoscenza della storia delle idee economiche, ma per chiarire tante prospettive che sono alla base del capitalismo moderno. Come ad esempio il tema del diritto di proprietà che, come assunto teorico, non nasce alla fine del XVII secolo, ma è un prodotto tipico delle dottrine cristiane volte ad assicurare la perennità della Chiesa come organizzazione religiosa e patrimoniale. Concretezza di analisi che tocca altri argomenti, tra cui quello dell’usura, dove il problema centrale che ci si pose non fu tanto quello di proibire l’usura, ma piuttosto di regolare, dice Todeschini, «le forme di investimento e di possesso ammissibili, di assicurarsi che il capitale fosse adoperato nelle forme più legittime», in maniera conforme con la dottrina cristiana.
Con un’ultima storia. Quando a Papa Innocenzo IV, nel cuore del Duecento, fu chiesto che cosa pensasse dell’usura, rispose grossomodo così: che non era quello il problema in quanto tale, ma che una ricchezza troppo elevata raggiunta in maniera così facile avrebbe spinto tanti a scegliere quella strada piuttosto che darsi ad attività altrettanto sicure, ma più faticose, figlie di una economia reale più che artificiale. Una bella lezione medievale, per i maestri della finanza creativa.

- Amedeo Feniello - Pubblicato sulla Lettura del 18/2/2018 -

lunedì 25 giugno 2018

Misteri

mistery.doc


Libri, l'ultima frontiera è il romanzo-mondo
- di Raffaella De Santis -

La tendenza americana al libro mastodontico ha nel nuovo millennio un nuovo adepto. Segnatevi il nome perché potrebbe diventare il vostro migliore amico o il vostro peggior nemico: Matthew McIntosh è un quarantenne che ha da poco pubblicato per la casa editrice newyorkese Grove Press un libro di 1664 pagine, "theMistery.doc".
Nonostante la mole non proprio agevole, il romanzone ha conquistato i librai indipendenti americani ed è stato sponsorizzato da City Lights, la libreria più cool di San Francsico. Il tempio di Ferlinghetti, simbolo inossidabile della Beat Generation, già ha dedicato un reading accompagnato da filmati e video.
Parole e immagini, perché lo straripante volume di McIntosh contiene un po' di tutto: foto di film e personali, registrazioni di chat, pagine di Wikipedia, salmi biblici. Il tutto attingendo a vari generi letterari, a partire dal thriller. Il pastiche è costato all'autore 13 anni di lavoro.
La trama è un pretesto. Uno scrittore che ha perso la memoria scopre che stava scrivendo un libro gigantesco ma sul desk del computer il file è vuoto, c'è solo un titolo: theMistery.doc. Questo in breve. Il resto è negli infiniti e inattesi rivoli in cui perde il plot, incorniciato in una confezione grafica bellissima, curata dalla moglie designer dello scrittore.
Il pubblisher di Groove Press, Morgan Entrekin, racconta di essere rimasto folgorato fin dalla prima lettura, tanto da portare il romanzo all'ultima fiera di Francoforte, pur sapendo che sarebbe stato difficile trovargli un compratore. «Avevo pubblicato il primo libro di Matthew, Well, nel 2003 ma poi ne avevo perso le tracce», ci aveva detto durante la Buchmesse. «Poi un giorno mi ha telefonato il suo agente e mi ha proposto questo tomo. All'inizio mi sono impaurito, ma poi l'ho letto e... wov. Era incredibile, una nuova forma di narrazione frammentata, figlia dei tempi modificati dai device e dalla Rete».
A New York, nella sede della casa editrice Grove Press, Peter Blackstock, il giovane editor che ha avuto in cura questo pazzo libro svela il backstage della folle impresa: «Il solo lavoro di editing che abbiamo fatto, che Matthew ci ha permesso, è tagliare».
Blackstock prende tre grossi volumi e li mette sul tavolo: «Ecco com'era all'inizio», dice sorridendo. «Ci ha lavorato ogni giorno, per anni. È venuto a New York solo una volta per firmare il contratto. Per il resto ci siamo sentiti telefonicamente. È molto timido, vive vicino a Washington e non ama la vita mondana». Poche anche le interviste. Risponde però ad un paio di domande via mail: «La versione precedente superava le 20 mila pagine», dice, «anche se non le ho mai contate veramente. Era un altro libro, dal quale ho poi distillato quello che oggi leggete».
Per realizzare la sua impresa, McIntosh ha vissuto per anni come un monaco concentrato sull'oggetto della sua fede. «In genere mi alzavo verso le 10 e lavoravo tutto il giorno con piccole pause per mangiare e fare un po' di ginnastica. Dopo cena mi rimettevo al lavoro fino alle due o tre del mattino. Pensavo in continuazione al libro, spesso lo sognavo la notte». Nel testo, dove compare col suo vero nome, a chi gli chiede cosa stia scrivendo risponde: «Un libro sull'America». Mentre il suo alter ego, lo smemorato Daniel, definisce il romanzo «una post-post-neo-modern-mistery-story».
In Italia il romanzo monstre verrà pubblicato dal Saggiatore il prossimo anno, tradotto da Luca Fusari: «Collaboreremo con l'autore, per assicurarci che la nostra edizione rispetti appieno la sua visione», spiega l'editor Andrea Morstabilini.
Negli Stati Uniti la tendenza a scrivere libri sterminati, ribattezzata con ironia door-stopping tendency, ha prodotto capolavori come Underworld di Don DeLillo e Infinite Jest di David Foster Wallace e frutti stravaganti come il Book of Numbers di Joshua Cohen (592 pagine), The istructions di Adam Levin (più di mille pagine) o il romanzo seriale The Familiar di Mark Danielewski, progetto prometeico in 27 volumi in corso d'opera. Senza dimentica l'ultimo di Paul Auster, il vertiginoso 4321 (940 pagine, in Italia edito da Einaudi).
Come tutti loro, anche McIntosh aspira all'opera-mondo. Il Washington Post ha paragonato il libro ad una smisurata installazione artistica. I Guardian lo ha definito «un gigantesco album di idee». Un album tipograficamente stravagante, con pagine piene di asterischi (rappresentano la neve che cade), bizzarri segni grafici, cancellature e spazi bianchi. Ma, strano a dirsi, l'effetto non è cerebrale, anzi emozione. In fondo parla di famiglia, amore, nascita e morte. Sembra di entrare nella cantina di una casa abbandonata da poco, dov'è difficile separare le cose da buttare da quelle che meritano di essere conservate. Ma proprio quella confusione parla di noi. Lo fa attraverso le foto più intime del padre morente o quelle che testimoniano il miracolo di un parto, inseguendo le sequenze del film Titanic o quelle del crollo delle Twin Towers. Può catturare o respingere, ma non lasciarci indifferenti. Lo odierete o lo amerete.

- Raffaella De Santis- Pubblicato su Repubblica del 10/2/2018 -

domenica 24 giugno 2018

Esaurimento

antropocene

Antropocene? Piuttosto, direi Capitalocene!
- Intervista a Jason W. Moore - 14/06/2018 -

Nella discussione sulla crisi ecologica globale, si parla sempre più di Antropocene - termine derivante dalla combinazione delle parole greche "anthropos" (umano) e "kainos" (nuovo). Questo concetto fa riferimento alla scala globale dell'impatto che ha l'attività umana sulla composizione ed il funzionamento del "sistema del pianeta Terra". Nella sua versione più comune, l'idea dell'Antropocene si basa principalmente su considerazioni ecologiche. Sottolineando in particolare l'estinzione accelerato di un grande numero di specie, la riduzione progressiva della disponibilità di combustibili fossili e l'aumento delle emissioni di gas serra, inclusi anidride carbonica e metano. Sebbene, su scala geologica, si tratti di un fenomeno assai recente, è già stato dimostrato che l'attività antropica (vale a dire, di origine umana) è la causa diretta di questi fenomeni ed ha influito profondamente nelle trasformazioni dell'ambiente su scala globale. La prospettiva di una "ecologia-mondo", sviluppata da Jason W. Moore, non affronta in alcun modo questo quadro da un punto di vista descrittivo; tuttavia, cattura alcuni degli altri aspetti, supportati fra l'altro da alcuni dati indiscutibili. Il sociologo nordamericano critica la narrazione "antropocenica", in quanto essa si concentra solo sugli effetti di degrado ecologico. In questo modo, in realtà stiamo trascurando l'analisi delle cause di un tale degrado, cosa che rende ancora più difficile identificare i responsabili della crisi ecologica e cercare soluzioni politiche al problema. Al contrario, dobbiamo andare alla radice della questione, riconoscendo che il capitalismo, sebbene non abbia delle norme che lo facciano essere un sistema rispetto dell'ambiente, è di per sé, inevitabilmente, un sistema ecologico. Visto in un simile contesto, l'impulso all'insostenibilità ambientale da parte del capitalismo, può essere visto come qualcosa di inerente all'organizzazione del lavoro che mira all'accumulazione illimitata. Ed è grazie a questo tempestivo aggiornamento di quello che è un concetto contemporaneo, che l'armamentario teorico sta dimostrando la sua continua adeguatezza, segnalando che è la coazione forzata del lavoro (sia umano che non umano), subordinato all'imperativo del profitto a qualsiasi costo - e pertanto all'imperativo dell'accumulazione illimitata - che sta provocando la rottura dell'equilibrio dell'ecosistema. Quindi, non parliamo di Antropocene, ma piuttosto di "Capitalocene".

Incontriamo Moore a Ragusa [Sicilia], dove Salvo Torre, professore dell'Università di Catania, ha organizzato un seminario intensivo sulla "ecologia-mondo" e l'attuale crisi globale, previsto prima del congresso di Napoli del 9 giugno, dal titolo "Ecologia politica del presente", cui parteciperanno anche altri specialisti accademici implicati nella ricerca di questioni legate all'ecologia politica e conflitti socio-economici. Dialogano con Moore, Gennaro Avallone [Università di Salerno] e Emanuele Leonardi [Università di Coimbra].

Domanda: Secondo la sua prospettiva, il lavoro e la natura sono due facce della stessa medaglia, soprattutto se consideriamo la necessità capitalistica di produrre grandi quantità di merci ad un costo sempre più inferiore. Dunque, come si costituisce la relazione fra natura a basso costo e lavoro a basso costo?

Moore: «Il mio punto di partenza è la consapevolezza del fatto che il capitalismo non è solo una pratica di sfruttamento economico del lavoro, ma è anche - e più fondamentalmente - una forma storica di dominio che si estende al lavoro domestico, al lavoro servile ed al lavoro che implica la natura. In questo senso, il capitale ha sempre bisogno di produrre natura a buon mercato, al fine di rilanciare continuamente il processo di accumulazione. Questa parola, "a buon mercato", non si riferisce solamente al suo basso costo. Dev'essere intesa piuttosto come una strategia globale, onnicomprensiva, in cui la riduzione del prezzo è subordinata ad un deterioramento più generale, nei termini di "minor" dignità e rispetto, assegnati ai soggetti dominati: le donne, le popolazioni colonizzate e l'ambiente. Secondo questo punto di vista, il lavoro a buon mercato è l'unico elemento di una natura che viene ad essere sottomessa alla violenza del capitale, e la cosa andrebbe pensata sia nei termini di una dinamica economica volta a ridurre i costi salariali - vale a dire, il costo, così come il valore, della manodopera - sia nei termini di un progetto di espansione del lavoro non pagato, il quale, anche se è diventato invisibile, si verifica sul terreno della riproduzione umana.»

Domanda: Nel suo libro, sostiene che nell'attuale situazione economica, il capitalismo ha esaurito la sua capacità stessa di produrre natura a buon mercato. Da dove le proviene questa convinzione?

Moore: «Ogni ciclo di accumulazione di ricchezza, ha richiesto almeno quattro elementi a buon mercato. Questi cosiddetti "i quattro a buon mercato", che si riducono ad essere i beni necessari all'accumulazione di ricchezza, sono stati la manodopera, gli alimenti, l'energia e le materie prime. Ciascuna delle grandi ondate di accumulazione di ricchezza su scala globale, si è sviluppata basandosi su ampie ricostruzioni della "ecologia-mondo", che si sono concentrate sulle rivoluzioni agricole. Il momento attuale, è l'ultimo di una lunga storia di limitazioni e di crisi che il capitale ha dovuto affrontare. Tuttavia, credo che oggi le condizioni che possano riprodurre questo genere di processo non siano più presenti, innanzi tutto a causa del cambiamento climatico, che produce l'effetto di aumentare i costi e ridurre la disponibilità di ciascuno di questi elementi. La natura ci sta presentando il conto, ed esige il pagamento di tutto quello che abbiamo estratto da essa nel corso dei secoli.
Un chiaro esempio recente di questo, è costituito dal costo sempre più elevato dell'agricoltura, sia in termini di energia che in termini di biologia. Il consumo di riserve su scala planetaria è talmente elevato che, per il 2050, le colture piantate produrranno considerevolmente al di sotto di qualsiasi probabile aspettativa del mercato alimentare globale.
»

Domanda: Il suo campo di ricerca ha un'esplicita dimensione militante. Quali sono gli strumenti principali di mobilitazione offerti da questa prospettiva della "ecologia-mondo"?

Moore: «La mia speranza è che questa ricerca teorica possa fornire conoscenze che siano utili per i movimenti sociali di tutto il mondo che lottano non solo contro gli effetti, ma anche contro le cause profonde dei cambiamenti climatici. Naomi Klein ha fatto ricorso ad un termine molto appropriato, "Blockadia", per fare riferimento a questa zona di conflitto transnazionale ed itinerante, la quale include e collega le comuni lotte sindacali, i movimenti ecologici per la giustizia climatica ed i movimenti popolari di straordinaria potenza, come "Black Lives Matter", come "Idle No More", e come "Standing Rock". Credi che sia arrivato il momento di porsi la domanda su come possiamo costruire una contro-egemonia post-capitalista, che possa contrastare in maniera efficace le disastrose politiche ambientali imposte dal neoliberismo.
Nel libro che ho scritto insieme a Raj Patel, Una Storia del mondo a buon mercato" (Feltrinelli), cerchiamo di dare alcune indicazioni per poter arrivare a questo obiettivo, parlando dell'ecologia dei risarcimenti, che include compensazioni monetarie per il debito ecologico, ma che, naturalmente, non si riducono a questo. Soprattutto, identifichiamo forme diverse di redistribuzione della ricchezza - sia sociale che ambientale - ugualmente indispensabili, così come la reinvenzione del lavoro al di là della sua forma salariata.
Dopo tutto, chi ha detto che il lavoro dev'essere solo un lavoro quotidiano, e non una forma allegra di condivisione? A questo punto, è importante essere chiari: la rivoluzione ecologica è assolutamente incompatibile con la cosiddetta "etica del lavoro", la quale non è altro che una dolorosa eredità del colonialismo.
Detto in sintesi, non sosteniamo che si richiede duro lavoro, e sforzo, per produrre tutto quello che è necessario per il benessere sociale, ma chiediamo che il lavoro venga svolto, per quanto possibile, con maggior senso e gradevolezza. Soprattutto, abbiamo la speranza che le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici possono cambiare radicalmente l'attuale relazione perversa fra lavoro, vita e gioco, e che il capitalismo sta imponendo in maniera violenta.
»

fonte: Il manifesto global, 10 giugno 2018

sabato 23 giugno 2018

La necessità della disobbedienza

icaro

L’uomo è la più tronfia, superba e tracotante delle creature. La necessità di soddisfare i suoi bisogni e la sete di conoscenza lo hanno indotto a esplorare, sperimentare, a spostare il limite sempre un po’ più in là. All’inizio è stata una questione di sopravvivenza, poi è diventato un meccanismo talmente abituale da risultare connaturato, a tratti perverso: competere con gli dèi, sottomettere gli animali, dominare la natura, sconfiggere la morte. Questa è la hybris, il tragico errore di Icaro. Per Carlo Bordoni è alla hybris che va ricondotta la crisi del nostro tempo. Oggi i valori di democrazia, libertà, uguaglianza e progresso appaiono scarnificati, scoloriti e intermittenti, fragili origami privi di autorevolezza e sacrificati al dio dell’eccesso; oggi si profetizza un nuovo declino dell’Occidente. Perché il colmo della tracotanza consiste nell’ignorare deliberatamente il futuro, nel vivere in un eterno presente dominato dalla voracità del benessere e da un’inquietante forma di indifferenza. Ma, paradossalmente, è proprio grazie alla hybris che possiamo riscattare il presente e nutrire speranze per il futuro: avere la spinta a superare i limiti significa saper deviare dal percorso già tracciato, compiere uno scarto e magari trovare una nuova via. Significa riappropriarsi del potere di determinare il futuro, a dispetto di qualsiasi opprimente organismo sovranazionale o orwelliano dispositivo di controllo. Essere disobbedienti significa essere creativi. Essere Icaro significa volare alto, quasi fino al sole.

(dal risvolto di copertina di:  Carlo Bordoni, "Il paradosso di Icaro. Ovvero la necessità della disobbedienza", Il Saggiatore)

Senza tracotanza saremmo perduti
- La voglia di osare ci rende umani -
di Gianluca Mercuri

E se in quest'epoca liquida e incerta a salvarci fosse la hybris? Se a soccorrerci fosse la «tracotanza» che abbiamo visto punire nelle tragedie greche e che invece è il motore della storia, la più creativa delle risorse umane, l'unica spinta che ci può restituire speranza e capacità di ribellarci ai guasti del presente? Insomma: l'unica possibile fonte di futuro.
È il filo che Carlo Bordoni lancia nel nostro labirinto quotidiano con "Il paradosso di Icaro. Ovvero la necessità della disobbedienza" (Il Saggiatore), il saggio con cui il sociologo prosegue l'analisi della crisi della modernità avviata nel solco di Zygmunt Bauman. Delle cinque figure mitiche tratte dalla cultura greca su cui si struttura il libro, la hybris è senz'altro la più avvincente, per come Bordoni riesce a svelarne il lato benefico e «progressista», la sua necessità ciclica nel sovvertire l'ordine quando l'ordine si fa oppressione.
«La storia dell'uomo è la storia di una hybris sconfinata», dalla lotta dei primitivi per la sopravvivenza alle ambizioni sempre più smisurate dei loro discendenti: non ci sarebbe conquista, invenzione o scoperta senza quella disposizione a osare, infrangere, superare. Non è la hybris l'origine dell'ingiustizia ma il suo figlio degenere, il kòros, l'«eccesso», la «sazietà insaziabile»che schiaccia gli «inferiori» e porta sfruttamento, dominio e disuguaglianza.
Ecco, è l'uguaglianza il filo conduttore di Bordoni. Se nell'età greca classica la hybris era uno strumento di controllo sociale - punita dagli dei se commessa tra aristocratici, ma consentita nei confronti delle classi subalterne - nell'età moderna diventa la via dell'ascesa borghese. È il trionfo della modernità, con la nascita dello Stato, la più solida istituzione mai sperimentata. La hybris del borghese è ribellione al limite di ogni campo. La sua arroganza cerca l'eccellenza e sovverte l'ordine. Ma l'ordine borghese rivela a sua volta il suo aspetto sopraffattore e la hybris rivoluzionaria lo minaccia fino a costringerlo a una promessa di uguaglianza. Che però è affetta da un'«insanabile ambiguità»: formalmente indiscutibile, non si afferma nella realtà effettuale.
Il filo di Bordoni ci porta così ai giorni nostri, alla società resa liquida dall'incertezza, dall'indebolimento delle istituzioni: lo Stato su tutte. La crisi del 2008, spiega il sociologo, ha ingannato tutti, a cominciare da chi a sinistra vi ha visto l'ennesimo preteso suicidio del capitalismo e non la sua astuzia storica, la sua capacità di reinventarsi falciando costi e risorse senza più investire. Al kòros delle élite non risponde però una hybris feconda: rischiano di trionfare le retrotopie (ennesima intuizione baumaniana), le utopie passatiste spacciate come il biglietto di ritorno a improbabili età dell'oro (o della lira).
Ci troviamo così in un «interregno» refrattario al futuro o in cui, per dirla meravigliosamente con Paul Valéry, «il futuro non è più quello di una volta». Non è più legato all'idea di progresso, di un domani migliore. È annullato dalla frenesia, dalla «resa della speranza», dall'incapacità di aspettare, dunque di lottare. Ma la speranza resta sempre lì, in fondo al vaso di Pandora. E l'esempio resta Prometeo, vero protagonista di questo libro, benefattore dell'umanità col suo atto di hybris e ribelle di successo che non vede la sua sfida squagliarsi al sole (anche per questo, forse, il titolo lo avrebbe meritato lui).
"Il paradosso di Icaro" è un'appassionante storia del pensiero e dell'agire umani che, nell'affrontare la crisi della modernità, ci parla delle nostre vite. Ci spiega perché ogni giornata che affrontiamo è una lotta tra limiti e possibilità, con noi al centro del campo di battaglia e capaci di tutto. Crederlo è già hybris. Ma una hybris necessaria, che ci strappa a ogni forma di rassegnazione.

- Gianluca MercuriPubblicato sul Corriere dell’8 giugno 2018 -

venerdì 22 giugno 2018

Cuccagna!

cuccagna bruegel

Un paese dove ogni giorno è una vacanza, dove si mangia e si beve a volontà. Un paese in cui i muri delle case sono fatti di pesce grasso, i tetti di pancetta affumicata, le staccionate di carni arrostite e prosciutti, dove nei fiumi scorrono i migliori vini. Un paese egualitario dove non si vende e non si compra niente, dove gli uomini, come le donne, scelgono liberamente i loro partner sessuali e soddisfano i tutti i loro desideri. Cantato per secoli in versi e in prosa in tutti i paesi del mondo, il Paese della Cuccagna è un territorio dove i limiti della società vengono allegramente trasgrediti.  Un Paese che è allo stesso tempo una critica sociale, un sogno collettivo, una fantasia, una satira libertaria, una parodia anarchica della cultura dominante. Dai Carmina Burana, passando per Freud, alla gastronomia medievale, Hilário Franco Júnior ci offre in questo libro una vera e propria archeologia di quest'utopia radicale e delle sue interazioni con la vita quotidiana, politica, religiosa ed economica.

Prefazione di Jacques Le Goff

Il paese di Cuccagna è ben conosciuto nell'Europa occidentale e in America. È uno dei paesi leggendari più attraenti e seducenti che arricchiscono la cultura popolare e folclorica di questi due universi con frequenza accomunati, legati da tematiche simili in seguito a trasferimenti e scambi, o a sviluppi paralleli.
Le descrizioni del paese di Cuccagna formano in Europa un corpus i cui elementi sono stati oggetti di numerosi studi, ma che non è mai stato considerato nella totalità delle sue versioni e delle sue problematiche. È questa una prima ragione per elogiare il professor Hilário Franco Júnior: l'aver studiato per la prima volta l'insieme di questo corpus.
La nostra gratitudine nei suoi confronti è ancora maggiore, in quanto egli ha posto il suo studio nella luce di un problema fondamentale della storia culturale: che rapporti esistono fra i paesi immaginari usciti dalla fantasia dei narratori e degli scrittori e le società reali che possono definirsi storiche? Metodo innovativo e fecondo, il solo in grado di spiegare la nascita, la natura e la storia delle versioni orali, scritte e figurative di quelle leggende.
In effetti finora questi due oggetti storici sono stati trattati separatamente. Si mutila e si impoverisce la conoscenza delle società "reali" amputandole dell'immaginario, che però non costituisce un semplice riflesso deformato di queste società, ma è un qualcosa che mantiene con queste relazioni interattive, come ha ben mostrato Hilário Franco Júnior.
Da circa trent'anni a questa parte la storia dell'immaginario ha raggiunto giustamente una posizione sempre più importante nell'ambito del sapere storico. E un numero sempre maggiore di storici riconosce che le immagini, le rappresentazioni, le società immaginarie, sono tanto reali quanto le altre, pur se in maniera differente, secondo un'altra logica, un'altra consistenza, un'altra evoluzione. L'immaginario sociale presenta pertanto una storia che fa parte della storia glovbale delle società, ma che possiede una sua originalità e una specificità.
Da un lato i testi che descrivono le società immaginarie si legano generalmente all'immaginario letterario e alimentano il fecondo dialogo che da alcuni decenni si svolge fra gli storici del medioevo e gli gli storici della letteratura medievale. Hilário Franco Júnior è tra questi, e proprio da questo punto di vista metodologico fondamentale il suo libro è esemplare.
Dall'altro gli storici della letteratura, dell'immaginario e, in maniera più generale, delle rappresentazioni hanno mostrato la frequente propensione a considerare questi testi, queste immagini e queste idee indipendentemente dalla storia delle società reali, lasciandoli aleggiare tra fantasmi atemporali, o rinchiusi in un'atmosfera irreale, mentre in verità essi vivono nel cuore e nello spirito degli stessi uomini e delle stesse donne che costituiscono le società reali.
Alla base e al centro del suo studio, Hilário Franco Júnior ha posto giustamente la versione conosciuta pià antica riferentesi al paese di Cuccagna, il fabliau de Cocagne, composizione francese risalente alla metà del XIII secolo. Sulla base di questo testo l'Autore offre una cronologia approssimativa relativa all'epoc dell'apparizione del tema di Cuccagna.
Esso sorge in un periodo di grande sviluppo della società medievale, fra la metà del XXI secolo e la metà del XIII, allorché gli eventi di carattere materiale, sociale, politico e culturale accrebbero gli appetiti creando il rammarico che la società cristiana non avesse potuto superare i limiti, le impotenze, le repressioni che ancora la tenevano legata.
Il XIII secolo fu un'epoca di regolamentazione, di ordine, nel nome di un ideale che i princìpi preposti alla costruzione di un modello di Stato moderno e gli ordini mendicanti - guidati da domenicani e francescani, apostoli dell'aggiornamento dei princìpi e delle pratiche religiose finalizzati a indirizzare la nuova società, spinta al lavoro, tentata dal danaro che circolava in quantità maggiore e in maniera sempre più rapida - si sforzavano di instaurare mediante il diritto, l'amministrazione, l'insegnamento, la predicazione.
Il paese di Cuccagna è un sogno e una protesta nei confronti di questi limiti e di questo addomesticamento delle pulsioni individuali e collettive, che vanno dalla confessione e dalla penitenza all'Inquisizione, dalle leggi e dai tribunali alla prigione e al patibolo. Esso si si situa all'interno del fiorire di una geografia immaginaria, di viaggi alla scoperta dell'aldilà, di visioni fantastiche o escatologiche.
Hilário Franco Júnior analizza questi temi principali di questo paese senza legge, limite o repressione: l'abbondanza, l'ozio, la giovinezza e la libertà. L'abbondanza risponde alla volontà di opporsi alla realtà vissuta e patita a causa di una duplice insoddisfazione alimentare, da un lato derivante da una produzione ancora limitata dalla natura e da un processo economico che non aveva eliminato del tutto la scarsità e neppure la fame, dall'altro lato derivante dall'astinenza e dai digiuni imposti dalla Chiesa.
Cuccagna è l'ideale anticristiano della "abbuffata". Il film di Marco Ferreri che reca questo nome (1973), il cui significato è comunque molto diverso, in quanto si tratta di una satira nei confronti della nostra società consumistica, ha sucitato ancora ai nostri giorni vive proteste da parte di alcuni ambienti cattolici. In tal senso Hilário Franco Júnior ha molto ben compreso che l'elogio dell'abbondanza costituisce una sfida alla Chiesa, che stigmatizza la gola (la brama di mangiare) come uno dei peccati capitali più detestabili, cosa che originò "Il combattimento di Carnevale e Quaresima", tema che attraversa la fine del Medioevo e il Rinascimento per giungere, come il paese di Cuccagna, fino a Bruegel.
Sull'assenza del pane, delle spezie, dei legumi, della frutta, della minestra e dell'acqua, di contro all'abbondanza del pesce, della carne, del vino e dei dolci, Hilário Franco Júnior formula suggerimenti interessanti fondati sulla pertinente ipotesi di una critica alla Chiesa. La sua considerazione arricchisce il dibattito, che comunque mi sembra rimanere aperto. In ogni modo il suo metodo di ricercare un fondamento ideologico e storico al paesaggio alimentare è corretto e fecondo.
Paesaggio alimentare che vede in Cuccagna l'assenza di un tratto essenziale, l'opposizione levi-straussiana di crudo e di cotto presente nella letteratura cortese, in particolare in Chrétien de Troyes. Non si cucina nel paese di Cuccagna, in quanto è lavoro, e Hilário Franco Júnior ha ben percepito che il lavoro  è assolutamente bandito da quel mondo.
Cuccagna è un mondo senza strumenti, senza utensili, senza macchine. Il pane è assente perché il lavoro di molitura non esiste. Il vino è presente perché non viene prodotto dal torchio, ma scorre in natura come un ruscello. Gli alimenti, già cotti, codono nelle bocche degli uomini e delle donne, così come gli uccelli, che in questo mondo, invece di salire, scendono.
Questa esaltazione del far niente è datata. Il XIII secolo è il periodo in cui è al culmine la promozione del lavoro che l'Alto Medioevo e i suoi monaci avevano lentamente riabilitato, trasferendolo dalla maledizione della Genesi alla valorizzazione legata al nuovo sviluppo agricolo e urbano. Marta è rivalutata dinanzi a Maria. Il pensiero monastico è riflessivo. Il pensiero e l'insegnamento delle scuole cittadine e delle università sono "lavoro". Si diffonde un nuovo proverbio: "Il lavoro supera la valentìa".
Cuccagna è la negazione di questo ideale ergometrico e laborioso. Cuccagna è contemporanea al sorgere di termini vernacolari e neolatini che, rifiutando quelli di labor o di opus, si formano a partire da uno strumento di tortura, il tripulium, come Hilário Franco Júnior diagnostica con perspicacio: travail, travaglio.
In questo mondo del non-lavoro è l'oziosità a vincere: "là, chi più dorme, più guadagna". Non vi è qui un'altra pista da esplorare? Accanto al lavoro il XIII secolo vede la promozione del danaro con i suoi nuovi problemi: la lotta di certi ambienti religiosi contro il prestito a interessi, condannato come usura. L'argomentazione più forte della Chiesa in favore di questa condanna è che colui che presta danaro non si arricchisce lavorando, ma dormeno, poiché mentre egli dorme è il suo danaro che "lavora".
Non si deve allora ricordare Francesco d'Assisi, che chiedeva ai suoi fratelli di non considerare le monete migliori delle pietre, dei sassi? A Cuccagna, nota Hilário Franco Júnior, le monete, prodotti industriali, culturali e non naturali, sono sparse al suolo.
Ma l'autore va oltre e con ragione. Dietro l'elogio dell'ozio vi è una contestazione del tempo, del tempo misurato, del calendario. Tutti i giorni senza lavoro ivi vengono moltiplicati: ogni anno ha quattro Pasque, quattro feste di San Giovanni, quattro Tutti i Santi, quattro Natali, quattro celebrazioni della Candelora, e in effetti "tutti i giorni sono domeniche e festivi".
Nel XIII secolo, come è già stato mostrato per il mondo delle corporazioni dell'edificazione, il sistema festivo è un sistema di giorni di riposo, di svago, che non sono remunerati, per accontentare sia il datore di lavoro che risparmia salari, sia il dipendente che si riposa o si dedica a occupazioni non considerate lavorative. Con molta perspicacia Hilário Franco Júnior nota che a Cuccagna non vi sono feste. Cuccagna è una festa. Il tempo, esente da attività, è immobile: ivi è sempre "come se fosse maggio". Da ciò la conclusione dello storico: "lì il tempo è abolito".
Credo che con ciò ci troviamo nel centro di quel che chiamo utopia di Cuccagna, preferendo questo termine a quello di mito. Il mito cerca una spiegazione pre-storica della realtà. E dal momento che non vi sono strutture spaziali che non siano anche temporali, Cuccagna è un paese fuori dallo spazio (non vi è cammino per giungervi) e fuori dal tempo. Ma al contrario del mito antico dell'Età dell'Oro, rinato nel XIII secolo, Cuccagna non è un'utopia rivolta al passato, è un'utopia che si è liberata di questa prigione delle società e degli individui qual è il tempo sotto forma di calendario.
Cuccagna è un'utopia medievale, poiché non è né la nostalgica Età dell'Oro dell'antichità, né una società futuristica come quella dei socialismi utopistici d'epoca moderna. Cuccagna noné nel passato né nel futuro. Cuccagna è la festa di un eterno presente.
Nella presenza creativa e fruitiva della natura, Hilário Franco Júnior vede tratti panteistici e formula l'ipotesi dell'influenza delle idee di Amaury de Béne condannate dall'Università di Parigi all'inizio del XIII secolo. Io però non credo nella presenza di idee di un gruppo intellettualizzato in un fabliau, che, se in effetti combina elementi della cultura popolare con elementi della cultura erudita, mi sembra poco permeabile a teorie filosofiche e teologiche di alto intellettualismo. Preferisco vedervi il naturalismo della seconda parte del Roman de la rose di Jean de Meung (...)

- Jacques Le Goff -

cuccagna

LA TERRA DELL'ABBONDANZA
- di Hilário Franco Júnior -

Come ogni società preindustriale, anche quella dell'Occidente medievale cristiano vedeva nella fame una delle minacce più gravi alla propria sopravvivenza. Una minaccia ben concreta, poiché nell'Alto Medioevo i periodi di scarsità alimentare si verificavano con frequenza ed investivano aree più o meno estese. Si conoscono diversi casi di cannibalismo, di antropofagia, di coprofagia, di ingestione di terra, di insetti e di animali immondi, tentativi disperati di sfuggire ai tormenti della fame. Anche dopo l'anno Mille, nonostante il progresso delle tecniche agricole e il miglioramento delle condizioni climatiche, le carestie non scomparvero. È anche vero però che la fame generalizzata che precedentemente colpiva gran parte dell'Europa cristiana aveva lasciato il posto a una fame regionalizzata, che colpiva aree più ristrette.
Tuttavia nel XII e nel XIII secolo - periodi di chiari progressi economici e di relativa stabilità politico-sociale - si ebbero 37 carestie; ossia a intervalli, in media, di cinque anni, una qualche regione occidentale conosceva serie difficoltà alimentari. Il folclore e la letteratura forniscono diverse testimonianze di questa presenza costante del fantasma della fame. L'esempio più chiaro e cronologicamente più vicino al fabliau de Cocagne è forse il celebre Roman de Rettaci , elaborato fra il 1170 e il 1250, in cui la maggior parte delle avventure del protagonista concerne la ricerca del cibo.
Ma al di là di cibo in quantità sufficiente e costante, la società medievale aveva bisogno anche di altri beni di consumo. Lo sviluppo della vita urbana e dell'artigianato, a partire dall'XI secolo, non supplì a quel deficit della produzione. II settore manifatturiero, monopolizzato dalle corporazioni dei mestieri, spingeva all'adeguamento del consumo alla produzione, non viceversa, sostenendo la scarsità ed i prezzi alti. Richard Roehl ha notato giustamente che, a causa delle limitazioni della produzione, tanto le fonti storiche quanto i lavori storiografici hanno sempre privilegiato l'offerta nello studio delle relazioni economiche medievali. Comunque, nell'analisi di quel quadro in cui la maggior parte della popolazione viveva al limite della fame, si dovrebbe tenere in ben maggiore considerazione la domanda. Ad esempio, il prestigio dell'individuo dipendeva dalla quantità di cibo di cui disponeva: veniva considerato ricco e potente chi poteva mangiare sino alla sazietà.

Dinanzi a una tale situazione si comprendono le varie utopie sorte per superare con l'immaginazione quella carenza. Fra esse, l'utopia dedicata più chiaramente a questo tema è Cuccagna . Rompendo la gerarchia sociale espressa dalla quantità di cibo, a Cuccagna l'abbondanza consiste nella possibilità da parte di tutti di prendere gratuitamente tutto il cibo e le bevande che vogliono. Questa terra immaginaria non si limita a garantire la sopravvivenza, ma capovolge la sequenza biologica necessità-desiderio-soddisfacimento in un'altra più culturale che naturale, basata sul rapporto desiderio - necessità indeterminata - soddisfacimento effimero - desiderio, L'abbondanza cuccagna, più che una risposta alla fame, deriva da un insaziabile desiderio di mangiare. Il sogno di offerta illimitata, che genera una domanda illimitata, si trova all'origine di tutte le caratterizzazioni basilari di Cuccagna. Come ha osservato Mare Bloch, le caratteristiche alimentari aiutano a comprendere le reazioni emotive dei gruppi umani; nel caso di Cuccagna la smodatezza alimentare si può porre in relazione con la spossatezza (e di conseguenza con l'oziosità), con la spensieratezza (quindi con la giovinezza), con l'edonismo (quindi col sesso libero).
Innegabilmente l'alimentazione è un fatto culturale, nel senso antropologico, totalizzante della parola, dal momento che è il risultato della confluenza di fattori biologici, geografici, economici, ideologici, religiosi, semiologici, psicologici. In quasi tutte le versioni di quel paese perfetto, l'aspetto alimentare è sempre stato il più caratteristico, dal fabliau francese della metà del XIII secolo, sino al cordel brasiliano [*1] Viagem a São Saruê , posteriore di sette secoli. Ma se l'abbondanza è una costante delle diverse versioni su Cuccagna, i cibi indicati variano a seconda delle epoche e dei luoghi. Come è già stato osservato, la storia dell'alimentazione riflette quella della società. O, più esattamente, la storia dell'alimentazione si sviluppa in armonia con altre storie «le determina e ne viene a sua volta determinata».
Una vera storia sociale comparata del gusto alimentare potrebbe essere compilata utilizzando testi e iconografie relative a Cuccagna. Ad esempio, mentre per la versione medievale francese le case di quella terra meravigliosa sono fatte di pesce e di carne, per un testo italiano del XVI secolo: «Le pareti sono di formaggio pecorino / Di ricotta sono dipinte», i muri delle prigioni sono di parmigiano. Un altro testo italiano della stessa epoca immagina gli edifici di Cuccagna con tetti ricoperti di sciroppo dolce e le strade lastricate con lasagne al formaggio.
Nelle versioni tedesche vengono menzionati formaggi, frutta, castagne, funghi, condimenti, latte, crema, burro, verdura, vino, birra, idromele e acquavite. Nella versione popolate raccolta dai fratelli Grimm all'inizio del XIX secolo, la casa è fatta di dolci e di pasticcini. Mentre il fabliau de Cocagne fa riferimento a vino bianco e rosso, paragonato ai cinque vini migliori allora esistenti,la versione inglese parla solo di chiaretto, e Boccaccio menziona soltanto vino bianco, in una versione spagnola della metà del XVI secolo vi è un fiume di miele, vi sono alberi le cui foglie sono manicaretti dolci, e si trovano ghiottonerie sparpagliate dappertutto.

La caratteristica alimentare di Cuccagna traspare nello stesso nome del paese. Sebbene siano state proposte varie etimologie del termine, quasi tutte fanno riferimento a tale aspetto. La parola può provenire dal latino coquere (cucinare), o dal provenzale cocagna o coucagno , che deriva forse da coca , coque , ossia buccia d'uovo o di certa frutta. O anche dal provenzale coca , brioche, pan dolce. O anche dal tedesco medio kokenje , oggi kuchen , dolce, focaccia dolce, imparentato con l'olandese medio cockaenge , derivante da coek , pasticcio. O anche dall'antico irlandese cucainn (cucina, razione alimentare), che sarebbe passato nell'inglese (dalla fine del XII secolo varianti di questa parola si trovavano in cognomi) e da questo al francese e alle altre lingue europee.
L'ipotesi più probabile è che il francese cockaigne sia sorto alla metà del XII secolo da un'origine latina, con o senza intermediazione provenzale. Da questo derivano l'inglese cokaygne o cockaigne (fine del XIII secolo o inizio del secolo successivo), l'italiano cuccagna (XV secolo) e lo spagnolo cucaña . In questa lingua la parola ha due accezioni: una, della prima metà de] XIV secolo, «inganno»; l'altra, del XV secolo, «palo unto di grasso» sul quale ci si deve arrampicare per ottenere il premio, consistente generalmente in cibo collocato alla sua cima.
Anche altre accezioni di Cuccagna rivelano la forza della sua caratterizzazione alimentare: in olandese è chiamata Luilekkerland , «terra della pigrizia e della gola»; in alcune versioni italiane e francesi dell'età moderna è concepita come un regno il cui sovrano è conosciuto come Panigon, che deriva dall'italiano panicone, «mangione».
Qual che sia la sua corretta accezione, essa è legata all'importanza che si dava alle attività alimentari nelle società preindustriali. Importanza che non dipendeva soltanto dalla continua pressione fisiologica causata dalla scarsità della produzione di alimenti, ma anche dal carattere sacro che presentava l'atto del mangiare. La frequenza annuale dei giorni di digiuno e di astinenza nel Medioevo - circa settanta - non confuta questa ipotesi, anzi la rafforza. Mangiare è atto sacro, per cui mangiare sempre significa profanare l'evento. Nella linea del sacrificio alimentare, in certi banchetti medievali, un fagiano vivo era collocato in una torta, sì che, aprendola, l'uccello ne usciva volando e compiendo in tal modo la sua funzione di intermediario, funzione pressoché sacra, fra il mondo umano e il mondo celeste.
Al di là di costituire una necessità corporale, indice di stato sociale, fonte di piacere sensuale, come in ogni epoca, nel Medioevo il mangiare era un atto di socializzazione, non solo con gli altri esseri umani, ma anche con Dio. Il prototipo del mangiare era l'eucarestia. Mangiare Dio era la forma più autentica di incontrarlo. Per tal motivo il mangiare era un tema di carattere spirituale alla fine del Medioevo, soprattutto per le donne, che ebbero un ruolo decisivo nell'origine e nello sviluppo della festa del Corpus Domini . Festa che sorse nelle Fiandre, vicino alla Piccardia, nel 1246, nello stesso periodo in cui il racconto su Cuccagna veniva trascritto in questa regione.

Naturale e sacra, l'alimentazione in età medievale era definita dal ciclo stagionale. Nel XII e nel XIII secolo erano diffusi i calendari - ottanta di questi, francesi - che associavano ciascun mese a un determinato compito agricolo. Nelle sculture di un portico della cattedrale di Amiens, della stessa epoca e della stessa regione del fabliau de Cocagne , il mese di gennaio, a causa della rigidità dell'inverno, è un periodo di ozio; febbraio, tempo di dissodare il terreno; marzo, di preparare la terra per la semina; aprile, di cacciare (per i nobili) e di potare la vigna (per i contadini); maggio, col suo clima dolce, è una sorta di intervallo prima dei duri lavori dei mesi successivi; giugno e luglio sono i mesi della mietitura; agosto, della trebbiatura; settembre, della raccolta dell'uva; ottobre, della preparazione del vino; novembre, della semina; dicembre, dell'uccisione del maiale e della lavorazione della sua carne. Capovolgendo i dati della realtà concreta, mentre nella società medievale si hanno due pasti giornalieri - il primo (pranzo), fra le dieci e le undici di mattina, il secondo (cena), fra le sedici e le diciannove -, nel paese di Cuccagna, dove non si hanno attività produttive né variazioni climatiche, si mangia sempre.
Il mangiare rimane comunque un atto sacro. Quella è una terra benedetta «da Dio e da tutti i suoi santi», e nella quale, al di là di questo dato, o proprio per questo, la Quaresima cade soltanto ogni vent'anni e non comporta digiuno. È bandita da quella terra meravigliosa la Quaresima «traditrice [...] molto odiata dai poveri», come la definisce un testo contemporaneo e conterraneo del racconto relativo a Cuccagna, La bataille de Caresme . In questo periodo, quando l'abbondanza non è interrotta, «Si mangia quello che Dio dà / Came, pesce o altra cosa». Il poeta di Cuccagna non accetta pertanto un confine fra il mangiate legittimo ed il mangiare peccaminoso. Il precetto del digiuno periodico era comunque ben fissato nel cristianesimo sin dai suoi primordi. Nell'epoca carolingia la violazione del digiuno veniva punita con pene pecuniarie o corporali, e persino, in certi casi, con la morte.
Considerando questi precedenti dottrinali, il peccato di gola era ben definito nel XII e nel XIII secolo. Mentre la cultura greco-romana valorizzava l'equilibrio (sophrosyne) e quella dei celti e dei germani esaltava l'eroe vorace, quella cristiana medievale - forse per contrapposizione - raccomandava l'ascetismo, l'astinenza. La gola è «l'appetito disordinato di mangiare e di bere», è «la concupiscenza di mangiare», diceva Tommaso d'Aquino alcuni anni dopo la trascrizione del fabliau . Si aveva, nel pensiero ufficiale medievale, un insieme di pratiche riprovevoli collegate al mangiare e al bere al di là delle necessità fisiologiche: farlo prima del momento opportuno ( praepropere ), smodatamente ( nimis ), con avidità ( ardente ), consuma-re pietanze raffinate ( laute ) o preparate con cura eccessiva ( studiose ). Si aveva quindi, nei confronti dei piaceri della tavola, una visione molto critica, soprattutto da parte ecclesiastica, ma adottata in parte anche dalla cultura laica, come mostra un proverbio del XIII secolo: il «ghiottone non è mai sazio, vuole sempre di più».
Ma infine, che cosa mangiano i ghiottoni di Cuccagna? Inizialmente richiama l'attenzione quel che essi non mangiano. Fra queste assenze sorprende soprattutto quella del pane, l'alimento base della società medievale, di cui ciascuno consumava giornalmente per lo meno mezzo chilo. Razione che nel caso dei monaci della metà del XII secolo saliva nei giorni festivi a un chilo e mezzo. Il pane forniva la maggior parte delle duemila calorie giornaliere ingerite dai più poveri, mentre la dieta del contadino medio arrivava a tremila calorie, e quella dei membri delle classi superiori a quattromila.

Il pane costituiva inoltre un fattore civilizzatore importante; la preghiera recita: «dacci oggi il nostro pane quotidiano». Nell'XI secolo veniva definito parassita sociale chi «vive del pane altrui»; nel XII secolo sorse l'espressione: «guadagnarsi il proprio pane». Se nel VII secolo Isidoro di Siviglia affermava che «il pane si chiama così perché accompagna ogni tipo di alimento [poiché] in greco "tutto" si dice pan», sin dal IX secolo si parlava di companagium per designare il cibo che accompagnava il pane. Da complemento diveniva l'alimento centrale. Se la Grecia classica aveva conosciuto 72 diversi tipi di pane, l'Europa medievale ne aveva anch'essa una grande varietà.
Risulta pertanto strana l'assenza del pane a Cuccagna, soprattutto perché vi sono campi di frumento. Ma forse in tal modo si voleva soltanto sottolineare la ricchezza del paese. Nel Medioevo i ricchi non mangiavano tanto pane come gli altri, in quanto lo utilizzavano come supporto della carne, e quindi davano del pane inumidito dal sugo ai cani o ai poveri. Altra spiegazione possibile dell'assenza del pane è proprio la sua presenza quotidiana sulle tavole medievali. Essendo una terra di sogno, di cose straordinarie, sarebbe fuori luogo a Cuccagna un alimento così comune. Assenza che rimane comunque strana, se ricordiamo le etimologie che dicono che Cuccagna deriverebbe dal provenzale «pane dolce» o dal tedesco »pasticcio», o «focaccia», prodotti della panificazione anch'essi non citati dal fabliau .
Sembra pertanto che la presenza del frumento, il cereale nobile per eccellenza, sia un simbolo della fertilità di Cuccagna più che un alimento ivi realmente consumato. Inoltre, essendo la coltura del frumento importante per la Piccardia, regione d'origine del fabliau , li il frumento non doveva essere oggetto di tante fantasie alimentari. Tuttavia la farina di grano è uno degli ingredienti dei budini consumati nella Quaresima di Cuccagna. Ma questi non sono prodotti dagli uomini, sono mandati da Dio, e cadono sotto forma di pioggia in quella terra meravigliosa. Dinanzi a questo fatto, l'ipotesi più probabile è che l'assenza di pane sia stata una critica alla crescente clericalizzazione della società occidentale: sin dalla metà del XII secolo la comunione sotto duplice specie (ostia e vino) diveniva esclusività dei sacerdoti. I laici si comunicavano soltanto col pane (assente da Cuccagna) e non più col vino (abbondante in quella terra).
Anche legumi, verdura e frutta non vengono menzionati dal fabliau de Cocagne . A quel tempo accanto al pane e alla minestra, tali alimenti componevano il menu quotidiano dei contadini, maggioranza assoluta della popolazione nel Medioevo. I nobili dal canto loro mangiavano pochi vegetali, soltanto frutta fresca all'inizio dei pasti e frutta secca alla fine, ed alcuni legumi nei giorni di digiuno. Forse proprio per questo motivo questi cibi non venivano indicati da quella narrazione. Se alcuni tipi di frutta entravano nel menu aristocratico (mele, pere, ciliegie, uva), tuberi come le carote e verdure come cavoli e spinaci venivano esclusi, essendo considerati cibo dei poveri. Anche frutti di piante che toccavano il suolo, come la fragola e il melone, non godevano di buona fama trai ricchi. Di fatto nell'alimentazione medievale è molto più chiara la differenza fra le classi sociali di una stessa regione che quella fra una regione e l'altra. Comunque in generale i tipi di prodotti richiesti variavano in base alle condizioni sociali.

A fianco dei fattori sociali vi erano ancora problemi di ordine culturale. La purea di piselli, piatto quaresimale secondo un testo della metà del XIII secolo, veniva considerato dalla letteratura dell'epoca, cibo per pazzi. Sino al XVI secolo la medicina considerava i vegetali alimenti di difficile digestione, adatti solo ai rudi stomaci dei contadini. Persino nei paesi mediterranei di maggior produzione di frutta, come il Portogallo, alcuni tipi di frutta erano considerati poco sani. Si deve inoltre ricordare che il fabliau , come ogni letteratura di evasione, non pretendeva di essere un ritratto fedele del presente; cercava piuttosto di tracciare un profilo idealizzato della società. E pertanto livellava la qualità alimentare dall'alto. Ecco il motivo per cui non si citavano i legumi, abbondanti in Piccardia. A quel testo non interessava ricordare dati concreti, cibi che non fossero eccezionali. Preferì menzionare cibi meno comuni, ma nobili, cosa che non esclude, tuttavia, dalla terra dell'abbondanza, i piatti più popolari, visto che ciascuno lì può mangiare «tutto quel che il suo cuore desidera».
Altra assenza è quella dei formaggi, di uso corrente nella cucina contadina, sebbene in quantità limitata. In ogni modo il formaggio costituiva un alimento importante per quel gruppo sociale, in quanto rappresentava un complemento proteico alla sua dieta povera di carne. A partire dall'XI secolo i formaggi incominciarono ad essere consumati in quantità sempre maggiore, al naturale o in piatti più elaborati, anche in Piccardia, dove sin dal secolo precedente si segnalava il maroilles . In ogni caso la produzione medievale di latticini era esigua, a causa del basso rendimento degli animali. Un autore del XIII secolo calcolò che una vacca produceva in primavera e in estate, stagioni favorevoli, latte per meno di 44 chili di formaggio e per 6 chili di burro. Molte volte la capacità produttiva era ancora minore: in una abbazia dell'Inghilterra occidentale, ciascuna vacca, nella stessa epoca dell'anno, permetteva di produrre solo 14 chili di formaggio e 2 di burro.
Ecco il motivo per cui i formaggi venivano prodotti principalmente con latte di pecora: dieci di questi animali producevano la stessa quantità di formaggio e di burro di una vacca. La produzione di formaggi che richiedevano grandi quantità di latte (nel XII secolo, gruyere ed emmenthal in Svizzera; alla fine del XIII secolo, parmigiano in Italia e comté e beaufort in Francia) rese necessario che si operasse mediante cooperative; il che diede a questo alimento un carattere comunitario, poco simpatico alle classi sociali più elevate. Forse per questo motivo il formaggio veniva associato dalla letteratura medievale ai pazzi, e considerato dai trattati della medicina del XIII secolo alimento poco sano. Il reblochon , creazione del XIII secolo, mostra già nel nome tale forma di rigetto, visto che viene dal termine dialettale savoiardo reblocher «fare una cosa per la seconda volta». Esso veniva infatti prodotto con latte di seconda scelta e sul quale il contadino non pagava tasse ai signori.
È anche vero però che i formaggi non erano sconosciuti alle mense nobiliari e borghesi. Il roquefort è citato sin dall'XI secolo nell'abbazia di Conques; nel 1217 la contessa di Champagne regalò al re Filippo Augusto 200 pezze di brie ; nel XIV secolo il maroilles piccardo veniva venduto a Parigi. In alcune regioni, soprattutto montagnose, i formaggi occupavano un posto importante nelle case signorili: alla corte del signore feudale di Murol, nell'Alvernia, alla fine del Medioevo ciascuno ne consumava poco più di ventisette chili l'anno. Ciononostante, in generale, nell'epoca dell'elaborazione del fabliau de Cocagne il formaggio continuava ad essere un alimento socialmente poco valutato.

Se nel disprezzo per il pane, le verdure e il formaggio, il fabliau rivela un aspetto aristocratico, d'altro lato, curiosamente, non si preoccupa di inserire nei piatti di Cuccagna i condimenti di lusso che tanto attraevano nobili e borghesi. Se non parla di pepe - di cui si parla spesso in La bataille de Caresme et de Charnage -, è a causa della sua grande popolarità, che lo rendeva poco usato nella cucina aristocratica. Ma non menziona neppure il chiodo di garofano, la cannella, la noce moscata, lo zenzero e altre spezie d'origine orientale, molto apprezzate in tutti i piatti e in molte bevande, come l'ippocrasso (vino profumato e addolcito con spezie) e la stessa birra (il cui sapore veniva migliorato con cannella, menta o altra sostanza aromatizzante). Spezie, queste, che, al di là di ragioni strettamente culinarie, contribuivano a una cucina considerata afrodisiaca, cosa che poteva essere importante in quel paese della libertà sessuale.
La spiegazione di questa assenza può trovarsi nel carattere medicinale delle spezie. Più che semplici ingredienti culinari, esse erano considerate farmaci. Reputate di origini paradisiache, il loro uso alimentare poteva migliorare la salute fisica e spirituale delle persone. Quindi non venivano usate spezie a Cuccagna in quanto non necessarie; la Fonte della Giovinezza manteneva i corpi giovani e in salute. Quest'idea è confermata dall'impero del Prete Gianni, la cui fonte della giovinezza ha il «sapore di tutte le spezie». Secondo un testo italiano del XVI secolo, «chi va vecchio torna giovinetto» dalla terra meravigliosa, grazie al muschio, allo zenzero e alla cannella. La Fonte della Giovinezza equivaleva a un insieme di spezie.
Nel fabliau non si fa riferimento neppure agli apprezzati condimenti agrodolci a base di vino, aceto, succo di limone e spezie, eventualmente arricchiti con pane, mandorle, noci, tuorlo d'uovo, fegato d'uccelli o sangue. Non è citata neppure la salsa verde (veri savor) usata con carne di maiale e con pesce d'acqua dolce, alimenti esistenti a Cuccagna. In questo senso la culinaria di Cuccagna si avvicina apparentemente a quella dei contadini. Se l'assenza di spezie sembra indicare un tratto non nobile, si potrebbe per lo meno attendere la presenza di condimenti europei, usati dalle persone più semplici, come cipolla, timo, maggiorana, lauro, coriandolo, menta, prezzemolo, mostarda. Ma neppure questo accade. L'unica eccezione è la «salsa bianca d'aglio» che ricopre le oche arrosto, e che in La bataille de Caresme viene usata col pesce.
Non vi è neppure olio in quella terra dell'abbondanza. Oltre ad essere un prodotto tipicamente meridionale, l'olio veniva largamente usato nel Nord della Francia, e continuò ad essere un ingrediente della cucina aristocratica sino alla fine del XVI secolo, quando venne sostituito dal burro. Non viene menzionato neppure il sale. La spiegazione della mancanza di condimenti sofisticati o semplici si trova forse nell'origine meravigliosa dei piatti di Cuccagna, che non sono confezionati dall'uomo, ma gli vengono offerti dalla stessa natura già pronti, completi, senza bisogno di ingredienti che li rendano più saporiti. Una spiegazione complementare potrebbe forse trovarsi nel clima primaverile di Cuccagna, visto che il mondo medievale associava il consumo delle spezie soprattutto all'inverno.

A Cuccagna non si mangia zuppa, fatto strano, perché tale pietanza era così importante nell'alimentazione medievale che tra il XII e il XIII secolo il verbo souper divenne sinonimo di "mangiare" (Rey, 1992, vol. II, p. 1993). Ma la spiegazione è semplice. La zuppa rappresenta la sintesi delle assenze alimentari cuccagnane, in quanto tale pietanza riunisce diversi ingredienti che non si trovano in quel paese. È il caso dell'acqua: a Cuccagna il fiume è di vino, la pioggia è di budini; ed il testo non indica quale liquido sgorghi dalla Fonte della Giovinezza. Anche un altro liquido utilizzato nelle zuppe medievali non viene menzionato: il latte. La mancanza della zuppa a Cuccagna è dovuta tra l'altro alla mancanza di verdure e di spezie, e soprattutto di pane, base della zuppa, come indica la stessa parola soupe , sorta attorno al 1195, e derivante da soppe (metà del XII secolo), a sua volta derivante dal latino suppus , da supinus , «sdraiato, disteso», indicante il pezzo di pane gettato nel fondo della pentola e sul quale si spargeva il brodo caldo fatto con i vari ingredienti.
Che cosa si mangiava quindi nel paese di Cuccagna? I cibi indicati dal poeta formano quattro gruppi. Il primo e più importante comprende la carne. Era così grande il suo peso nell'immaginario medievale, che la parola «carne» (viande) aveva il significato generale di «cibo», come appare nel titolo del più antico manuale francese di cucina conosciuto, scritto attorno al 1300, Enseingnemenz qui enseingnent a appareiller touter sorter de viandes . Grande ne era il consumo, ma variabile in base alle condizioni locali. Nella corte del conte d'Auvergne, al Centro-Sud della Francia, verso la fine del XV secolo si mangiavano novecento grammi di carne a testa nei giorni leciti, quindi 187 chili l'anno. Nella stessa regione e nella stessa epoca, nella corte della signoria di Murol, se ne mangiavano seicento, e quindi 126 chili l'anno. A Cuccagna si mangiava carne tutti i giorni e a tutte le ore. Persino durante la Quaresima, che prescriveva un solo pasto giornaliero con esclusione della carne. Quest'unico pasto si sarebbe dovuto consumare di notte, secondo alcuni teologi, mentre secondo altri l'ora migliore era la nona (le tre del pomeriggio). Quest'ultima interpretazione prevalse nell'ambiente che vide nascere il fabliau de Cocagne , visto che ivi si sostiene che nella terra dell'abbondanza si può mangiare «dalla mattina sino all'ora nona».
Fra le varietà di carne, la più consumata nella Francia medievale era quella di maiale. Scelta comprensibile: tale animale ha bisogno di meno spazio di bovini, ovini o caprini; è utile solo da morto (sino alla metà del XIII secolo si mangiava poca carne di bue, animale da traino, o di pecora, fornitrice di latte), se ne mangiano praticamente tutte le parti, si riproduce con facilità, richiede poca cura. Per tali motivi si allevavano maiali dappertutto, persino in città, come succedeva a Parigi nella prima metà dei XII secolo, quando quegli animali venivano sepolti per strada. Nella stessa città, alla fine del XIV secolo si uccidevano annualmente più di trentamila maiali. Considerando quindi che la popolazione parigina a quel tempo era di ottantamila abitanti, un maiale forniva in media fra gli ottanta e i cento chili di carne, ogni abitante doveva consumare circa 34 chili di carne di maiale l'anno. Se escludiamo da questo calcolo alcuni gruppi che per motivi di età, di salute, di religione ed economici (lattanti, monaci, ebrei, mendicanti) non ne mangiavano, il consumo pro capite era di circa cinquanta chili.
In generale i suini uccisi avevano un anno e mezzo, in quanto venivano abbattuti fra la festa di Tutti i Santi e il Martedì Grasso. In questo periodo l'inverno rendeva più difficile nutrire l'animale, vi erano meno mosche che potessero compromettere la conservazione della carne e si aveva bisogno di quel cibo ricco di calorie per affrontare il freddo. A nord della Loira, durante la festa di San Nicola (6 dicembre) si consumavano le interiora fresche di animali appena uccisi. Il midollo, considerato rigenerante, veniva dato ai più anziani; il cuore ai parenti ed agli amici più stretti; il fegato e i polmoni agli altri. Le parti nobili dell'animale venivano lavorate per produrre non meno di sedici diversi tipi di insaccati.

L'importanza del maiale nella civiltà medievale la si vede dal fatto che viene rappresentato nel 90% dei calendari italiani e nel 100% di quelli francesi. Anche in Piccardia, dove nella cattedrale di Amiens la scena scultorea che apre il ciclo dei mesi del Capricorno, mostra l'uccisione del maiale. Non risulta pertanto strano che a Cuccagna, fra i cinque tipi di carni menzionate nel testo, tre siano suine: lardo, salsiccia e prosciutto. Mentre la carne di altri mammiferi, come il cervo, e degli uccelli (come l'oca) è «arrosto o in zuppa», quella di maiale è affumicata (lardo), bollita e condita (salsiccia), salata e arrostita o affumicata (prosciutto). Ossia, carni ben naturali per quanto concerne i metodi di preparazione (fumo, sale, fuoco), e ben culturali per quel che concerne i risultati (alimenti di lunga conservazione).
Questo ruolo materiale svolto dal maiale era rinforzato e prolungato dal suo ruolo nell'immaginario. Era questo il caso, ad esempio, del culto di sant'Antonio Abate, vissuto nel IV secolo. Secondo una certa tradizione, essendo riuscito ad ingannare il diavolo, il cui simbolo era il maiale, quest'animale era condannato ad obbedirgli e a seguirlo. Secondo un'altra tradizione, la relazione di dipendenza era sorta dal fatto che un animale malato era stato curato dal santo. Per l'una o per l'altra ragione sant'Antonio divenne il protettore del maiale e, per estensione, degli animali domestici. Da qui il fatto che l'iconografia lo mostra sovente con a lato questo animale, come fecero ad esempio Pisanello in un dipinto del 1422, La Vergine con san Giorgio e sant'Antonio (Londra, National Gallery), e Bosch, all'inizio del XVI secolo, nel dipinto La tentazione di sant'Antonio (Madrid, Museo del Prado).
La più diffusa associazione del santo col maiale si ebbe nell'ambito della malattia allora conosciuta come «male degli ardenti» o «fuoco di sant'Antonio». Da un lato, poiché alcuni anni dopo il trasferimento delle reliquie di sant'Antonio attorno al 1070 da Costantinopoli al Delfinato, regione centro-occidentale della Francia, gli si attribuirono guarigioni miracolose da questa malattia. Dall'altro, in quanto fu. osservato che applicazioni di lardo sulle eruzioni cutanee provocate da questa malattia alleviavano il dolore. Questa duplice soluzione era molto ricercata dalle migliaia di consumatori annuali di orzo o di segala, i cereali più economici ma a volte portatori del fungo tossico provocante ergotismo (herpes zoster), malattia la cui prima manifestazione è la comparsa di una macchia scura che sembra bruciare, da cui il nome di «male degli ardenti» o «fuoco di sant'Antonio». La malattia provocava quindi forti contrazioni muscolari che deformavano le membra, con deficienza nella circolazione periferica: il che produceva cancrena e perdita dell'estremità degli arti.
Attorno al 1095, alcune persone curate con lardo e con l'intervento del santo fondarono l'Ordine laico degli Antoniani, che si sarebbe clericalizzato nel 1297 e avrebbe adottato la Regola agostiniana. Suo obiettivo era di prendersi cura di chi era affetto da questa malattia, e per avere lardo e risorse economiche sufficienti allo scopo, l'Ordine si specializzò nell'allevamento dei suini. Quindi ricevette dal potere pubblico il privilegio di condurre le mandrie per le strade dei villaggi e delle città per alimentare gli animali con i rifiuti domestici. Contrassegnati con un sigillo attaccato al collo, i maiali appartenenti agli Antoniani circolavano liberamente dappertutto, persino al centro delle grandi città, come Parigi, sino al XV secolo, o Londra, sino al secolo successivo.
Il maiale era anche simbolo di fertilità presso varie società, e difatti appare sia in una versione greca del mito di Demetra, secondo cui la terra ingoiò Kore e una verga per maiali, come nel racconto russo di Nesmejana . Poiché la gestazione del maiale dura tre mesi, tre settimane e tre giorni, alcune tradizioni medievali vedevano in ciò un segno di perfezione. Inoltre un animale affine, in cinghiale, era considerato sacro da celti e germani. Il re di Cuccagna, secondo una versione del XVI secolo, indossava abiti e un mantello di pelle di maiale e aveva una pancia enorme, elementi che alludevano a quell'animale. In un'incisione del XVII secolo il re di Cuccagna appare sul dorso di un maiale, e in un'altra, dell'inizio del secolo successivo, Cuccagna viene localizzata in Porcolandia. In sintesi Cuccagna è, sia da un punto di vista concreto che metaforico, la terra del maiale.

Per quanto concerne la carne di volatili, il poeta anonimo ne indica solo un tipo, l'oca, e, visto che parla di «grasse» oche, ci si poteva attendere un riferimento al foie gras . Però, nonostante fosse apprezzata da greci e romani, da bizantini e musulmani, tale pietanza non era consumata nell'Occidente medievale se non come medicina. Perché dunque citare l'oca e non un altro volatile più raffinato e più apprezzato all'epoca, come il pavone o il cigno? Sorprende ancora il fatto che venga menzionato solo un volatile, mentre si sa che un testo della stessa epoca ne cita 34 fra i piatti prelibati della terra dell'abbondanza. È vero che l'oca era un uccello molto presente sulla mensa medievale, visto che, ad esempio, dati archeologici mostrano come nel monastero cluniacense di Charité-sur-Loire nell'XI e XII secolo la sua carne venisse consumata più di quella di pollo. Ma la migliore spiegazione starebbe nel fatto che il termine «oca» venga usato come sinonimo di volatile in genere e non si riferisca a uno in particolare. E quanto suggerisce l'etimologia della parola oie , oca, derivata da oiseau , uccello, proprio all'epoca dell'elaborazione della narrazione di Cuccagna.
Per quanto concerne la cacciagione, il poeta parla solo di due carni. Quella di cervo - oggetto in quella seconda metà del XIII secolo di una composizione anonima normanna, Chasse du cerf - e quella di un «uccello volante», ossia un uccello selvatico. Per un ambiente gastronomicamente così aristocratico (carne, vino, tavoli con tovaglie, bicchieri di metalli preziosi) questi soli riferimenti possono a prima vista sembrare strani. Però, più che un mezzo di sussistenza, la caccia era un rituale, un'attività di differenziazione sociale. Costituiva soprattutto un esercizio preparatorio alla guerra, una pratica iniziatoria dei giovani aristocratici, un elemento costitutivo dell'autocoscienza del cavaliere, un'attività ludica per quella categoria sociale. Quando Tristano caccia per svago, viene elogiato, ma quando, vivendo nascosto con Isolda nella foresta, caccia per necessità, viene considerato un selvaggio che si allontana dal modello aristocratico.
In termini economici e culinari, la caccia sembra non aver meritato nel Medioevo l'importanza che per molto tempo si è pensato avesse avuto. Con la crescita demografica che si verifica fra l'XI e il XIII secolo e la conseguente deforestazione, la caccia di grossi animali tendeva a scomparire. Nell'Italia settentrionale della fine del XIII secolo, la documentazione non parla più di cervi e di cinghiali; poco tempo dopo, l'irrigidirsi della legislazione contro la caccia di uccelli da parte dei contadini mostra che anche questa specie subiva una diminuzione. L'analisi archeologica del villaggio di Dracy, in Borgogna, mostra che dal XII al XV secolo non si cacciavano gli uccelli, e che la caccia in genere rappresentava soltanto il 4,6% delle ossa degli animali ritrovati. Questi dati sono confermati dalla piccola quantità di cacciagione presente alla mensa dei conti d'Alvernia alla fine del XIV secolo.
Il secondo gruppo dei cibi di Cuccagna è costituito dal pesce. La piscicoltura era così importante nell'alimentazione nel periodo fra l'XI e il XIII secolo, che vennero scavati molti bacini a danno di terre coltivabili. Cosa che accadde, ad esempio, nella piccola regione di Dombes, in Borgogna, dove nel XIII secolo furono costruiti diciotto serbatoi per l'allevamento di pesce. In Francia si pescava tanto che, a partire dal 1289, una serie di ordinanze reali tentò di evitare la pesca predatoria pregiudizievole alla ricchezza dei fiumi. Il salmone, abbondante in Normandia intorno al 1260 allorché il suo prezzo si avvicinava a quello del maiale, nel 1410 valeva più del doppio della carne suina. La grande richiesta di questo pesce era dovuta al fatto che solo i pesci d'acqua dolce venivano consumati freschi. Quelli di mare, anche in zone costiere, venivano salati e/o affumicati per le mense medievali.
Il principale e il più consumato di questi pesci era l'aringa, perché poteva essere conservata anche per un anno: cosa che portò Robert Delort a considerare l'Occidente cristiano, per lo meno sino al XVII secolo, una «civiltà dell'aringa». Altri pesci essiccati erano oggetto di un importante commercio nel Nord d'Europa, dominato dagli scandinavi sino alla metà del XII secolo e poi dai tedeschi, la cui Lega anseatica aveva nel pesce una merce di grande rilievo. Fresco o salato, il pesce costituiva un importante alimento per la società medievale, che proibiva il consumo di carne per lunghi periodi dell'anno. Ecco dunque che Ildegarda di Bingen poteva elencare nel XII secolo 36 specie di pesci. E La bataille de Caresme et Charnage elencava fra i vari piatti, magri e grassi, 29 tipi di pesci d'acqua salata, 8 d'acqua dolce, 4 molluschi, per un totale di 41 specie: più, dunque, di ogni altro tipo di alimento.

Piatto principale dei giorni e dei periodi quaresimali - poiché eccitava meno le passioni carnali che i prodotti derivanti da animali a sangue caldo (Summa Theologica, II-II, q. 147, a. 8) -, il pesce veniva consumato nei 146 giorni magri dell'anno, soprattutto il mercoledì. Ciononostante è strano che la pesca risulti assente dalle rappresentazioni iconografiche dei calendari francesi e appaia soltanto nel 17% di quelli italiani, sempre a febbraio, all'inizio della Quaresima. Nella Piccardia medievale, per la ricchezza della costa della Manica e dei pantani del fiume Somme, si consumava sia pesce d'acqua salata che d'acqua dolce. Delle quattro specie citate dal fabliau - barbi, salmoni, cheppie, storioni -, il primo è di mare, gli altri sono migratori, poiché vivono nell'acqua salata ma periodicamente risalgono i fiumi per deporre le uova. Nei territori dell'abbazia piccarda di Saint-Vaast de Arras, dall'inizio dell'XI secolo si commercializzavano: (oltre l'aringa) lo storione, il salmone e la cheppia, pesci di lusso presenti a Cuccagna.
II terzo gruppo è quello dei vini. Se ne bevono in grande quantità a Cuccagna, forse a causa dell'enorme consumo di carne. In effetti i 4/5 della carne che si mangiava in età medievale era salata, e non solo per necessità di conservazione, ma anche per obblighi religiosi. Per la Chiesa medievale l'alimentazione a base di carne non era impura, purché il sangue dell'animale fosse stato eliminato, e per fare ciò era necessario salare la carne. Per evidenziare forse l'importanza del vino nella società cuccagnana, il fabliau non parla di nessun'altra bevanda esistente in quella terra. E neppure dell'acqua. In realtà in età medievale l'acqua non era considerata una bevanda di cui ci si potesse fidare, in quanto le condizioni naturali e culturali dell'epoca sovente ne compromettevano la potabilità. Solo i contadini, che abitualmente non bevevano vino, ricorrevano all'acqua, alla birra o al latte. Oltre a questo motivo, il fabliau non parla dell'acqua, perché in Piccardia, regione di tanti fiumi e zona paludosa, l'acqua era un impedimento, in quanto doveva essere racchiusa in bacini, incanalata, drenata e quindi disciplinata.
Mentre nelle città medievali si consumavano in media venti litri d'acqua giornalieri per abitante, a Cuccagna neppure la Fonte della Giovinezza è chiaramente una fornitrice d'acqua. Nel descrivere la fonte, il poeta non dice che tipo di liquido ne fuoriesce, né come debba essere utilizzato. Così come La bataille de Caresme et Charnage , il fabliau de Cocagne rappresenta la vittoria del Carnevale (festa, cibo saporito, sesso) sulla Quaresima (raccoglimento, silenzio, digiuno). Rappresenta pertanto la vittoria del vino sull'acqua. E in disaccordo quindi con l'elogio all'acqua contenuto in un testo anonimo scritto alla fine del XIII secolo, ma già esistente in forma orale, La desputoison du vin et l'iaue .
In questo testo, l'acqua, sorta di pubblico ministero che sostiene l'accusa contro il vino, afferma che questo è malefico, provoca litigi, omicidi, furti, diffamazioni. Lo accusa d'essere orgoglioso, in quanto non capisce che l'acqua è veramente necessaria, poiché irriga alberi e prati, pulisce i corpi, cucina i cibi, trasporta le navi, estingue la sete. Infine, dinanzi a questa argomentazione, il verdetto del tribunale presieduto da Dio, e composto da vini famosi di tutto il mondo, conclude che i diversi vini, ciascuno a suo modo, sono utili in certi momenti, mentre l'acqua è una necessità universale. Il fabliau de Cocagne non accetta queste argomentazioni, visto che parla di una terra in cui la pioggia è di budini e il ruscello è di vino.

L'elogio del vino contenuto nel fabliau accentuava soltanto un dato reale. La società medievale aveva nel vino la sola bevanda tonica esistente, ad eccezione di pochi liquori non commercializzati, prodotti dai monasteri per il consumo interno. Questa bevanda era quindi l'unica fonte calorica, soprattutto nelle regioni e nelle stagioni più fredde. Forse per questo la saggezza popolare affermava che "chi ha buon vino sulla tavola non si ammalerà mai". Era di grande importanza anche la funzione sociale di questa bevanda, in quanto era di aiuto nel riunire i vassalli, i parenti, gli amici, i vicini. Come recitava un proverbio del XIII secolo, "vi sono più parole in una dose di vino che in una d'acqua". E l'importante funzione religiosa e culturale svolta da questa bevanda la rendeva una delle mercanzie più richieste.
Per questo motivo si trovavano in un territorio corrispondente alla Francia attuale circa trenta santi a protezione del vino nelle diverse tappe della sua produzione. Alcuni proteggevano la crescita delle vigne (san Vincenzo e san Paolo), altri evitavano che fossero distrutte dalle gelate (san Gualtiero e san Veniero), altri ne favorivano la maturazione (san Lorenzo e san Rocco), altri collaboravano alla vendemmia e alla fermentazione (san Remy e san Sergio). I bottai erano devoti di san Nicola; gli acetai, di sant'Amando; i trasportatori di vino, di sant'Eustachio; i mercanti di vino, di san Martino, e così via. In parte per questa ragione, il fabliau afferma che Cuccagna è, più di qualsiasi altro paese, benedetta da «Dio e da tutti i santi».
Vista la deficienza, nel Medioevo, delle tecniche di conservazione del vino, si cercava di consumarlo nello stesso anno di produzione, soprattutto nel Nord d'Europa, dove si deteriorava più rapidamente. Nelle zone mediterranee, il "vino vecchio" di oltre un anno si conservava bene ed era apprezzato. In ogni caso il vino non poteva essere conservato per molto tempo (l'imbottigliamento in recipienti di vetro risale al XV secolo, con tappo di sughero è della fine del XVII), e così se ne beveva molto nel XII e nel XIII secolo. Non è un fatto sorprendente quindi che a Cuccagna scorra «un ruscello di vino», simbolo di vino nuovo e abbondante. Visto che sino alla metà del XIII secolo le mense aristocratiche preferivano il vino bianco, è questo a predominare nella terra dell'abbondanza: vino simile a quelli di Auxerre, La Rochelle e Tonnerre. Solo a partire da allora, forse per influsso esercitato dalla borghesia, crebbe il prestigio dei vini rossi, presenti anche a Cuccagna, di qualità paragonabile a quello di Beaune e a quello importato.
Per tutti questi motivi, il vino a Cuccagna elimina la presenza di qualsiasi altra bevanda, come la stessa birra, abbastanza diffusa in alcune regioni nelle quali veniva bevuta soprattutto dalle donne, dai più poveri, e quando il vino mancava o era molto caro. Nell'esprimere questo carattere popolare della birra, un testo allegorico dice che essa venne «scomunicata» da un sacerdote inglese che aiutava il re di Francia a sostenere i buoni vini. La maggior parte dei primi testi relativi alla birra, invenzione fiamminga del IX o del X secolo, proviene dall'Artois, dalle Fiandre e dalla Piccardia. La birra era quindi ben nota e diffusa nella regione ove fu composto il fabliau de Cocagne . Ciononostante in questa terra dell'abbondanza non esiste questa bevanda, probabilmente perché considerata molto volgare per questo paese delle meraviglie. La mancanza di birra a Cuccagna, così come quella del pane e delle verdure, rivela il desiderio di andare al di là del quotidiano, del banale.
Pertanto, nonostante l'esistenza di vini di gran nome prodotti in Piccardia (a Laon, Soissons e Beauvais), quelli di Cuccagna sono paragonati ai migliori del tempo. Sono paragonati al vino di Beaune, che nel XIII secolo era il preferito dal papa; nel XIV secolo era preferito dal poeta Eustache Deschamps; nel XVI secolo era considerato sinonimo di vino. Sono paragonati a quelli d'oltremare, espressione che doveva riferirsi al vino di Cipro, sorta di moscatello, al tempo piuttosto apprezzato: in un testo composto poco dopo il 1223, quando il re Filippo mandò a cercare «i vini migliori che si trovassero in qualsiasi terra», il primo fu quello cipriota. Sono paragonati a quello di Auxerre, considerato di qualità così buona da essere nominato dai più capo dei vini dell'Ovest della Francia. A dimostrazione della popolarità goduta da questo vino, nel XIII secolo nacque l'espressione «bevitori di Auxerre». Quando il cronista francescano Guglielmo di Rubrouck, nel narrare il suo viaggio in Oriente (1253-1255), vuole elogiare il vino di riso prodotto dai Mongoli, afferma che non era possibile distinguerlo da quello di Auxerre e di La Rochelle. In una cronaca che ha termine nel 1287, un altro francescano che aveva abitato ad Auxerre quarant'anni prima, egualmente elogia il vino della regione.

Il quarto e ultimo gruppo alimentare di Cuccagna è quello dei dolci. Molto apprezzati nel Medioevo, chiudevano in molte varietà il pranzo dei nobili. La bataille de Caresme et de Charnage ne cita sedici tipi diversi. Generalmente fatti di pasta (torte, focacce, paste), venivano dolcificati con miele, vino liquoroso, mosto o frutta secca, più che con zucchero di canna, prodotto orientale costoso, conosciuto in Provenza dalla metà del XII secolo ma introdotto nella culinaria francese solo nel XIV secolo. Fino al XV secolo sembra che gli inglesi e gli italiani apprezzassero lo zucchero più dei francesi. Forse per questo il fabliau de Cocagne menziona un solo tipo di dolce, il flaon , la cui eccezionalità consiste nel fatto che durante la Quaresima cadesse dal cielo in forma di pioggia. È un dolce celestiale. Ma è un dolce quaresimale solo per ironia, in quanto faceva pane degli alimenti grassi, carnevaleschi. In effetti, per lo meno a partire dall'XI secolo e certamente nel XIII, i latticini e le uova erano proibiti durante la Quaresima 6, e gli ingredienti diquel dolce erano farina, uova e crema di latte.
Ma mentre per alcuni studiosi quel che si produceva con questa ricetta era un pasticcio dolce, per altri era una torta salata. Se chiarito, questo problema apparentemente di minore importanza, potrebbe rafforzare o smentire le etimologie che legano il nome di Cuccagna a kuchen/coek (pasticcio). In ogni modo in quella ricetta doveva entrare, possibilmente, un po' di zucchero. Questo, però, più che un alimento era considerato una medicina, e dall'XI secolo figurava nella farmacopea della scuola di medicina di Salerno e poi della scuola di Montpellier. Per Ildegarda di Bingen, nel XII secolo, doveva essere usato per persone con problemi al cervello a al petto. Nella Francia del XIII secolo era usato contro la tosse e l'acidità di stomaco. Alla fine del pranzo si cercava di servire piatti zuccherati, in quanto si pensava che facilitassero la digestione, ragione per la quale Tommaso d'Aquino non ne proibì l'uso in Quaresima. Tutte queste applicazioni e la sua rarità rendevano lo zucchero un prodotto molto caro e ricercato, assente da Cuccagna come tutte le spezie, non per ragioni economiche, bensì probabilmente per indicare che nonostante l'eccesso di alimentazione gli abitanti di Cuccagna non avevano problemi di salute.
Sappiamo adesso quel che si mangia a Cuccagna, ma non perché si mangino quei cibi e non altro. A prima vista si tratta di una nobilitazione degli abitanti di Cuccagna, consumatori di cacciagione, di pesce costoso, di vini raffinati, di dolci speciali. Tuttavia, come già abbiamo analizzato, non si fa riferimento ad altri piatti altrettanto o più nobilitanti di quelli indicati. Si deve allora ricordare che l'alimentazione delle società preindustriali era governata dalla concezione della magia simpatica da tempo studiata dall'antropologia: per la legge del contagio, ciascun oggetto in contatto con un altro ne assume le caratteristiche; per la legge della somiglianza, le cose simili sono in realtà la stessa cosa.
Ingerire quindi un certo cibo significa perciò renderlo parte di noi stessi ed identificarci con questo. Concezione generale che nell'Europa medievale era rafforzata dall'idea dell'uomo-microcosmo, allo stesso tempo sintesi e parte dell'universo. L'importanza attribuita alla carne a partire dall'Alto Medioevo era legata a questo principio: l'uomo è fatto di carne, quindi la carne è il suo alimento naturale. Il latte della madre o della nutrice non solo alimenta il bambino, ma ne plasma anche il carattere. Nell'Italia del XVI secolo, ai bambini non si dava latte dì mucca, perché si credeva che l'origine di questo alimento li avrebbe predisposti ad avere un carattere sottomesso e li avrebbe resi poco intelligenti.
Pertanto la scelta dei cibi di Cuccagna non fu arbitraria. Venne definita dalle condizioni concrete dell'economia e del gusto medievali, e anche dall'influenza del pensiero magico-simbolico. Pesce e cervo, ad esempio, erano noti come simboli cristologici, si che consumarli rappresentava una sorta di comunione laica e quotidiana con la Divinità. Il maiale a sua volta era visto in età medievale come un animale simile all'uomo, sia sul piano alimentare (entrambi sono onnivori), sia su quello fisiologico (i primi studi anatomici, data la proibizione di sezionare corpi umani, venivano compiuti con maiali). Un testo piccardo della fine del XII secolo sostiene che l'unica differenza fra l'essere umano e il maiale sta nel fatto che all'uomo è riservata una vita nell'aldilà. Mangiare carne di maiale era, in questa prospettiva, un atto dai tratti simbolicamente cannibaleschi.
Più specificamente costituiva un'azione di distruzione, di assimilazione e di trasformazione degli ebrei deicidi. Di conseguenza, come ha indicato Claudine Fabre-Vassas, l'immaginario cristiano capovolse la tradizionale identificazione dell'Altro in base a quel che questi mangiava, e vide nell'ebreo quel che egli rifiutava di mangiare, il maiale. Questa lettura medievale si fondava su un testo apocrifo del VII secolo, una versione dell'Evangelo dell'infanzia, che spiega il rifiuto del maiale da parte degli ebrei in quanto negazione di una autofagia: Cristo irritato con una madre ebrea che gli aveva nascosto i suoi tre figli, li trasformò in maiali. Da allora gli ebrei non mangiarono più carne di maiale, perché ciò avrebbe significato mangiare se stessi, e trovarono un succedaneo nella carne dei bambini cristiani. Questa pretesa violenza rituale ebraica nei confronti dei cristiani divenne legittimazione delle persecuzioni contro gli ebrei, e fece sì che l'uccisione dei maiali divenisse un vero sacrificio rituale nella società europea cristiana preindustriale. L'analisi lessicale sembra rafforzare questa tesi, poiché nella lingua francese solo nel 1209, ossia in un contesto di forte antisemitismo, la parola porc acquistò una connotazione negativa, essendo applicata a persone ingorde, golose, grossolane e sporche.

Anche il luogo in cui avviene il consumo di tutti quei cibi non sembra essere casuale. Tavoli «dappertutto / per sentieri e strade», enfatizzano la gratuità del cibo, che tutti possono scegliere e prendere senza alcun tipo di restrizione. L'esistenza di quei tavoli indica soprattutto pasti in comune, cosa che forse aiuta a spiegare il predominio del menu a base di carne. Presso i greci gli animali venivano uccisi in banchetti rituali e la loro carne era distribuita in base alla funzione sociale esercitata da ciascuno. La parte di carne ricevuta dal cittadino era letteralmente l'«incarnazione» del suo stato politico e sociale. Da ciò, per evidenziare la loro dissidenza, il rifiuto dei pitagorici di mangiar came. Anche presso i romani mangiare la carne dell'animale sacrificato significava inserirsi nella vita della comunità: il «principe» era il «primo a essere servito»; il «privato» era escluso dalla «partecipazione» pubblica, ossia dalla spartizione dell'animale.
Proseguendo su questa associazione fra il cibo, soprattutto carneo, e la vita sociale, i banchetti medievali erano pratiche di pace. Erano occasioni per re e signori, laici o chierici, di riunire i loro dipendenti, per rinforzare, attraverso il dono del cibo e delle bevande, la consanguineità spirituale che li univa. Rito di simile significato, sebbene ugualitario e non gerarchico, avveniva fra i membri delle confraternite urbane. In sintesi, il pranzo comunitario di Cuccagna è simbolo di relazioni sociali libere e ugualitarie. Libertà ed ugualitarismo che si manifestano anche sul piano sessuale, sulla base di una sorta di identità fra il consumo di carne animale (alimentazione) e quello di carne umana (sesso).
Nonostante sia ricca, oziosa, giovane e libera, Cuccagna sembra essere silenziosa. I molteplici suoni festivi che ci si aspetterebbe, chiacchiericcio, risate, canti, musiche, non vengono menzionati nel testo, tranne un accenno a strumenti musicali contenuto nella versione abbreviata del fabliau . La ragione di ciò sta forse nel carattere gourmand dei cuccagnani. La bocca che mangia, degusta, si avvolge nella sensualità del mangiare e del bere - prolungamento della fase orale, dice la psicoanalisi, per la quale vi è una componente essenzialmente orale in ogni forma di desiderio - non è la bocca che parla e canta. La comunicazione fra gli abitanti di Cuccagna avviene attraverso la complicità nell'eccesso alimentare e sessuale, attraverso l'affinità fra i peccati di gola e la lussuria, denunciata dalla teologia dell'epoca.
Il poeta insiste soprattutto sull'abbondanza alimentare di Cuccagna, ma non si può dimenticare che quella terra è anche ricca di vestiti e di scarpe, sebbene questo aspetto sia in second'ordine: il poeta dedica al cibo 71 versi, al vestiario soltanto 28. Nella versione del ms B l'importanza dei manufatti è ancora più scarsa, in quanto sono stati soppressi alcuni versi al riguardo. Questo relativo disinteresse per l'artigianato era forse associato allo spazio ridotto che esso poteva occupare nei bilanci dell'epoca. E stato calcolato che una famiglia contadina medievale spendeva fra 1'80 e il 90% del suo reddito in cibo, e pochissimo per il vestiario e l'abitazione.
È comunque possibile concepire la spiegazione opposta. L'esistenza di vari centri artigianali in Piccardia dava a quei prodotti un carattere di ordinarietà che non avevano in altri luoghi. A partire dal XII secolo vi era un'importante produzione di tessuti ad Amiens, Abbeville, Beauvais, Saint-Quentin, Rue, Montreuil. Un testo del XIII secolo, Dir de l'Apostoile , che attribuisce nomi a città e regioni in base alle loro caratteristiche, ricorda Abbeville per il tessuto azzurro ivi prodotto. La regione piccarda fabbricava inoltre stivali da caccia, come indica il nostro testo.
In ragione di ciò, per sfuggire all'ordinario, il fabliau menziona stoffe che non erano confezionate in quella regione. Prodotti importati, rari e costosi in tutto l'Occidente, la cui presenza gratuita e abbondante a Cuccagna serve a enfatizzare le meraviglie del paese. È il caso di vesti fatte con seta importata da Alessandria. O di quelle "foderate di ermellino" , espressione, questa, del crescente consumo di pelli a partire dal XII secolo, forse per l'influsso dell'Oriente musulmano. La composizione non dice tuttavia che tipo di vesti venissero confezionate con quella stoffa, e non permette quindi di ipotizzare il livello sociale di chi le usava. In effetti nell'Occidente medievale il modo di vestirsi non dipendeva tanto da fattori climatici (l'epoca dell'anno o il luogo in cui si abitava influivano poco sugli abiti che si usavano), ma piuttosto dal gruppo di appartenenza (familiare, politico, professionale, religioso, etnico). In tale società «non si usano gli abiti che si preferiscono, ma quelli che si devono usare», come scrisse Pastoreau. Intanto il materiale usato fornisce già interessanti indicazioni. Gli indumenti di pelle, ad esempio, non necessaria in quella terra dal clima sempre primaverile, si trovano nel racconto solo per riaffermare l'opulenza del paese. Dei nove tipi di tessuti ricordati dal fabliau , solo uno era di uso popolare. In generale sia i cibi che i vestiti e le scarpe sono di grande qualità e valore.
Questa duplice abbondanza, di cibi e di abiti, rende completamente sterile una terza abbondanza, quella delle monete. Esprimendo la critica di certi strati sociali nei confronti del corporativismo della produzione e della crescente monetizzazione dell'economia occidentale, il fabliau immagina una terra in cui l'offerta di beni è molto superiore alla domanda, nonostante il consumismo sfrenato dei suoi abitanti. In una simile situazione «borse piene di monete / si trovano sparse al suolo; / [...1 inutili». Ci si può anche domandare se, per un gioco di parole, queste monete sparse al suolo non provengano dalla pioggia menzionata poco prima. In effetti, flaon significa budino, torta, ma anche pezzi di metallo preparati per essere trasformati in monete. In ogni caso, per esprimere una mentalità dissipatrice, il poeta ricorre a simboli di ricchezza inutile a Cuccagna: campi di grano, abiti di pelle, monete.

Sia in riferimento al cibo che al vestiario, quel che rafforza questa abbondanza è il fatto che «tutto è comune a tutti». Il fabliau sembra suggerire che l'abbondanza non è solo questione di quantità, ma anche di socialità. Forse per questo esistono "tavole apparecchiate / Con tovaglie bianche" lungo le strade di Cuccagna. Come si sa, la tovaglia svolgeva un ruolo importante nel cerimoniale della tavola nel Medioevo; mangiare sulla stessa tovaglia indicava uguaglianza di condizione; così, quando un individuo considerato inferiore si sedeva alla tavola di un signore, questi collocava un tovagliolo dinanzi a lui per marcare la differenza. Nel mondo alla rovescia di Cuccagna non aveva senso il proverbio dell'epoca, secondo il quale «al mangione non piace compartire». Inoltre la preoccupazione del fabliau di mostrare un relativo ugualitarismo corrispondeva a una certa mobilità sociale rivelata dai fabliaux in generale.
Grazie al menu e al guardaroba si può dunque sapere a chi si rivolgeva il fabliau de Cocagne ? Apparentemente questi dati indicano una provenienza e una destinazione aristocratiche, ma si deve fare attenzione a giungere a una tale conclusione, visto che la letteratura cortese dell'epoca normalmente fornisce maggiori dettagli sui rituali che facevano da contorno all'alimentazione che sui piatti che venivano consumati, al contrario cioè di quel che fa il fabliau . Non si può inoltre non tener presente che borghesi in cerca di nobilitazione e tesi a nascondere le proprie umili origini, adottavano, quando potevano, comportamenti aristocratici. I mutamenti di usi e le trasformazioni economiche attenuavano le differenze fra gli stili di vita.
Ad esempio, se per molto tempo la dieta carnea ebbe carattere prevalentemente aristocratico, con l'urbanizzazione questo dato si alterò. Già nel 1162 i macellai ricevettero privilegi corporativi a Pontoise e a Parigi. In questa città nel 1393 furono abbattuti circa 270.000 animali per il consumo della popolazione, ossia più di 19.000 tonnellate di carne, ovvero 240 chili per anno a persona, livello perfettamente paragonabile a quello del consumo della classe aristocratica medievale. L'abbondanza alimentare descritta dal nostro testo potrebbe dunque rivelarci una utopia urbana.
Ma è possibile d'altro canto associare il fabliau all'immaginario contadino. Secondo questa ipotesi esso sarebbe la trascrizione di un mondo alla rovescia concepito da gente affamata e povera che, nella costruzione di quella società perfetta, avrebbe usato referenti aristocratici. Cuccagna sarebbe allora un ricordo nostalgico della prodigalità delle corti ed una critica all'avarizia delle nuove classi dominanti urbane. Nostalgia e critica condivise dalla Chiesa, che toglieva l'orgoglio, peccato tipicamente aristocratico, dalla posizione di peccato più grave fra i sette peccati capitali, e lo sostituiva con l'avarizia, peculiarità tipicamente borghese.
Sarebbe un mondo rovesciato, in quanto la Natura vi esercita la funzione della Cultura, fornendo beni che in qualsiasi società sono fatti di materie prime trasformate dagli uomini (lardo, tavoli, coppe, vino, budini, ecc.). D'altro canto, in quella terra la Cultura funziona come Natura, in quanto le stoffe e le scarpe non vengono prodotte col lavoro, ossia con uno sforzo penoso, bensì dall'attività naturale e piacevole di persone che distribuiscono gratuitamente quei prodotti. Proprio come fa la Natura nel concedere i suoi beni. Per questo motivo i tessitori e i calzolai, in generale mal visti nella società medievale, a Cuccagna sono considerati virtuosi e cortesi.
Mondo alla rovescia anche perché lì non si consuma niente di crudo (eccetto il vino) e nulla che sia stato cucinato dall'uomo. La Natura fornisce, già pronti, lardo, salsicce, prosciutto, carne arrosto, oche che si arrostiscono da sole, pioggia di budini caldi. Il trapasso dal crudo al cotto, dalla Natura alla Cultura, si realizza senza la mediazione necessaria in qualsiasi società: il lavoro umano. Lì la Natura è culturale e la Cultura è naturale. La Divinità di Cuccagna non crea nella semplicità della Natura (maiali ed oche vivi, uva ecc.), ma nella complessità della Cultura (prosciutto, oche arrosto, vino ecc.).
Dinanzi a tutti questi motivi è difficile stabilire un ritaglio sociologico del fabliau de Cocagne attraverso i cibi della terra meravigliosa. Là vengono accontentati tutti i gusti e tutti gli usi alimentari. Vi è carne di maiale, di consumo più popolare, e carne di cervo, di consumo aristocratico. Vi è cacciagione di piccole dimensioni (uccelli) e di grandi (cervi). Vi sono pesci di mare e di fiume. Vi è vino rosso, apprezzato specialmente dai borghesi, e bianco, preferito dagli aristocratici. Vino bevuto in recipienti semplici (bicchieri) o sofisticati (coppe di metalli preziosi). L'indistinzione sociologica della culinaria cuccagnana si rivela soprattutto nella preparazione dei piatti. Questa deve soddisfare i gusti di tutti. Deve promuovere l'armonia sociale.
Ecco il motivo per cui la carne è «arrostita o in stufato», ossia aristocratica o popolare. Come ha indicato Claude Lévi-Strauss, l'arrostito è associato alla Natura (non vi è intermediario fra l'alimento e il fuoco), al nomadismo (preparata durante guerre, cacce o viaggi), agli uomini (pressoché gli unici a dedicarsi a queste attività), all'aristocrazia (che deve essere prodiga), alla «esocucina» (destinata agli invitati), alla morte (distruzione dei succhi della carne). Lo stufato, a sua volta, è culturale (alimento cucinato con l'intermediazione di acqua e pentola), è sedentario (a causa dell'uso di recipienti, strumenti culturali), è femminile (preparato da donne, chiuse nell'ambito domestico), è plebeo (economico), è «endocucina» (destinata ai familiari), è vita (utilizzazione completa della carne).
In sintesi, considerando soltanto l'aspetto alimentare e del vestiario di Cuccagna, è difficile stabilirne il profilo sociologico. L'abbondanza era il sogno di tutti, in età medievale.

- Hilário Franco Júnior - secondo Capitolo del saggio "Nel paese della Cuccagna", Città Nuova edizioni, Roma, 2001. Traduzione di Luciano Arcella -

[*1] Il termine cordel significa cordoncino: con questo venivano, e lo sono tuttora, appesi presso banchetti, nei mercati e nelle fiere in Brasile, libriccini o pagine sciolte di una letteratura popolare [N.d.T.]

fonte: Sagarana