venerdì 30 agosto 2024

Sotto la statua di Lenin…

Il romanticismo della rivoluzione anarchica di Nestor Machno del 1918, l’infanzia felice in una Unione Sovietica “privata”, il passaggio dal comunismo al capitalismo, politica e antipolitica, treni e autostop, amore e nostalgia: tutto si aggroviglia nella prosa punk di un romanzo quasi autobiografia che ci trasporta nei paesaggi della memoria di Žadan, vividissimi eppure forse ormai perduti. Un viaggio sentimentale, lucido e dissacrante, attraverso l’Ucraina orientale, sospesa tra la caduta dell’URSS e lo scoppio della Rivoluzione arancione del 2004, un racconto di formazione sull’essere scrittore e uomo, scandito da un ritmo ubriacante.

(dal risvolto di copertina di: Serhij Žadan, "Anarchy in the UKR", Voland. Traduzione Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyc, pagg. 208, € 19)

La fiaccola dell'anarchia
- di Wlodek Goldkorn -

Un racconto on the road, una resa dei conti con il mondo sovietico e post sovietico, una rivendicazione di storie dimenticate e rimosse perché scomode e, infine, l’esaltazione del rock in versione radicale non quindi come fenomeno alla moda ma come rivolta e dove in gioco è la vita e la morte. È tutto questo (e qualcosa di più) Anarchy in th UKR, il romanzo di Serhij Žadan, magnificamente tradotto da Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyc, in uscita con Voland. Intanto, Žadan è uno scrittore ucraino, nato nel 1974, forse il più bravo fra gli autori del paese, tradotto in numerose lingue, ed è anche una rock star, non solo perché trattato come una celebrità, ma alla lettera: oltre a produrre libri, si esibisce con il gruppo rock appunto, Žadan i sobaki (Žadan e i cani) e ad ascoltarlo accorrono folle esaltate. Per certi versi Anarchy in the UKR è un romanzo giovanile. In Ucraina è uscito nel 2005. Leggerlo è comunque utile non  solo per la qualità della scrittura (universalmente riconosciuta) ma perché permette uno sguardo a un momento cruciale della storia del nostro Continente: a quel periodo in cui la cultura – chiamiamola postsovietica – nell’ex Urss assume caratteri specifici, si rende del tutto autonoma rispetto alla matrice moscovita o sanpietroburghese – e nel nostro caso scava criticamente nella memoria ucraina. Ma procediamo con ordine.

A partire dal titolo, in inglese, Anarchy in the UKR è un’esplicita parafrasi del titolo della famosa e  controversa (all’epoca, siamo nel 1977) canzone dei Sex Pistols, gruppo icona del punk, Anarchy in the UK, e dove John Lydon, in arte Johnny Rotten cantava: “I am an Antichrist/ And I am an anarchist / Don’t know what I want/ But I know how to get it” (sono anticristo, e sono un anarchico, non so cosa voglio, ma so come ottenerlo). Con un certo ritardo, la cultura post sovietica – e in questo caso tutta la cultura dell’ex Urss, non solo quella ucraina – si  impossessa di questo linguaggio e messaggio. Ma l’anarchia è solo una metafora? O un’iperbole per segnare la volontà di rivolta? Nel caso specifico, niente affatto metafora né iperbole. In Ucraina, la riscoperta della memoria anarchica fa parte della costruzione dell’identità nazionale. Un bel paradosso usare l’anarchismo per costruire una nazione, ma la Storia è piena di paradossi. In concreto. Žadan si riferisce a una vicenda gloriosa, finita male, quella del movimento anarchico di Nestor Makhno, un leader carismatico che negli anni della guerra civile in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre stabilì, in una parte dell’Ucraina orientale, una repubblica, anarchica appunto, dei contadini. Il suo esercito combatté sia contro i bolscevichi sia contro i bianchi. Furono sconfitti dai comunisti (non senza essere diffamati in quanto antisemiti: non era vero), Makhno costretto all’esilio a Parigi dove morì in povertà e alcolizzato. Ma la leggenda di un territorio libero restò per decenni nella tradizione anarchica in Occidente e venne appunto riscoperta dopo il crollo dell’Urss in Ucraina, monumento a Makhno nella sua città d’origine Hulajpolje. compreso. Nel suo viaggio  Žadan visita i luoghi di quella epopea.

Nelle sue peregrinazioni e soprattutto nella narrazione della città di Charkiv, capitale dell’Ucraina sovietica fino a metà anni Trenta (Kiev, per Stalin ma prima ancora per Lenin, sembrava troppo borghese, troppo carica della memoria polacca e quindi infida), nella sua  narrazione dunque di Charkiv, oggi al centro delle cronache di guerra, Žadan parla anche del futurismo ucraino e di un monumento. Il monumento è a Taras Ševcenko, poeta nazionale dell’Ottocento, nato servo della gleba e perseguitato dagli zar e che nella sua ultima  poesia Testamento scrisse “Quando morirò, mi interrino / Sull’alta collina / Fra la steppa della mia / Bella Ucraina”. Quel monumento fu inaugurato nel 1935, epoca del trionfo di Stalin: con tutte le implicazioni estetiche ed etiche del caso. Il futurismo ucraino che  l’autore contrappone alla statua è una corrente letteraria: poeti e romanzieri che fra gli anni Venti e Trenta sono stati protagonisti del fenomeno chiamato “Rinascimento fucilato”: rinascita della letteratura ucraina, su basi avanguardistiche. Quei poeti e romanzieri finirono fucilati per ordine di Stalin. Su uno di loro: Mykhail Semenko, Žadan aveva fatto il suo Master. Ma l’autore lamenta pure  l’abbattimento della statua di Lenin, perché quello era il suo punto di ritrovo con i riottosi amici. Ecco, il romanzo, non lineare e che procede per associazioni e digressioni, è anche una storia di amicizie, fra dosi abbondanti di alcol e osservazioni di stampo quasi antropologico sullo smarrimento dell’homo post-sovieticus. Il tutto all’indomani della Rivoluzione arancione (2004), il momento decisivo e traumatico nella lotta per l’indipendenza.

- Wlodek Goldkorn - Pubblicato su Robinson del 31/12/2023

domenica 25 agosto 2024

Ciao BlueGhost…

A ben contarli, non ne ho molti, di amici. Càpita!
Non credo che per questo ci sia un motivo, come dire, decisivo.
Colpa mia. Esigente, permaloso, rompicoglioni. Chi più ne ha più ne metta!
Fatto sta che, dapprima, ci siamo annusati a lungo. Soppesati, valutati. All'inizio lo abbiamo fatto dentro un luogo strano che, per fortuna o purtroppo, non esiste più: una cosa chiamata Mailing List. Questa era su De André, e come colui cui era intitolata era una ML litigiosa assai. E invece io e te non ci abbiamo mai litigato, caro il mio BluGhost. Peccato, mi verrebbe da dire ora! Da qualche parte, su qualche hard disk ce la dovrei averla tutta archiavata, ma tranquillo, non ci vado a riguardare in cerca di chissà che cosa, preferisco starmene qui seduto, accanto a Ninna, il tablet sulle ginocchia, a scavare in me stesso, e nei miei ricordi. Mi viene meglio così, lentamente... Anche perché codesto scherzo che ci hai fatto è duro e peso da digerire: come una cipolla di Giarratana!!

Ad Arcola, per conoscerci di persona, ci venisti da solo, in macchina- Il tuo cane sotto il sedile. Non ricordo chi ci suonasse quella sera al Pegaso, e ricordo invece tutti quelli che c'erano - alcuni ancora amici, altri no, alcuni ancora non so più - ma non importa. Ero contento che tu fossi una persona che c'era di persona. E - come dire - da quel "fatidico" giorno siamo stati in qualche modo amici. Fratelli, come amavi dire tu! Da principio, come in tutte le “storie d'amore”, ogni occasione era buona per tenerla viva, l’amicizia. Da Sestri Levante a Porto Venere a San Miniato a Maissana, era come fissare dei raduni dei fan di Olmoti. Di quel paio di giorni passati a Torino a casa tua, conservo la maglietta dei Calexico che una sera, insieme alle nostre compagne, si andarono a sentire. Sono stati molti i posti che ci hanno visti rincorrerci, insieme a chi quell'amicizia l'ha condivisa. Intrecci e chilometri. Poi, le cose si diradano, il tempo passa. È colpa di tutti e non è colpa di nessuno. Succede. Ma poi,  il 3 marzo di quest'anno mi hai scritto:

« ciao a te, sono mesi che dico che voglio scriverti e chiamarti ma sono mesi che sto da solo a far di conto con quello che resta e quello che devo recuperare. lo sanno in pochissimi e non ne parlo ma il 9 novembre sono morto. stavo portando il cane a pisciare e ho sentito una clava schiantarmi il petto. sono risalito a casa e mi sono messo sul divano e dieci ore dopo stefania mi ha trovato ridotto malissimo. abito di fronte all'ospedale e siamo riusciti ad arrivarci. mi hanno operato d'urgenza e era strano sentirli parlare di me come fossi già morto. mi davano sul serio per spacciato. sono rimasto in ospedale due mesi e stefania si è fatta carico di tutto il lavoro anche se dal mio letto continuavo a scrivere e a fare quel che potevo. se in deitoria scolastica sanno che sto male mi tolgono i lavori e allora zitti zitti abbiamo consegnato tutto una settimana fa e nessuno sa niente. però ero morto, lo sono stato per alcuni giorni ma io sapevo che non me ne sarei andato e sorridevo e rassicuravo tutti. ho fatto un mese e mezzo in una clinica lager dove mi hanno fatto fare la riabilitazione. sono rinato, sto molto bene, però solo ora sto provando a incontrare le persone, mi sono chiuso a riccio e mi sono concentrato sulla rinascita e ho voluto vicino solo stefania e daniele, mio figlio. ora sto benissimo, l'altro giorno alla visita i medici non si capacitavano, certo, mi stanco prima, faccio con calma, la notte rivedo uno strano film ma sono qui e a te volevo raccontarlo. spero tu stia bene e lo stesso spero di eleonora. come state? vorrei vedervi prima o poi.»

E così ho fatto subito quel che da tempo volevo fare, senza mai farlo. Ti ho chiamato al telefono.
Abbiamo parlato a lungo e tu sei riuscito a convincermi che eri fuori pericolo.
Ragion per cui, come sempre faccio, me la sono presa comoda. Non avrei dovuto.
E ora che facciamo? Aspettiamo di incontrarci di nuovo, stavolta sulle rive del Fiume?!!??

Giocare è un cosa seria !!

C’è chi dice che la nostra specie non andrebbe chiamata Homo sapiens bensì Homo ludens, perché è la capacità di giocare – più che quella di pensare – ad aver avuto un ruolo cruciale nella nostra evoluzione. Gli uomini da sempre esplorano mondi immaginari e testano strategie nell’ambiente sicuro del gioco, che risponde a regole definite ed è separato dalla nostra vita ordinaria da precisi limiti spaziali e temporali. Il gioco è infatti, nelle parole di Roger Caillois, «un’occasione di puro spreco: spreco di tempo, di energia, di abilità, di ingegnosità e spesso anche di denaro»; e proprio perché è un’attività slegata da interessi materiali e dalla quale non si può ricavare alcun profitto, sa donare un impareggiabile senso di libertà anche agli adulti. I giochi esistono da che esiste l’uomo, e lo stesso si può dire della matematica: insieme a Marcus Du Sautoy, celebre matematico e qui guida d’eccezione, scopriremo che la matematica e i giochi sono indissolubilmente connessi, che la matematica è alla base del modo in cui costruiamo i giochi, li giochiamo e li vinciamo, e che in tutto il mondo i giochi parlano il suo linguaggio universale e meraviglioso. Sulle orme di Phileas Fogg faremo un giro attorno al mondo in ottanta giochi, dai più celebri ai più sconosciuti, per conoscere la loro storia e i meccanismi su cui si fondano, e anche in che modo ognuno di essi sia parte integrante della cultura in cui è nato, un’espressione non meno sofisticata di un’opera d’arte che riflette una particolare visione della vita.

(dal risvolto di copertina di: Marcus Du Sautoy, Il giro del mondo in 80 giochi- Traduzione di Daniele Didero, Rizzoli, pagg. 516, € 20)

Paese che vai giocatore che trovi
- di Paolo Albani -

Ogni volta che si affronta l’affascinante tema del gioco, il primo riferimento che viene in mente è il libro dello storico e linguista olandese John Huizinga Homo ludens (1939) dove il gioco è considerato un’importante base e fattore di  cultura, dato che le grandi attività originali della società umana – linguaggio, mito, culto, giustizia e ordine, traffico e industria, artigianato e arte, poesia, filosofia e scienza – sono tutte intessute di gioco. Il gioco è un’attività libera, non imposta da una necessità fisica o da un dovere morale, è un’azione provvisoria, svolta entro limiti di tempo e di spazio, una ricreazione fine a sé stessa, eseguita per amore del piacere che sta nella  sua esecuzione; indispensabile all’individuo, osserva Huizinga, in quanto funzione biologica, e anche alla collettività per il senso che contiene, per il valore espressivo e i legami spirituali e sociali che crea. Il gioco si svolge con ordine secondo date regole, suscitando rapporti sociali che facilmente si circondano di mistero o accentuano mediante travestimento la loro diversità dal mondo solito, quello di tutti i giorni. Il gioco si contrappone alla serietà della vita reale, al lavoro come il tempo perso al tempo bene impiegato, non produce alcunché: né beni né opere; anche i giochi a base di denaro, scommesse o lotterie, non fanno eccezione: non creano  ricchezze, le spostano soltanto, come ricorda un altro attento studioso del gioco, Roger Caillois ne I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (1958), ulteriore caposaldo per capire il gioco come fenomeno culturale. Per cercare di districarsi nell’ampia varietà dei giochi inventati dall’uomo, in Italia abbiano due strumenti formidabili: un’Enciclopedia dei giochi (1999), scritta da uno dei maggiori esperti in materia, Giampaolo Dossena, uscita per i tipi dell’Utet in tre ponderosi volumi, e un Dizionario dei giochi (2010) di Andrea Angiolino e Beniamino Sidoti, edito da Zanichelli. Inoltrarsi fra le pagine di questi due testi provoca una vertigine, un godimento davvero giocoso  («se mi passate il gioco di parole», frase da sprovveduti che andrebbe bandita, sanzionata, dato che non c’è niente di scandaloso, di sconveniente nel fare un gioco di parole).

Al gioco è dedicato Il giro del mondo in 80 giochi di Marcus Du Sautoy, professore di matematica all’Università di Oxford, fra i più importanti scienziati del Regno Unito, Fellow della Royal Society, collaboratore di «Times», «Daily  Telegraph», «Guardian» e Bbc. Oltre a questi titoli, Du Sautoy è un appassionato di giochi, che colleziona, quando può, durante i suoi numerosi viaggi all’estero legati all’attività di matematico. Il libro, come si deduce dal titolo, prende a modello narrativo il viaggio intrapreso dal gentleman londinese Phileas Fogg, insieme all’aiutante Passepartout, per circumnavigare il globo in 80 giorni, a seguito di una scommessa di  20mila sterline stipulata con cinque soci del Reform Club. La storia è raccontata da Jules Verne nel romanzo di enorme successo Il giro del mondo in ottanta giorni (1872). Ciò che muove Du Sautoy non è però una scommessa, lo sorregge, come detto, il suo sconfinato amore per i giochi, perché i giochi sono storie, «reperti archeologici viventi», riflettono le culture dei Paesi in cui nascono, e dunque aiutano a comprendere le somiglianze e le differenze fra le varie culture. In più c’è che Du Sautoy è un matematico e fra il gioco e la matematica esiste un rapporto stretto. I giochi, confessa Du Sautoy, sono per me un modo di fare matematica, dato che, in moltissimi casi, un gioco ha alla propria base un’idea matematica astratta (ne sanno qualcosa i membri dell’OuLiPo come Raymond Queneau e Italo Calvino).

  Il luogo da cui “salpaFogg-Du Sautoy per il suo viaggio, non è un club aristocratico, ma il mitico British Museum dove, da bambino, il matematico inglese scopre il Gioco reale di Ur, gioco sumero risalente alla metà del terzo  millennio avanti Cristo, la cui tavola è composta di conchiglie intarsiate in una scatola di legno colorata in diverse tonalità di colore. Il gioco, di cui si conosce poco, veniva giocato con dadi a forma di piccole piramidi. Per ogni tappa del suo viaggio, Fogg-Du Sautoy compila un resoconto dei giochi più significativi incontrati nel Paese che visita, mostrandone, in appositi utili riquadri, i risvolti matematici. Così in Medio Oriente, insieme al Gioco reale di Ur (luogo situato nell’attuale Iraq), Fogg-Du Sautoy si sofferma sul backgammon, pieno di colpi di scena come accade nella matematica del caos; in India parla in primo luogo degli scacchi, uno dei più straordinari giochi di  guerra inventato dagli uomini; in Cina del "go", gioco di conquista territoriale dove i pezzi non vengono rimossi dalla tavola (Georges Perec, insieme a Pierre Lusson e Jacques Roubaud, ha scritto un delizioso Breve trattato sulla sottile arte del go), gli shanghai, il domino; in Giappone le carte Pokémon, bizzarri mostriciattoli in lotta fra loro, e via di seguito. Una curiosità. La narrazione di Fogg-Du Sautoy è ricca di stuzzicanti curiosità storiche. Come questa. Ai suoi tempi, Buddha mise al bando molti giochi, considerati una distrazione dal serio compito di raggiungere l’illuminazione. Fra i  giochi banditi dal Buddha figurano quelli con i dadi e qualunque gioco con una palla. A proposito di quest’ultimo, mi sono chiesto: Roberto Baggio, soprannominato «il codino», estroso giocatore di calcio convertitosi al buddismo nel 1988, conosceva questa proibizione?

- Paolo Albani - Pubblicato su Domenica del 24/12/2023 -

venerdì 23 agosto 2024

La fine della Modernità !!

Pubblicato nel 1994, in questo testo che ora appare sul n°20 di Exit!  del maggio 2023, Kurz spiega come, con la fine dell'Unione Sovietica, anche il marxismo, rimasto in vigore fino ad allora, fosse arrivato alla sua fine storica. Per il marxismo, in quanto ideologia della modernizzazione, la moderna categoria reale del lavoro patriarcale, era centrale (allo stesso modo in cui lo era per il liberalismo e per il fascismo). In contrasto con quella che è invece una critica categoriale del capitalismo - la quale concepisce il lavoro, la dissociazione, il valore, ecc., come delle categorie storiche, e quindi, in tal modo, rende concepibile il loro superamento e la loro abolizione, anziché postulare la loro imposizione o regolamentazione (se non addirittura arrivare ad allucinarle come se si trattasse della determinazione ontologica dell'essere umano) - il marxismo ha formulato una critica del capitalismo formatasi a partire dal punto di vista proprio di questo lavoro. Di fronte alla crisi globale del capitale, il marxismo del movimento operaio classico, che ormai ritiene di avere individuato il fattore decisivo nella "lotta di classe" e nella "espropriazione della proprietà privata", non è più in grado di cogliere fino a che punto sia arrivata la gravità della realtà della crisi. Come chiarisce Kurz, con la fine della società del lavoro, un punto di vista del lavoro non può altro che essere reazionario.

Il feticcio del lavoro: il marxismo e la logica della modernizzazione
- di Robert Kurz -

Il lavoro in quanto identità storica della modernità
Una teoria che è arrivata a essere storicamente potente, non può più essere liquidata come se fosse solo "errore e inganno", nemmeno quando certe manifestazioni storiche ad essa legate si sono esaurite, e sono ormai scomparse nell'abisso del passato. Questo, perché la storia non è un processo scientifico che di fronte a un'oggettività morta sancisce ciò che è falso, ma essa costituisce uno sviluppo umano. Secondo la terminologia hegeliana, la vera storia è la storia del "superamento [Aufhebung]", e non è dichiarazione di falsità. Ciò vale anche per quel che riguarda tutte le grandi teorie, viste come i diversi momenti interni di questa storia. Da questo punto di vista, la teoria di Marx può solo essere superata, non dichiarata falsa. In poco tempo, l'attuale forma di opportunismo storico, che si affanna a porre fine a Marx, al marxismo e a qualsiasi critica del capitalismo sotto la pressione di una storia esterna di eventi non ancora compresi, e a proclamare la positiva "fine della storia" (Fukuyama, 1992), è riuscita a mettersi terribilmente in imbarazzo. Dopo il crollo del socialismo di Stato, legittimato ad est dal marxismo, quella che stiamo vivendo non è l'ascesa globale della democrazia dell'economia di mercato, quanto piuttosto proprio l'imbarazzante crisi dell'Occidente stesso: dal punto di vista economico e sociale, ma anche ideologico e di legittimazione. In dialettica, così come nel misticismo e nei sistemi esoterici e cabalistici, esiste la dottrina dell'identità degli opposti. Nella storia reale e nella teoria, questa identità degli opposti può essere decifrata come la determinazione di una forma sociale generale e dominante, ovvero il modo in cui l'essenza di una forma storica di società, che è comune a tutti i partecipanti e a tutte le fazioni "all'interno" di quella forma, relativizza i suoi opposti e li rappresenta quali determinazioni polari all'interno di un tutto identico. Tuttavia, una visione del genere è possibile solo quando il fumo delle battaglie immanenti si è diradato, quando la formazione diventa visibile come un tutto identico e solo al momento del suo inabissamento, laddove prima questa identità doveva rimanere occulta ai partecipanti: altrimenti essi non sarebbero stati in grado di combattere le loro battaglie, per condurre la formazione storica alla sua maturità e, infine, al suo "superamento". Da questo punto di vista, la rottura epocale che si sta dispiegando sotto i nostri occhi può essere intesa, forse sorprendentemente, in maniera completamente diversa rispetto a quella che la coscienza, ancora ferma all'epoca del declino, è in grado di immaginare; vale a dire, non tanto come la vittoria del capitalismo sul socialismo, non come il trionfo dei principi liberali su quelli dogmatici o della destra politica sulla sinistra politica, quanto piuttosto come il limite storico e la crisi del sistema di riferimento comune della forma storico-sociale comune, il cui sviluppo e la cui realizzazione hanno determinato non solo la storia del dopoguerra dal 1945 in poi, ma perlomeno gli ultimi 200 anni. Secondo questa prospettiva, il marxismo, divenuto storicamente potente in quel periodo, non può che essere seppellito insieme a tutti i suoi avversari. A un esame più attento, risulta chiaro che nella modernità la categoria del "lavoro" rappresenta l'identico degli opposti, non solo come concetto teorico, ma anche come categoria reale oggettivata dell'esistenza storico-sociale. Le oggettivazioni del "lavoro", nella forma di "valore" economico, nell'incarnazione della merce e delle relazioni merceologiche, del denaro e delle relazioni monetarie, della concorrenza e della redditività, della razionalizzazione e dell'economizzazione del mondo, hanno determinato la vita della modernità in linea ascendente e in misura crescente. Ed è stato solo attraverso queste oggettivazioni del "lavoro" che si sono sviluppate le forme politiche moderne: la contrapposizione tra mercato e Stato, tra capitalismo e socialismo, tra destra e sinistra, tra nazionalismo e internazionalismo, tra dittatura e democrazia. Questa prospettiva può, a prima vista, provocare uno scuotimento di testa incredulo, ma ciò è dovuto solo al fatto che nel processo di modernizzazione la coscienza teorica, come la coscienza quotidiana, ha istintivamente de-storicizzato e ontologizzato le proprie forme sociali di esistenza, le quali appaiono nelle loro determinazioni più astratte come forme umane di esistenza in generale. Il fatto che nella storia della modernizzazione ciò valga anche per gli opposti immanenti potrebbe essere illuminante, solo che l'accentuazione e l'occupazione dei poli differiscono. Ciò diventa evidente quando i diversi momenti socializzanti della modernità vengono confrontati con i loro opposti. Il momento liberale del mercato, del capitalismo, dell'internazionalismo e della democrazia viene costantemente contrapposto al momento illiberale dello Stato, del socialismo, del nazionalismo e della dittatura. Tuttavia, esattamente allo stesso modo in cui il momento illiberale può sempre essere occupato sia dalla destra che dalla sinistra, e quindi si riferisce all'identità dell'opposizione destra-sinistra (il liberalismo ideologico non è mai stato in grado di rappresentare un asse indipendente che rompesse con lo schema destra-sinistra del sistema di coordinate politiche, ma ha sempre e solo caratterizzato il corrispondente cammino della sua conseguenza), anche per quanto riguarda la serie di concetti liberali e illiberali esiste una loro identità: queste categorie non si trovano in un rapporto dualistico, ma in una relazione di opposizione storico-genetica l'una con l'altra. La dittatura non è l'antagonista esterno della democrazia, ma è piuttosto l'altro della democrazia stessa: la sua forma storico-genetica di attuazione, così come appare in modo disomogeneo nelle diverse regioni del mondo. Allo stesso modo, il nazionalismo è simultaneamente sia un fattore condizionante che un prodotto dell'internazionalizzazione stessa, e non la sua negazione esterna; lo stesso si potrebbe dire dell'opposizione tra mercato e Stato o tra capitalismo e socialismo. Un raffronto con le altre formazioni storiche indica che l'identità centrale di tutti questi opposti è il "lavoro", con le sue categorie oggettivate.

Le società agrarie premoderne, dal Neolitico all'inizio dell'industrializzazione, non conoscevano né il "lavoro" in senso moderno - come categoria sociale di totalità - né le sue astrazioni di forma (merci, denaro) e le sue leggi di movimento (concorrenza, redditività), nel nostro senso. Il concetto astratto di "lavoro", nella misura in cui esso fosse esistito, si riferiva solo all'esistenza di lavoratori minori e dipendenti (schiavi, clienti, servi della gleba); esso pertanto non possedeva la dignità dell'universalità sociale, ma esprimeva invece solo la degradazione in sé (Arendt 1981). La sfera sociale del "lavoro", e quindi la sfera economica astratta, non era ancora differenziata; la riproduzione materiale si intrecciava ancora con la religione, con le tradizioni sociali, ecc. Di conseguenza, la merce e il denaro non avevano un'esistenza centrale, e nemmeno indipendente e astratta, ma rimanevano integrati in un sistema di obbligazioni reciproche; oppure si trattava di un insieme di regole sociali completamente diverse rispetto ai "doni" reciproci (Mauss 1990). Che il "lavoro" e le sue categorie reificate e indipendenti ("valore", merce, denaro, capitale, salario di lavoro, "processo di valorizzazione") fossero lo stesso identico elemento della modernità, è dimostrato anche dal fatto che essi, insieme alle loro forme di rappresentazione, siano stati parimenti approvati, affermati in termini di identità e ontologizzati da tutti i programmi ideologici e politici del nostro tempo. Il marxismo, come sappiamo, non solo non costituisce un'eccezione, dal momento che si è identificato con il "punto di vista dei lavoratori" e ha rivendicato in modo fondamentale il punto di vista del "lavoro" come presunta antitesi del "capitale". Tuttavia è significativo che lo abbiano fatto anche i conservatori di destra, e persino i radicali di destra, elevando la "figura dell'operaio" (Jünger 1982) a una figura luminosa e identificativa. Ma perfino gli stessi rappresentanti del capitale hanno seguito tale identificazione. Chiunque pensi che la rivendicazione del "diritto al lavoro" e lo slogan "Basta con i fannulloni!" siano una prerogativa dell'Internazionale marxista dovrebbe prendere nota di ciò che dice la figura simbolo del capitalismo americano rampante: «Il principio morale di base è quello del diritto dell'uomo al proprio lavoro [...]. A parer mio, non c'è nulla di più abominevole di una vita oziosa. Nessuno di noi ha il diritto a questo tipo di vita. Nella civiltà non c'è posto per gli oziosi» (Ford 1923, 11 ss.). È indubbio che, nel corso del processo storico di modernizzazione, i vari funzionari e le diverse posizioni ideologiche di un identico processo hanno confrontato le differenti manifestazioni, modalità di esistenza e incarnazioni dell'emergente sistema del "lavoro": La forma vivente dell'azione "lavoro" contrapposta alla sua forma morta e reificata "denaro" (capitale); la nazione come forma coerente di riproduzione del "lavoro" (emersa solo nel processo di modernizzazione) contrapposta a quella incoerente del mercato mondiale e della società globale, ecc. Ma il punto centrale di tutte le identificazioni (a parte qualche dissidente edonista presente in tutti i campi) è stato e rimane il "lavoro" ontologizzato e definito in modo assiomatico, senza che il cambiamento di significato di tale termine si riflettesse nel processo della storia reale. Se consideriamo le contrapposizioni presenti nella modernità, non come se fossero una battaglia tra eterni principi metafisici, ma come momenti complementari e genetici di un unico processo storico, vediamo che è possibile ricostruire il percorso della modernità come lo sprigionamento del "lavoro": il sistema delle antiche società agrarie, fondato sulla religione e sulle tradizioni, viene sostituito dal sistema dell'economia astratta, nella quale il "lavoro", sotto forma di capitale, si impone come un paradossale fine in sé. Il ri-accoppiamento tautologico del denaro a sé stesso ("valorizzazione", profitto) è identico a un corrispondente ri-accoppiamento del "lavoro" a sé stesso, nella misura in cui il denaro, e di conseguenza il capitale, non è altro che la forma morta e reificata della rappresentazione del "lavoro". Tuttavia tale trasformazione dell'attività vitale nell'astratto e assurdo fine sociale del "lavoro" è stata resa possibile solamente separando questo "lavoro" dal coerente processo esistenziale, e con la conseguente differenziazione dall'astratta sfera economica del mercato e dei suoi criteri; sono stati eliminati tutti gli elementi della religione, della tradizione, dell'obbligo personale, del "dono", ecc. (in qualità di forme e criteri delle relazioni sociali), e l'umanità è stata assoggettata al feticismo "economicista" del lavoro. Solo attraverso la sua separazione e differenziazione da tutto il resto del processo vitale, il "lavoro" si è autonomizzato e si è elevato a categoria della totalità, subordinando a sé, come principio astratto e dominante, tutti gli ambiti dissociati della vita, plasmandoli e rendendoli a poco a poco conformi alla sua immagine. È indubbio che questo processo non sia stato consapevole e riflessivo, ma che sia stato sempre guidato dall'insieme delle motivazioni particolari e limitate del soggetto. Il carattere intrinsecamente assurdo e fine a sé stesso del processo di formazione del "lavoro", avvenuto in maniera irrazionale, e la mancanza di auto-riflessione nel processo si condizionano a vicenda. Ciò che Melville fa dire al suo Capitano Achab può essere riferito alla modernizzazione: «Tutti i miei mezzi e tutti i miei metodi sono ragionevoli; quel che è folle, è solo il mio obiettivo».

Naturalmente la "follia" dell'obiettivo, vale a dire l'accumulazione come fine in sé del "lavoro" morto a lungo termine ha dovuto avere un effetto anche sui "mezzi e metodi", dal momento che in sé non può esistere una razionalità meramente interna. In questo senso, la modernizzazione, vista come liberazione del "lavoro", delle sue forme di rappresentazione e delle sue forme funzionali, non è altro che una religione secolarizzata. Da un lato, Max Weber ha esaminato questo fatto nella sua "Etica protestante" (Weber 1984), ma non lo ha compreso in maniera sufficientemente approfondita; dall'altro, descrive lo stesso processo come "disincantamento del mondo" (Weber 1972), per quanto si possa anche parlare di un tipo semplicemente nuovo di incantamento negativo del mondo, mediante il moderno feticismo del lavoro. Proprio come la razionalità della modernità si rivela irrazionale nel suo nucleo, e la ragione astratta deriva dal carattere astratto ed estraneo del contenuto del "lavoro", in tal modo anche la storia dell'imposizione di questa configurazione risulta segnata da gravi sconvolgimenti irrazionali, esplosioni di violenza e nuovi rapporti di coercizione. Il nuovo sistema del "lavoro", con le sue assurde imposizioni, viene imposto con violenza non solo contro la feroce resistenza che opponevano le vecchie forze della società agraria, ma sotto forma premoderna anche contro i "produttori diretti" di origine contadina e artigianale; ad esempio, attraverso la disciplina temporale innaturale e priva di senso della fabbrica e dell'ufficio: «Gli imperativi e le imposizioni comportamentali proprie del lavoro salariato: essere indipendenti rispetto ai ritmi biologici e climatici, ripetere giorno dopo giorno gli stessi monotoni movimenti delle mani, arrivare in fabbrica in orario e non lasciarla prima della fine della giornata lavorativa erano estranei alle persone preindustriali. Le loro vite seguivano un ritmo diverso e non conoscevano ancora la rigida separazione tra lavoro e vita» (Eisenberg 1990, 105). Per contro, questo stesso sistema di "lavoro", sviluppatosi in forma compulsiva e patologica, aveva prodotto anche delle nuove attrattive, delle gratificazioni e dei momenti di emancipazione. La storia dell'imposizione del "lavoro" può essere suddivisa, grossolanamente, secondo questa sua continua ambivalenza: a partire dalle marche o dalle mescolanze di tipo ancora corporativo, feudale e agrario nella storia dell'industrializzazione del XIX secolo, passando per la"ideologizzazione delle masse", per la lotta di classe, per le dittature della modernizzazione e per l' impulso dato dalle due guerre mondiali, per arrivare alla "democratizzazione" generale, alla "de-ideologizzazione" e poi alla crescente "individualizzazione" (Beck 1986) della seconda metà del XX secolo. Allo stesso modo in cui la dittatura intrattiene una relazione storico-genetica con la democrazia, ed è essa stessa la sua forma di imposizione, il collettivismo, invece, nella sua variante marxista e anche in quella nazionalista-radicale di destra, risulta essere solo una fase transitoria della successiva individualizzazione astratta, diretta contro la vecchia "comunità" agraria (Tönnies 1979), sebbene ciò non fosse consapevole, o venisse addirittura formulato in modo ideologicamente contraddittorio (ad esempio, attraverso il contraddittorio termine nazionalsocialista "Volksgemeinschaft"[Nd.T.: un'espressione tedesca che significa "comunità popolare", "comunità popolare", "comunità nazionale" o "comunità razziale", a seconda della traduzione del suo termine componente Volk]), dal momento che la "de-ideologizzazione" è stata anche il risultato genetico della precedente fase di sviluppo ideologico che ha prodotto il marxismo e il nazionalismo, e non il suo semplice opposto. Fin dall'inizio, Questo scatenamento storico del "lavoro" astratto  e la relativa separazione tra vita e attività produttiva, hanno avuto un aspetto di genere; la storia dell'imposizione del "lavoro" è stata identica allo sviluppo delle moderne relazioni di genere. Rispetto alle società premoderne, si può osservare una peculiare inversione strutturale, dal momento che in quelle l'attività produttiva non era pubblica, e non aveva una forma sociale generalizzata; era in larga misura parte dell'economia domestica, e quindi dell'"oikos", di quella "casa intera", nel cui spazio le casalinghe avevano un significato sociale incomparabilmente maggiore rispetto alla modernità. Simultaneamente, dal punto di vista della "polis" maschile e della sua sfera pubblica, l'attività produttiva, se vista  nel contesto domestico, era qualcosa di inferiore e di degradato, rafforzato da una concezione del lavoro che si basava sull'attività degli schiavi. Nella modernità questa relazione si inverte: il "lavoro", in quanto sfera svincolata dal contesto di vita, rappresentato astrattamente nella forma del denaro, diventa un nuovo tipo di terreno pubblico, e pertanto un soggetto "maschile". La sfera pubblica maschile della "polis" viene "economizzata" (a differenza di quanto avveniva nell'antichità), e solo allora diventa ideologicamente positiva, nel senso del patriarcato moderno. Inoltre, ciò significa che l'"oikonomia" viene sottratta alle donne per renderle responsabili, nel ristretto contesto familiare, di tutto ciò che non può essere coperto dalla - ora pubblico-sociale - "economia del lavoro",  e dal suo fine astratto (la valorizzazione del denaro):  "lavoro domestico" nel senso riduttivo moderno, educazione dei figli, "amore". Di conseguenza, all'inizio la modernizzazione attraverso il "lavoro" non significa un miglioramento della posizione delle donne nella società, ma, al contrario e in misura ancora maggiore, l'esclusione e la svalutazione del "femminile"; le attività ingrate attribuite alle donne servono ora solo a «garantire e razionalizzare la ricerca strumentale della prestazione in quanto standard della socializzazione maschile» (Eckart 1988, 202ss.); ossia a fungere da discarica per i mali del sistema. Nella misura in cui le donne, inseguendo la falsa promessa dell'universalismo del "lavoro", cercano di affermarsi nella sua sfera, rimangono comunque strutturalmente svantaggiate anche oggi essendo  state escluse o «estranee [...] in quanto gruppo storico di "ritardatarie" sul mercato del lavoro» (ibid., 206). Pertanto, non è esagerato affermare che la "dissociazione" e la moderna codifica del "femminile" sono diventate la «condizione di possibilità per il principio maschile del "lavoro" astratto» (Scholz 1992, 24). A questo riguardo, tanto il movimento operaio in Occidente quanto i regimi di accumulazione statal-socialista della "modernizzazione in ritardo" nell'Est e nel Sud, possono essere compresi come veicoli dello sviluppo interno dello stesso capitalismo, strutturalmente dominato dagli "uomini", contro il quale essi hanno combattuto solo in modo superficiale, e nella sua forma empiricamente riconosciuta e non ancora sviluppata. In uno dei due casi, il suo obiettivo immanente era l'uguaglianza degli "uomini del lavoro" visti come moderni soggetti monetari e giuridici, mentre nell'altro era quello dell'autoaffermazione dei ritardatari storici nella loro qualità di nazioni moderne e di partecipanti al mercato mondiale: entrambe le cose logicamente necessarie dal punto di vista del sistema totale del "lavoro".

Se Marx e il marxismo vengono considerati come "terminati", al più tardi a partire dalla rottura epocale avvenuta nel 1989, quest'indicazione è involontariamente ambigua. Infatti il marxismo, visto da "fuori", non è stato "terminato" nella forma di uno sconfitto in battaglia, che lascia a un altro il ruolo di splendido vincitore; al contrario, è stato "terminato" proprio in quanto compito che è stato portato a termine, e che quindi è diventato irrilevante ai fini dello stesso processo di modernizzazione. Tale compito era la generalizzazione sociale e l'imposizione globale del "lavoro" moderno. In questo processo il marxismo ha fatto da apripista contro i gretti poteri di rappresentazione delle fasi di sviluppo capitalistiche ancora immature. Per il pensiero immanente al sistema, che si aggrappa ai conflitti del passato, il risultato non può essere formulato altro che come un paradosso: il marxismo è arrivato alla fine perché il "lavoro" ormai non può più essere imposto, e perché la storia dello sviluppo capitalistico, di cui è stato parte, ha raggiunto i suoi limiti assoluti. Naturalmente, questo risultato sorprendente getta una nuova luce sulla questione della teoria di Marx. È stato spesso affermato che Marx, con il suo immenso bagaglio teorico, non è stato assimilato al marxismo; dall'altra parte, nessuno potrebbe affermare che Marx non abbia avuto niente a che fare con il marxismo.  Di fatto, la teoria di Marx può essere letta, per lunghi passaggi, come una teoria immanente della modernizzazione, che presenta certamente una visione positiva del capitalismo, e argomenta apertamente in termini di ontologia del lavoro, a volte perfino direttamente di tipo "protestante". Sotto questo aspetto Marx è compatibile con il marxismo e con il suo "compito" immanente. E non c'è da stupirsi che egli risulti essere un "uomo del XIX secolo", per il quale la "dissociazione" dalla sfera complementare femminile e la separazione del "lavoro" dal processo vitale non costituiscono un tema centrale della critica; è esattamente in questo senso che Marx rimane affermativo. D' altronde, Marx presenta anche una linea di argomentazione in qualche modo occulta ed "esoterica", la quale supera il marxismo e il moderno modo di socializzazione in generale. A dispetto della sua asserzione sul "lavoro", Marx non aveva alcun dubbio sul fatto che le sue forme feticistiche e reificate di rappresentazione, le merci e il denaro, dovevano essere abolite in un processo rivoluzionario di trasformazione. Per tutti i marxismi, rimasti bloccati sul compito immanente della modernizzazione, questa contraddizione nella sua teoria, che punta al di là della modernità, è sempre stata una seccatura ed è stata trattata come una vergogna in famiglia. Marx può essere letto in maniera tale che, a differenza del marxismo, egli non asserisce il "lavoro" in maniera incondizionata e inconsapevole, per così dire, ma piuttosto in quanto mezzo inconsapevolmente prodotto storicamente che «schiude le sorgenti della ricchezza» (Marx 1974, 135) il quale si comporta come una specie di "pedagogia della storia", vale a dire che in senso assoluto non è affatto protestante. Visto in tal modo, il "lavoro" sarebbe solo una scala storica che può essere buttata via nel momento in cui, con il suo aiuto, la povertà premoderna delle necessità sarà stata superata. Contrariamente alle sue affermazioni, Marx è sempre stato sul punto di rompere con l'ontologia del lavoro; ma probabilmente avvertiva che i tempi non erano ancora maturi per una simile rottura e che il movimento storico del suo tempo non poteva ancora andare oltre la sua ombra. Oggi, però, è esattamente proprio questo Marx non più compatibile con il marxismo a rivelarsi fecondo e sorprendentemente contemporaneo. Infatti, la crisi del sistema di riferimento comune ai precedenti combattenti diventa sempre più chiaramente evidente come crisi del sistema mondiale del "lavoro" stesso che ci sta portando a una crisi del capitalismo assai più profonda di quanto i marxisti avrebbero mai potuto sognare. Nel momento in cui cala il sipario sul finale di tutta un'epoca, il racconto della storia ricade in una profonda e oggettiva ironia.

La Teoria della Crisi di Marx, e l'Utopia Marxista del Lavoro
All'ombra della grande crisi globale alla fine del processo di modernizzazione e alle soglie del XXI secolo, anche le idee del marxismo sulla fine del modo di produzione capitalistico sono immerse in una peculiare penombra. In quella crisi fantasmatica che compariva nelle teorie e nelle idee marxiste, il ( supposto) limite del capitale avrebbe dovuto corrispondere a una generalizzazione e a una massima espansione del "lavoro". Nella crisi reale che comincia a delinearsi dinanzi ai nostri occhi, sembra invece sia vero il contrario. L'identità negativa tra "lavoro" e capitale si rende visibile proprio in questa crisi, che si manifesta come una "crisi della società del lavoro". La contraddizione, nella quale il marxismo, insieme al capitalismo, raggiunge ironicamente i suoi limiti assoluti, può essere ancora rintracciata in maniera non dissimulata in Marx stesso. Nella misura in cui anche lui era un feticista del lavoro - e di conseguenza un ontologo del lavoro - non poteva non insistere sul fatto che il capitalismo sarebbe perito proprio a causa della massificazione e della totalizzazione della "classe operaia", la quale non sarebbe stata soltanto una delle sue categorie sociali funzionali, ma presumibilmente anche il suo "becchino". La formulazione “classica” del marxismo, intesa nel senso di questa prospettiva, corrisponde al famoso passo del capitolo 24 del Capitale (vol. 1) dedicato all'accumulazione originaria del capitale: «Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale, che usurpano e monopolizzano ogni tappa e i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, dell’alienazione, dell’oppressione, della schiavitù, della degradazione umana e dello sfruttamento, ma cresce anche la resistenza della classe operaia, sempre più numerosa e sempre più istruita, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diventa un ostacolo per il modo di produzione che con esso e sotto di esso è fiorito. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili per il loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.» (Marx 2005, 790 ss. [1996, 381]). Questo passaggio, che per molto tempo ha suscitato nei marxisti quasi un brivido sacro, si inserisce interamente nell'ambito del feticismo del lavoro, storicamente ancora in espansione. La contraddizione sociale appare sotto forma di riduzione sociologica. I "capitalisti" sono sempre meno e i "proletari" sono sempre di più; il marxismo si accontenta di questo semplice calcolo, giudicando male il loro ruolo storico e facendone derivare la propria "vittoria inevitabile". In questa comprensione, a segnare la frontiera del capitalismo non c'è l'abolizione del "lavoro", bensì la sua "socializzazione" a livello elevato. È lo strano e curioso concetto di "monopolio del capitale", quello che dev'essere spezzato, suggerendo così proprio quella volgare idea marxista secondo cui, a dover essere superato, non è la forma del capitale, o il feticcio del capitale in quanto tale, ma piuttosto solamente la sua ingiustificata "monopolizzazione" da parte di una classe sociale. Qui, il concetto di "proprietà privata" diventa estremamente riduttivo; non sembra che sia legato alla forma sociale senza soggetto delle merci, o del denaro, ma a quel "potere di disporre" - soggettivo e sociologicamente definito - che ha un certo gruppo di persone, sui mezzi materiali di produzione. È qui che ascoltiamo il Marx marxista; nessuno dei marxismi si è mai spinto oltre e al di là di questo limite di coscienza. Nei Grundrisse, invece, talvolta Marx torna alla sua originaria e ben più coerente intenzione "esoterica", dove troviamo una visione della fine storica del capitale quasi diametralmente opposta: «Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta — questa loro powerfull effectiveness — non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione.» (Marx 1974, 592 [2011, 941]).  Stiamo apertamente parlando di una situazione storica nella quale i "lavoratori produttivi" non stanno affatto diventando sempre più numerosi, ma anzi la scientificizzazione della produzione li sta rendendo decisamente superflui su larga scala.

La vera fine del capitale è quindi caratterizzata dal fatto che, insieme ai "capitalisti", anche i "proletari", nel senso di attività di riproduzione di massa organizzata dal capitale, stanno diventando sempre meno numerosi, e che entrambe le classi insieme stanno raggiungendo i limiti del loro sistema di riferimento. Qui Marx sospetta qualcosa; e per evitare una netta rottura con l'ontologia del lavoro, cerca di ridurre la questione a una mera superfluità di "lavoro immediato". Ma è possibile includere nel concetto di "lavoro" anche le attività della produzione scientificizzata? Se i Grundrisse fossero stati pubblicati già nel XIX secolo, il marxismo avrebbe dovuto riconoscere come fondamentale tale problema e rifiutare fondamentalmente anche questa affermazione del loro maestro, dal momento che all'epoca il concetto di "lavoro" era ancora fortemente legato alla "attività produttiva immediata". Ma da allora in poi la storia stessa dell'imposizione del "lavoro" ne ha inflazionato anche il concetto; qualsiasi attività o espressione della vita umana viene definita "lavoro". Questa inflazione a livello terminologico esprime la natura totalitaria del sistema "lavoro" che, nel corso del suo sviluppo, ha modificato a sua immagine e somiglianza tutte le sfere differenziate o "dissociate", e ha sfuocato le tracce della sua genesi. Tuttavia, ciò non cambia il fatto che questo sistema si basi oggettivamente su un "lavoro di produzione immediata" ripetitivo e di massa, che può essere trasformato in un enorme potere d'acquisto, e che solo in questo modo rende possibile il ciclo di valorizzazione del capitale. Il concetto di "lavoro" in quanto tale, che è nato solo a partire da questo modo di produzione, sorge e scompare insieme a questo contesto sistemico. Nelle condizioni di un'inflazione socialmente pervasiva del concetto di "lavoro", il marxismo è stato inizialmente in grado di interpretare lo sconveniente problema emerso nei Grundrisse grazie a qualche contorsione, nella misura in cui lo ha in qualche modo recepito e archiviato. Il fatto che il "lavoro produttivo" stesse sempre più diminuendo, e non aumentando, e che venisse reso superfluo dalla scientificizzazione, venne accantonato come un futuro lontano e fantascientifico, ben oltre la "rivoluzione proletaria" (comunisti) o la "trasformazione socialista" (socialdemocratici), e ciò nonostante Marx affermasse il contrario. Tuttavia, in un futuro storicamente prevedibile, il processo di scientificizzazione dovrà, se possibile, proseguire a un ritmo così lento da ridurre ulteriormente il "lavoro", anziché renderlo superfluo. In questo modo, nel frattempo, la vecchia idea marxista della fine del capitale sembrava essersi definitivamente consolidata. Rimaneva il piccolo problema di come trasferire l'ontologia del "lavoro", intesa come presunta "eterna necessità naturale", in un lontano futuro post-capitalista. A questo proposito, i marxisti trovarono anche in Marx ciò che stavano cercando. Il "lavoro" andava ridotto, in quanto supposta "necessità", a sempre più piccole briciole per tutti. Il marxismo non si poneva nemmeno il problema di come si potesse ancora ricavare un'ontologia del "lavoro" a partire da un residuo che stava scomparendo, né prendeva in considerazione l'idea che il "lavoro", anziché essere ridotto a un residuo sempre più piccolo (a cui il feticismo del lavoro avrebbe dovuto aggrapparsi), potesse invece venire reintegrato nel processo vitale a un livello superiore, e quindi abolito come sfera differenziata e astratta. Viceversa, la "sovrastruttura" di un "regno della libertà" sarebbe stata costruita sull'assurdo "fondamento" di una quantità residua sempre più piccola di "lavoro necessario", su cui l'umanità avrebbe potuto indulgere nella risoluzione di cruciverba o di piaceri ancora più elevati. Qualcuno particolarmente audace voleva addirittura definire questo dominio come "lavoro", però come un suo lato ludico, per così dire (nel senso dell'utopico Fourier, per esempio). E le "donne" sarebbero state gentilmente accettate in questa utopia maschile del lavoro su un piano di "parità", pur nella segreta consapevolezza che l'intera costruzione resta sempre strutturalmente definita in termini maschili.

La Crisi reale della Società del Lavoro
Il fallimento dell'ideologia marxista è dovuto proprio al fatto che si sta avvicinando la fine del capitale, e pertanto anche quella del feticismo del lavoro nella seconda versione male interpretata di Marx. Come è noto, è stata la rivoluzione microelettronica, con le sue nuove tecniche di controllo, automazione e razionalizzazione, a rendere per la prima volta superflua una quantità di "lavoro" superiore a quella riassorbibile dai mercati in espansione. Secondo uno studio recentemente pubblicato a Washington dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) di Ginevra, la disoccupazione mondiale ha raggiunto proporzioni storicamente senza precedenti: « In seguito alla più grande crisi del mercato del lavoro, iniziata dopo la depressione degli anni '30, all'inizio del 1994 c'erano 820 milioni di disoccupati in tutto il mondo, pari al 30% dell'intera forza lavoro» (Handelsblatt, 7.3.1994). Questo significa che finalmente è stata raggiunta una fase in cui il "lavoro produttivo" si sta inesorabilmente riducendo a seguito del processo di scientificizzazione. Né l'apertura di nuove aree di attività nel "settore terziario" né le campagne per combattere i bassi salari possono cambiare questa situazione: le prime sono in gran parte settori dipendenti che derivano direttamente dal processo di scientificizzazione e che rimangono indirettamente subordinati ai redditi industriali; mentre le seconde si traducono in delle offensive unilaterali di esportazione, le quali, attraverso una concorrenza predatoria, possono solo aggravare la crisi globale. Non è quindi un caso che, dall'inizio degli anni '80, con l'avanzare della razionalizzazione, si parli periodicamente di "crisi della società del lavoro". Tuttavia, questo discorso è valido solo se la "società del lavoro" viene intesa come identica al rapporto di capitale. Infatti, “capitale” e “lavoro” sono solo due facce della stessa medaglia. Qualsiasi logica basata sulla formula pars pro toto deve necessariamente spingersi ad absurdum. Esattamente allo stesso modo in cui era illusorio ammettere che con il socialismo di Stato il “lavoro” avrebbe trionfato in maniera unilaterale sul “capitale” e avrebbe “continuato a funzionare” da sé solo, senza auto-superarsi, è altrettanto illusorio, e anche di più, vedere il “lavoro”, razionalizzato, precipitare in maniera unilaterale nella crisi, laddove invece il “capitale” continuerebbe ad accumularsi. In entrambi i casi, la reciprocità di tale relazione viene valutata in modo errato. Il rovescio della medaglia della disoccupazione strutturale di massa è inevitabilmente la fine strutturale dell'accumulazione di capitale. Sul piano empirico, questo problema appare come il tracollo globale del potere d'acquisto delle masse, che è tuttavia l'ultima istanza mediatrice del ciclo di valorizzazione. Pertanto, il capitale ha cominciato a dissolvere la propria sostanza sociale. Sebbene questo limite possa essere posticipato mediante il credito di Stato, con la creazione di denaro speculativo, attraverso l'inflazione dell'emissione monetaria e le crisi del debito, ciò non può essere fatto a lungo termine ed è possibile solo a costo di crisi finanziarie. Ciò è esattamente quello che il marxismo, nella sua ideologia, non si aspettava, e non avrebbe mai potuto aspettarsi. La presunta ontologia del “lavoro” collassa proprio all'interno dello sviluppo capitalistico. Il “lavoro” perde il suo potere di generalizzazione sociale, persino nella sua forma reificata del denaro. Di conseguenza, si degrada anche la coscienza fondata su di esso, in particolare la coscienza marxista. Il “lavoro” perde la sua dignità; oramai non può più essere ideologicamente canonizzato in quanto creatore di ciò che è essenziale per la vita. Al contrario, è proprio nella sua crisi che si rivela essere una macchina sociale che funziona alla cieca, incapace di dare un senso a qualcosa di diverso dal suo tautologico fine in sé stesso, che trasforma il “lavoro” in altro “lavoro”, e insieme ad esso il denaro in altro denaro. Così facendo, finisce per produrre la distruzione del mondo in sé e per sé. Simultaneamente, emerge la crisi di una differenziazione come sfera astratta e separata. L'universo maschile della modernità sta collassando. Quei settori dissociati che erano stati delegati alle donne cominciano a dissolversi, dal momento che le nuove forze produttive consentono alle donne di prendere sempre più le distanze dai loro ruoli e confluire così nella sfera ufficiale del sistema “lavoro”, proprio nel momento in cui esso è arrivato alla sua fine. In questo modo non solo si intensifica la concorrenza sui mercati del lavoro che stanno crollando, ma si abbandonano e decadono anche quelle aree di attività precedentemente dissociate che non possono essere integrate nel processo di creazione di denaro proveniente dal “lavoro” ( compresa la cura dei bambini, la cura degli anziani, l'affetto, l'“amore”, ecc.) All'origine di questa “crisi delle relazioni” sociali globali, non c'è l'emancipazione delle donne in sé, quanto piuttosto la struttura stessa del sistema del “lavoro” maschile, il quale presuppone la dissociazione socio-sessuale come sua base funzionale segreta, ma che ora però non è più in grado di mantenere. La speranza di poter organizzare a livello pubblico, come “lavoro”, o addirittura commercializzare gli ambiti dissociati si rivela un'illusione. È qui che appare in tutta la sua evidenza il carattere subordinato del settore terziario o dei servizi: se nel socialismo di Stato sono crollate le sovvenzioni monetarie per le strutture pubbliche di assistenza all'infanzia, anche nelle società occidentali del “lavoro” le istituzioni corrispondenti (o le loro mere promesse) stanno fallendo per mancanza di fondi. Tuttavia, al di là del problema dell'inadeguatezza psicologica e dell'alienazione, queste attività possono essere commercializzate solo per una piccola minoranza che può permettersele. Tutto ciò dimostra come non sia assolutamente possibile un'emancipazione basata sul “lavoro”. A tal proposito, la duplice crisi dell'economia del “lavoro” e della relazione di genere sottolinea come il sistema di riferimento comune sia ormai finito.  Il problema è già stato, in una certa qual misura, formulato, sebbene ancora da voci isolate, anche nella teoria femminista: «L'espandersi del concetto di lavoro ha permesso di rendere cosciente e concreto, a parole, il peso delle donne. Tuttavia, l'espansione del concetto di lavoro ha incontrato i suoi limiti, che sono stati espressi mediante dei mostri verbali come “lavoro relazionale” o “lavoro emozionale”. Queste parole fittizie si servono con intento critico dell'analogia con il concetto di lavoro, rischiando pertanto di ridurre le condizioni umane a quelle del lavoro [...]. Ma è stato proprio il dibattito serrato sul contenuto del lavoro domestico a rendere evidenti i limiti delle analogie con il concetto di lavoro [...]. Le proposte riflettono una discussione troppo ristretta sull'emancipazione, che si concentrava in maniera troppo unilaterale sul lavoro e sottoponeva subdolamente le donne all'etica ascetica del lavoro protestante» (Eckart 1988, 206ss.). Partendo da questa problematizzazione, basta un passo per arrivare al rifiuto totale di un concetto positivo e perenne del “lavoro”; che il femminismo aveva ereditato anche dai marxisti: «In questo senso, il movimento delle donne non ha nemmeno bisogno di ridefinire l'attività femminile come "lavoro" per dimostrarne il valore (morale ed economico); perché il "lavoro" inteso in tal senso è, per così dire, la "radice di tutti i mali"»(Scholz 1992, 20). Ciò non significa che le aree di attività attribuite al “femminile” debbano essere affermate come tali o costituiscano addirittura una sorta di manifestazione di trascendenza, dal momento che esse non rappresentano altro che l'inverso del “lavoro” astratto. Il fatto per cui il concetto di “lavoro” si sta indebolendo e disintegrando è emerso chiaramente anche nel dibattito ecologico e in quello sulla riduzione dell'orario di lavoro, oltre che in alcuni settori (seppur minoritari) del femminismo. Il problema, tuttavia, è che in genere non si vede un collegamento sistematico con la crisi del capitale e quindi con quella della mediazione del denaro. Il marxismo è, ovviamente, il meno adatto a stabilire questo nesso. La sua sostanza ideologica si esaurisce nell'idea che si trova ancora contenuta nel punto 8 delle misure dirette proposte nel Manifesto comunista: «Lavoro obbligatorio uguale per tutti, creazione di eserciti industriali» (Marx; Engels 1990, 481). Nella misura in cui i marxisti non hanno disertato in massa l'economia di mercato occidentale, oggi riproducono questo feticismo storico del lavoro in maniera ancora più militante. Quello che qui viene scoperto, non è “l'altro” Marx, per il quale il “lavoro” avrebbe potuto essere decifrato come una “pedagogia della storia”, storicamente temporanea, con l'obiettivo di liberare la ricchezza sociale, per poi essere abbandonato; ma si tratta solo della parzialità che, sotto questa forma, rimane pietrificata nella sua inconsapevolezza. Al giorno d'oggi, non c'è nessuno che si aggrappi ferocemente a una fantomatica immaginaria capacità di accumulazione del capitale e ancor più eterna, di quanto non facciano i residuati del marxismo demoralizzato. Ciò non è in alcun modo un riflesso delle precedenti previsioni di crollo che non si sono concretizzate, e che comunque (nella misura in cui esistevano) venivano sempre formulate in termini di ontologia del lavoro. Al contrario, questa aspettativa quasi avida di un nuovo “modello di accumulazione” rivela qual è l'identità interna delle opposizioni del tempo. Lo stesso vale anche per i corpi fossilizzati del vecchio movimento operaio. Lo slogan della Confederazione dei sindacati tedeschi per il 1° maggio 1994 consisteva in una sola parola, anzi, in realtà un grido: “Lavoro!”. E lo slogan della SPD nell'anno delle super-elezioni del 1994 ha triplicato questo grido: “Lavoro! Lavoro! Lavoro!”. Ecco perché nel marzo 1994 i sette maggiori Paesi industrializzati dell'Occidente hanno tenuto un inconcludente “vertice sull'occupazione”; significativamente nell'ex metropoli automobilistica di Detroit.

La fine della moderna società del lavoro, che corrisponde anche alla logica fine della valorizzazione del capitale, trova ovviamente un momento di stallo in tutti gli schieramenti ideologici della modernità. Mentre le posizioni della sinistra alternativa rimangono irrimediabilmente impigliate nelle categorie del feticismo del lavoro, e continuano a voler rappresentare “l'utopia” nella forma monetaria reificata del “lavoro”, le estese paludi terminali del movimento operaio si esauriscono in un programma di emergenza del tutto irrealistico per quanto riguarda l'ideologia del “lavoro” non adulterato.D'altra parte, le posizioni dominanti del mercato neoliberista e radicale nel mondo accademico e i vecchi partiti borghesi condividono l'ideologia di base dell'ontologia del lavoro, ma vogliono rappresentare il "lavoro" (secondo la logica reale del sistema, che è la sua forza) solo al livello degli standard microelettronici di produttività e di redditività. Vogliono cioè isolare una massa crescente di persone dalla loro riproduzione della vita, facendolo secondo la "legge naturale" dell'economia di mercato, scrollando le spalle con rammarico e relegandoli così nel ghetto della miseria.È da questa paralisi che proviene il risorgere spettrale di una terza forma di feticismo borghese del lavoro, vale a dire, gli zombie della neo-destra, neo-patriottici e neo-nazionalisti. Questo strano ritorno viene nutrito da un'assurda promessa che non può essere mantenuta nelle attuali condizioni del mercato mondiale, ovvero la falsa speranza di poter ricostituire delle forme sistemiche di “lavoro” su base nazionale se non addirittura etno-tribale. La musica che accompagna questa promessa è rappresentata dall'impotente invocazione delle antiche “virtù” conservatrici, da tempo logorate dal processo corrosivo del mercato stesso; e questo come se la crisi globalmente oggettivata dell'economia del “lavoro” (ciecamente assunta) potesse essere contrastata e superata grazie a campagne ideologiche etiche e nazionali. Ciò significherebbe voler cancellare la grande conflagrazione di quel supermercato (che è diventato il mondo) grazie ai ricordi nostalgici legati alle botteghe d'angolo, agli inni al Kaiser Guglielmo (o peggio) e alle pie preghiere. Proprio allo stesso modo in cui il programma neoliberista si riduce a essere solo una perversa amministrazione democratica della miseria, vediamo che il programma neo-nazionalista - in quanto mera forma decadente di un'altra ideologia storica del “lavoro”, altrettanto sostanzialmente “finita” quanto quella del marxismo - non è altro che una guerra tra bande pseudo-etniche e scoppi irrazionali di delirio pseudo-politico. In questo modo, possiamo così vedere che la fine del marxismo corrisponde anche alla fine del capitalismo, e la fine della sinistra è anche la fine della destra e dei liberali. A decadere inesorabilmente, è il sistema di riferimento comune del “lavoro”, la struttura unilaterale “maschile”, e quindi la totale mediazione sociale del denaro. Ora la questione non riguarda più quale delle passate, e tutte obsolete, ideologie del “lavoro” vincerà; ma se il terreno comune potrà essere superato. Quindi, la questione è, in primo luogo, se le persone possono di nuovo intraprendere attività di riproduzione autonome al di là del mercato e dello Stato (cioè al di là del “lavoro” e del denaro) e, in secondo luogo, se i potenziali della socializzazione ( capitalistica) e le potenzialità scientifiche prodotte dal “lavoro” potranno essere trasformate al di là del sistema del “lavoro”. Il problema non è la presunta minaccia proveniente dalla fantasmatica figura negativa comune al feticismo marxista, liberale e nazionalista di destra del lavoro, né il famigerato "parco divertimenti collettivo" fantasticato dai conservatori di oggi, ma il disaccoppiamento dell'attività della vita e della riproduzione umana dal feticcio fine a se stesso del "lavoro" e la reintegrazione di questa sfera astrattizzata e autonoma nell'intero processo della vita. L'abolizione del "lavoro", inteso in questo modo, sarebbe anch'essa identica all'abolizione dei moderni ruoli di genere. E' solo quando le persone, organizzate in nuove forme di comunicazione comunitaria, avranno ripreso il controllo della propria vita in relazione ai poteri oggettivati, anonimi e ormai insostenibili di alienazione dello Stato e del mercato, che saranno in grado di interrogarsi, senza pregiudizi, su ciò che intendono fare, materialmente e sensibilmente, con le forze produttive lasciate dal feticismo storico del lavoro. senza distruggere il mondo o distruggere se stessi.

- Robert Kurz - Original “Fetisch Arbeit – Der Marxismus und die Logik der Modernisierung” in revista exit! no 20, 2023, p. 24-40.

giovedì 22 agosto 2024

Un mondo meglio di così…

Il volume, frutto di una estesa ricerca d’archivio, analizza le formazioni riconducibili a quella peculiare area politica che è stata la sinistra rivoluzionaria italiana fra gli anni Quaranta e Settanta del Novecento. L’anarchismo e le dissidenze antistaliniste “storiche” hanno dato vita a esperienze organizzative significative che, a contatto con le lotte sociali e anticoloniali, hanno saputo intercettare le tensioni generazionali e politiche affiorate negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento. Già prima del Sessantotto sono nate così nuove strutture di matrice antiautoritaria, operaista, marxista-leninista, e/o antimperialista, che hanno raggiunto il loro apogeo nella prima metà del decennio successivo per entrare poi rapidamente in crisi, strette tra il fenomeno della lotta armata, il disimpegno politico e l’emergere di altri bisogni e antagonismi (femminismo in primis).

(dal risvolto di copertina di: EROS FRANCESCANGELI, «Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978) VIELLA Pagine 361,  €32)

La strana sparizione di Toni Negri
di ANTONIO CARIOTI

Il Sessantotto non fu «una sorgente», bensì «una conseguenza» dell’attività svolta in Italia dall’estrema sinistra, poiché gruppi preesistenti, della più svariata matrice ideologica, «prepararono e plasmarono a loro misura» la contestazione giovanile. È questa la tesi più significativa e originale sostenuta da Eros Francescangeli nel saggio «Un mondo meglio di così» (Viella), dedicato alla vicenda della sinistra rivoluzionaria nel nostro Paese. L’autore prende dunque le mosse da molto tempo prima del Sessantotto, dal contributo che gruppi anarchici e comunisti eretici diedero alla lotta di Liberazione, per poi tracciare una mappa particolareggiata delle varie correnti che si muovevano a sinistra del Pci. È tutto un fiorire di gruppi e gruppuscoli — bordighiani, trotskisti, libertari, dal 1956 in poi anche stalinisti e maoisti — con frequenti scissioni e ricomposizioni non facili da seguire. Sono due comunque le tendenze che si presentano puntuali all’appuntamento con la grande turbolenza di fine anni Sessanta: gli operaisti, convinti dalla necessità di puntare sullo spontaneo ribellismo della classe lavoratrice più insofferente alla disciplina di fabbrica, e i maoisti, dediti a una rigida militanza settaria. Si aggiungeranno il gruppo del «Manifesto», radiato dal Pci, e quella parte dei socialisti di sinistra del Psiup che sceglierà di non confluire nel partito di Enrico Berlinguer: insieme, ma muovendosi quasi da separati in casa, costituiranno il Pdup, forza dalla vita piuttosto travagliata. La parte più interessante del lavoro di Francescangeli, che ha deciso di non trattare il fenomeno della lotta armata clandestina, riguarda Lotta continua, il movimento di maggior spicco scaturito dal filone operaista. Il libro ne segue con attenzione le diverse svolte: il passaggio dal primato delle lotte in fabbrica alla conflittualità diffusa sul territorio all’insegna dello slogan «prendiamoci la città»; l’esaltazione della «violenza proletaria» sfociata in azioni come l’omicidio Calabresi, sulla cui matrice l’autore non mostra dubbi; la successiva presa di distanza dall’estremismo armato; la crisi determinata dalla rivolta delle donne contro il maschilismo dei vertici. Nel 1976 il congresso di Rimini vede Lotta continua in preda a «profonde e irreparabili lacerazioni interne» che ne determinano di fatto lo scioglimento. Esso non fu però, secondo Francescangeli, la «decisione dettata da senso di responsabilità» di cui parlano i reduci di quell’esperienza. Semmai il gruppo dirigente preferì lasciare «più o meno deliberatamente alla deriva» un’organizzazione diventata ingovernabile. Nel frattempo però, anche per effetto del movimento del 1977, cresceva il fenomeno dell’Autonomia operaia, che Francescangeli stranamente trascura: nessuno spazio trova nelle sue pagine l’operato di Toni Negri successivo alla dissoluzione di Potere operaio nel 1973, né si occupa del caso 7 aprile. All’indomani della scomparsa del professore padovano, da alcuni celebrato come un faro del pensiero, è una lacuna che lascia perplessi.

- Antonio Caroti -  Pubblicato su La Lettura del 24/12/2023 -

mercoledì 21 agosto 2024

Contro “I Sonnambuli” !!

Sloterdijk (in "Luftbeben: An den Quellen des Terrors", 2002 ["Terrore nell'aria". 2007, Meltemi Editore]) commenta il cambiamento di paradigma che è stato stabilito dalla guerra, nel XX secolo: l'ambiente esterno (la natura, l'aria, l'atmosfera) non è più garanzia di respiro e di tranquillità (come lo era per Nietzsche, Heidegger o Robert Walser, ad esempio), ma, al contrario - con l'avvelenamento generalizzato assicurato dalle tecnologie di guerra, ora "dissacrate" da un uso civile –, ora l'ambiente è sempre ostile, e l'individuo si trova sempre impegnato in quello che è uno sforzo permanente per costruire degli ambienti artificiali che lo possano proteggere, temporaneamente, dall'ambiente esterno. In simili condizioni, il sistema immunitario diventa così un argomento di discussione: «allorché, in maniera latente, tutto quanto può essere contaminato e avvelenato» - scrive Sloterdijk – «quando tutto è potenzialmente ingannevole e sospetto, ecco che dalle circostanze esterne non possono essere dedotte né la totalità né la possibilità di “essere un Tutto”. L'integrità non può più essere pensata come un qualcosa ottenuto attraverso la devozione nei confronti di un'ambiente benevolo, ma piuttosto solo come lo sforzo individuale di un organismo che si distingue dal suo ambiente. Ciò apre la strada a un nuovo campo di pensiero, tipico della contemporaneità: l'idea secondo cui la vita insiste non tanto sul suo “esserci”, espresso per mezzo della sua partecipazione al tutto, quanto piuttosto sulla sua stabilizzazione, attuata per mezzo della “chiusura di sé” e del rifiuto selettivo di partecipare.»

Poco prima di queste sue conclusioni finali, Sloterdijk fa riferimento a un saggio di Elias Canetti del 1936, in origine una conferenza in onore del 50° compleanno di Hermann Broch. «Tra le due guerre, Broch emerge come il poeta del nostro tempo», scrive Canetti, emerge come il poeta attento all'atmosfera, attento a quel cambio di paradigma di cui parla Sloterdijk (cosa che egli sottolinea, non solo per il contenuto della sua esposizione, ma proprio anche in quanto parte dalla scelta formale di collocare Canetti/Broch in un unico stesso saggio: allo stesso modo in cui Canetti legge in Broch una sensibilità profetica, un'attenzione all'ostilità dell'ambiente, che in lui sarebbe scattata solo anni dopo. Per cui, Broch denaturalizza l'immediatezza dell'ambiente, il suo carattere ancora non pensato, e lo fa parlando di quel «sonnambulismo» che contraddistingue e segna tutti coloro che non riconoscono ancora l'ostilità dell'ambiente.      

martedì 20 agosto 2024

«Colui che pensa in ritardo»…

Il primo tomo della serie La tecnica e il tempo rappresenta con tutta probabilità non soltanto l’atto di nascita filosofica di Bernard Stiegler in quanto suo libro d’esordio, testo fondativo e programmatico, ma anche una delle ultime – e tra le più importanti – grandi operazioni teoriche originali della filosofia novecentesca, in grado di traghettare quest’ultima verso le questioni tecno-logiche del ventunesimo secolo. A farne un hit filosofico concorrono tre elementi principali. Innanzitutto, i temi e le questioni mobilitati, per i quali da un lato il titolo, nel suo detournare Essere e tempo di Heidegger, pare preciso al di là di ogni suggestione, mentre dall’altro lato la rilettura e concatenamento originali di Bertrand Gille (storia dei sistemi tecnici), della paleoantropologia di André Leroi-Gourhan, dei processi d’individuazione di Gilbert Simondon, dell’antropologia filosofica di Rousseau e della fenomenologia husserliana del tempo interno alla coscienza riescono a offrire una storia dell’ominazione (l’antropogenesi come tecnogenesi) inedita e alternativa tanto al culturalismo quanto ai determinismi biologici o tecnologici. Inoltre risultano fondamentali tanto la singolare e, appunto, originale declinazione della decostruzione derridiana e della différance quanto il rapporto tra il contenuto del libro e il momento storico in cui viene pubblicato, ossia l’anno del web, che rappresenterà uno spartiacque culturale, epistemologico, sociale e politico, di cui la filosofia contemporanea, salvo rarissime eccezioni, non riuscirà per almeno un paio di decenni a prendere le misure – rivelandosi letteralmente epimeteica, proprio nel senso che Stiegler riprende dal mito di Epimeteo, “colui che pensa in ritardo”. E ciò che la filosofia pensa in ritardo, per difetto, o addirittura non pensa è la tecnica.  (Paolo Vignola)

L’invenzione dell’uomo: senza indulgere in essa, l’ambiguità del genitivo indica una domanda che si divide in due. “Chi” o “cosa” inventa? “Chi” o “cosa” è stato inventato? L’ambiguità del soggetto, e allo stesso modo l’ambiguità dell’oggetto del verbo (inventare), non traduce altro che l’ambiguità del significato di questo stesso verbo. La relazione tra il “chi” e il “cosa” è l’invenzione. A quanto pare, il “chi” e il “cosa” si chiamano rispettivamente uomo e tecnica. Tuttavia l’ambiguità del genitivo ci impone almeno di chiederci: e se il “chi” fosse tecnico? E se il “cosa” fosse l’uomo? Oppure dobbiamo andare al di qua o al di là di qualsiasi differenza tra un “chi” e un “cosa”? […] Il movimento contenuto nel processo di esteriorizzazione è paradossale nella misura in cui Leroi-Gourhan dice in effetti che è lo strumento, cioè la techne, che inventa l’uomo, e non l’uomo che inventa la tecnica. O ancora: l’uomo inventa se stesso nella tecnica inventando lo strumento – “esteriorizzandosi” tecno-logicamente.

(dal risvolto di copertina di: BERNARD STIEGLER, La colpa di Epimeteo. La tecnica e il tempo #1. A cura di Paolo Vignola, traduzione di Claudio Tardini LUISS UNIVERSITY PRESS Pagine 335, € 32)

La modernità? Solo un equivoco
- di Carlo Bordoni -

  Più che di Prometeo, il semidio che donò il fuoco agli uomini, siamo i discendenti di suo fratello Epimeteo. Dei suoi errori, delle sue fragilità, della sua disattenzione. La colpa di Epimeteo è il titolo del primo volume della trilogia La tecnica e il tempo di Bernard Stiegler (Luiss University Press), la cui edizione originale risale al 1994. Il filosofo francese, prematuramente scomparso nel 2020, parte dal presupposto che la filosofia e la scienza, cioè l’episteme, abbiano operato una sorta di repressione della tecnica, lasciandola in secondo piano e ignorandone la componente umana. Appare evidente, invece, come tutta la storia umana sia fondata sulla tecnica e sulla sua implementazione in nome del progresso. La scienza stessa è stata «usata» dall’esigenza di sviluppare la tecnica al fine di migliorare le condizioni esistenziali dell’uomo. È quello che si può definire l’equivoco primigenio: aver tratto vantaggio dalla tecnica, dando alla scienza il compito nobile, ma teorico, di garantire la sua efficacia. Scienza e filosofia, assieme, hanno rappresentato perciò il grado superiore di civiltà, restando al livello dell’astrazione, della concettualizzazione o, se vogliamo, della spiritualità, lasciando alla tecnica il «lavoro sporco», il compito di soddisfare le esigenze umane. Del resto la tecnica è inerente all’uomo, rappresenta la sua chance di sopravvivenza in un mondo ostile. È parte del suo mondo fin dalle origini. Così tanto necessaria da costituire da sempre la spinta in avanti, a progredire, a fornire le opportunità di crescere, alimentarsi, costruire, difendersi, adattarsi al mondo naturale e poi a modificarlo secondo le proprie esigenze. La stessa filosofia, nella seconda metà dell’Ottocento, è stata piegata all’applicazione della tecnica: la sociologia nasce in fondo come una riduzione della filosofia alle nuove esigenze tecnologiche. È la tecnologizzazione dell’episteme, la sua razionalizzazione strumentale. Infatti usa pratiche tecniche, come la statistica, la doxa, la raccolta delle opinioni, il calcolo delle probabilità, per raggiungere i suoi scopi. Che sì sono scopi di conoscenza della realtà, ma anche di controllo sociale. Benché questo elemento sia difficile da ammettere, il discorso sociologico nasconde sempre un fondo di ordine e di rassicurazione, una base di osservazione e di elaborazione dei dati utili a conoscere per prevedere, per scegliere, per indirizzare. Talvolta anche per condizionare. La tecnica, come tutti i saperi applicati, è uno strumento di dominio che si adatta perfettamente al più vasto progetto universale di dominare il mondo: il grande desiderio che l’umanità ha sempre coltivato e che la tecnica, nella sua continua evoluzione, ha consentito. Il dominio sulla natura, soprattutto.

Ora che la modernità — periodo storico in cui il dominio sulla natura è stato largamente esercitato — è in crisi, l’ansia di dominio si è spostata sulla tecnologia, divenuta così complessa da far temere che possa diventare controllabile. Si ripete in tal modo lo stesso processo che aveva caratterizzato, alle origini del pensiero moderno, la grande svolta per il dominio sulla natura attraverso l’innovazione tecnologica. Il tutto a partire dall’errore di Epimeteo, «colui che pensa in ritardo». Ma anche dalla falsa convinzione che i sistemi epistemici (filosofia e scienza) siano sempre stati prevalenti. Lo sono stati per un lungo periodo: abbiamo vissuto credendo nel loro primato, mentre la tecnica procedeva grazie al loro apporto: utilizzandone le scoperte, le intuizioni, la capacità di calcolo, di astrazione, di creazione, di teorizzazione, di sperimentazione, per trarne strumenti per costruire, produrre, muoversi, comunicare. La modernità, pur senza proclamarlo esplicitamente, ha fatto della tecnica il suo strumento per ordinare il mondo secondo i suoi principi, la sua concezione di sviluppo e di controllo sociale. Perché è palese che l’idea di modernità comprendeva non solo il dominio della natura, ma anche quello dell’uomo, intendendo l’uomo come parte della natura. Un progetto grandioso che aveva in origine uno scopo positivo: garantire l’ordine, la razionalità dei comportamenti e dei diritti, la convivenza, la ricchezza (di pochi) e la sussistenza (di molti). Il che comprende anche la distinzione dei ruoli sociali, secondo una precisa regolamentazione che mantenesse un equilibrio considerato «naturale». I termini natura e naturale hanno rappresentato il grande equivoco della modernità, che ha portato alle conseguenze che la storia ci ha consegnato. Se, come afferma Stiegler, la «tecnica è l’impensato», o una componente sottovalutata rispetto all’episteme, è pur vero che è un dato di fatto. È una condizione. Non prevede il pensiero, ma l’azione. Infatti, una volta approntata, richiede l’utilizzo senza l’apporto del pensiero, se non quello attuativo da manuale di istruzioni. Così come si guida l’auto o si guarda la televisione. Non si pensa l’auto, né la televisione. Eppure l’auto e il televisore, come tutte le altre tecnologie d’uso comune — ultimo è l’immancabile smartphone — determinano i nostri comportamenti, condizionano le nostre esistenze: siamo quello che facciamo con la tecnologia. Se improvvisamente ci togliessero tutto ciò che è tecnologico (come nel vecchio romanzo dello scrittore britannico Samuel Butler, Erewhon, del 1872) e ci lasciassero soltanto l’episteme, saremmo perduti. Forse qualche sopravvissuto di buona volontà — malgrado il freddo e la fame — potrebbe ripartire da zero con grande fatica.

- Carlo Bordoni - Pubblicato su La Lettura del 24/12/2023 -

lunedì 19 agosto 2024

Lo spirito dell’era autoritaria !!

SPOSTAMENTO A DESTRA E RIBELLIONE CONFORMISTA

È stato almeno dalla metà degli anni 2010, e dall'elezione di Trump, che in tutto il mondo si è assistito a un enorme spostamento a destra. Dopo che il crollo del 2008 era stato attutito grazie ai pacchetti di salvataggio, quello che inizialmente è venuto dopo, è stato un periodo di calma. A tal proposito, Robert Kurz ha parlato di “crisi mondiale e ignoranza”. E a quel punto le cose si sono complicate, anche in Germania. In seguito ai movimenti dei rifugiati, a metà del decennio del 2010, ad attirare parecchio l'attenzione è stato "Pegida" e l'AfD, il quale era già stato fondato precedentemente e allora si trovava in costante ascesa nei sondaggi, radicalizzandosi sempre di più. A peggiorare ulteriormente le cose, è arrivato il coronavirus: a quel punto, il pensiero trasversale e le teorie cospirative già esistenti si sono espanse e hanno continuato sempre più la loro espansione, persino e soprattutto a sinistra. Si è trattato del culmine di uno sviluppo già iniziato con “Rostock-Mölln-Solingen” nei primi anni Novanta, se non di fatto negli anni Ottanta. Anche la guerra in Ucraina e l'attacco di Hamas nei confronti di Israele, hanno provocato delle distorsioni a livello di opinioni. Ciò che dopo il 7 ottobre 2023 sta continuando ad aumentare, è il razzismo, il sessismo, l'omofobia e la transfobia, ma soprattutto l'antisemitismo e l'antiziganismo. Le posizioni di sinistra sono ora marginalizzate. E sebbene Bolsonaro sia stato sostituito da Lula, e in Francia abbia prevalso l'alleanza di sinistra, il partito di Le Pen ha ottenuto il suo miglior risultato di sempre, e secondo i sondaggi l'AfD ha il 17%, e sarebbe pertanto la seconda forza nel Bundestag; e tutto questo nonostante le grandi manifestazioni contro la destra avvenute all'inizio del 2024. Se le politiche di sinistra dovessero fallire - com'è prevedibile - c'è da temere che il pendolo torni a oscillare nella direzione opposta. La tendenza che spinge a destra non si è affatto interrotta, tanto più che i partiti borghesi stanno ora di fatto adottando sempre più oggettivamente dei programmi della destra (espulsioni, tagli alla spesa sociale, ecc.), e che ora vengono assunti come parte costitutiva di quella che appare come una gestione della crisi portata avanti secondo una retorica democratica. Tutto ciò indica che ad aver raggiunto i propri limiti è la “politica” stessa, ciò poiché le crisi attuali non possono più essere gestite in maniera immanente, mentre la democrazia sta divorando i suoi figli. Allo stesso tempo, vediamo che alcuni esponenti della sinistra si rivolgono nuovamente al “popolo”, e lo fanno a partire da quelli che sono i suoi stretti bisogni di normalità, ed è così facendo che intendono rappresentare gli interessi di questo popolo. Nel declino del capitalismo, le tendenze regressive e autoritarie sono ormai visibili dappertutto, anche a sinistra. Ed è per questo che i cosiddetti "gruppi rossi", che rivendicano il loro legame col marxismo tradizionale, oggi stanno nuovamente guadagnando popolarità. Completamente staccati dalla realtà, sperano cosi di riuscire a porre fine alla crisi. Nel seminario Exit! di quest'anno, vogliamo pertanto analizzare la svolta a destra e cosiddetta ribellione conformista, ovvero "lo spirito dell'era autoritaria".

Venerdì 27/9/24, 19.00: Leo Roepert: Fuga nel mito. Sul rapporto tra la crisi e la “svolta a destra”
Di fronte alla continua ascesa dell'estrema destra e del populismo di destra, sia il “centro borghese” che la sinistra sono impotenti. È proprio nei dibattiti di sinistra, in particolare, che si tende a banalizzare il populismo di destra come se si trattasse di una protesta, sbagliata ma tuttavia fondamentalmente comprensibile, contro il neoliberismo e contro la post-democrazia; ed è per questo motivo che, come antidoto a ciò, l'appello al populismo di sinistra sta diventando sempre più popolare. Ma per quanto questi tentativi di comprendere, da parte della sinistra, riconoscano correttamente l'esistenza di un legame tra la crisi e la “svolta a destra”, manca tuttavia la capacità di percepire la natura negativa della crisi, insieme alla dinamica irrazionale e distruttiva propria e connaturata alla coscienza borghese della crisi, la quale si esprime e si concretizza proprio nei nuovi miti di destra. La giornata ha inizio a partire da una panoramica sugli attuali dibattiti teorici relativi alla “svolta a destra”, mostrando poi il modo in cui il razzismo, le idee di identità di genere, che nella destra populista ed estremista forniscono, insieme ai miti che parlano di decadenza e cospirazione, un'interpretazione della crisi che evita di esaminare e analizzare le sue cause economiche, in modo da poter così consentire di continuare a mantenere l'identificazione con l'esistente. Pertanto, la crisi appare come se fosse una cospirazione di forze oscure, un indebolirsi dell'identità e della comunità, e come una sorta di dominio da parte degli stranieri. Tutto ciò fornisce anche un'opzione a favore di un'azione distruttiva e autoritaria: l'eliminazione dei nemici, il capovolgimento delle condizioni di “decadenza” e la restaurazione dei valori e dei principi “eterni” di ordine.

Sabato 28/9/2024, 10.00-12.30: Tomasz Konicz: Il populismo di destra e il fronte trasversale   
Nel corso della giornata, il fascismo schiumante e il fronte trasversale del XXI secolo, verranno presentati come delle ideologie di crisi, che, in un certo qual modo, costituiscono una reazione ideologica all'aggravarsi della crisi socio-ecologica, dove appaiono quali sono i limiti interni ed esterni sempre più evidenti del Capitale. Il fascismo, va pertanto inteso come la forma che ha assunto la crisi del dominio capitalista, e che conduce alla barbarie. Al fine di poter chiarire quali sono le linee di continuità che - passando per la brutalizzazione e finendo nella barbarie basata sull'ideologia neoliberale e sulle identità nazionali del tardo capitalismo - conferiscono alla nuova destra e al populismo di destra quello che appare essere come un sostegno da parte della massa, verrà dato più spazio ai concetti di "estremismo di centro" e di "ribellione conformista". E verrà anche discussa concretamente la base economica del fascismo, la quale proprio ora sta ricevendo un ulteriore impulso - in particolare in Germania - a causa del crollo dell'economia di esportazione; se vista soprattutto sullo sfondo della deglobalizzazione ormai in pieno svolgimento. In contrasto con la critica riduttiva al capitalismo - svolta dal marxismo ortodosso della lotta di classe, che, nonostante l'evidente crisi sistemica, continua a sentire ovunque l'odore degli interessi della borghesia - il fascismo verrà rappresentato anche in quanto sistema che, nella sua irrazionalità, nella sua pulsione di morte, riflette soprattutto il feticismo contraddittorio della relazione di capitale, che ora minaccia gravemente il processo di civilizzazione, e lo fa nella sua forma di crisi ecologica. Infine, verranno anche discusse quali sono le differenze tra l'attuale ideologia della crisi e il fascismo del XX secolo, il quale, allora, nella crisi di imposizione dell'epoca, anticipava ancora - più o meno - il fordismo. Ciò quando, invece, oggi nel XXI secolo, un simile nuovo regime di accumulazione non è certo all'orizzonte.

Sabato 28/9/24, 15.30: Johannes Vogele, Auschwitz come alibi del capitale; la relazione tra la negazione dell'Olocausto e la teoria del complotto nella sinistra marxista tradizionale.
In Francia, la storia della negazione dell'Olocausto è stata caratterizzata da una particolare componente, la quale invece non ritroviamo negli altri Paesi. Per molto tempo, la negazione dell'Olocausto è stata propagandata e pubblicizzata attivamente da una sezione della “ultra-sinistra”; vale a dire, da un movimento/una scuola marxista o marxiana, anti-leninista, comunista dei consigli, che si rifaceva ai bordighisti della sinistra comunista italiana, e al loro antifascismo. Fino a che punto questa storia rappresenta qualcosa di più di un aneddoto, o di un'assurdità, e invece rientra, da un lato, nella tradizione dell'antisemitismo e dell'antisionismo di sinistra, e dall'altro ha formato una visione manichea del capitalismo, il quale viene visto come caratterizzato essenzialmente dalla lotta di classe e da quelle che dovrebbero essere strategie legate agli interessi? E qual è il punto nel quale una critica tronca e ultra-sinistra del capitalismo si incontra con una teoria antisemita, di ultra-destra, del complotto?  Quale relazione esiste tra una pura e semplice negazione del genocidio (“la Shoah non è mai accaduta”) e l'attuale diffusa negazione attuata mediante la banalizzazione (“l'Olocausto è soltanto uno dei tanti crimini del regime capitalista”), in base a cui la memoria del genocidio avrebbe solo due finalità: “distrarre il proletariato dalla sua missione storica e giustificare la fondazione dello Stato di Israele. ...”.

Sabato 28/9/24, 19.00: Assemblea generaleDomenica 29/9/24, 10.00-12.30: Herbert Böttcher, Antisemitismo proiettivo, “borghesia rozza” e allucinazione sociale
Di fronte al terrore di Hamas e alla risposta militare di Israele, l'antisemitismo è ora chiaramente visibile come fenomeno globale. L'antisemitismo legato a Israele si articola soprattutto nei contesti postcoloniali e de-coloniali, nonché nelle università da essi influenzate e nel settore culturale. Anche in Germania l'antisemitismo trova una risonanza sociale positiva. A partire da questa situazione, la relazione attinge agli approcci della teoria critica per definire l'antisemitismo. Sottolinea il legame tra antisemitismo e società capitalistica, intendendo l'antisemitismo come un'elaborazione proiettiva della crisi, e quindi come un'espressione di allucinazione sociale. Di conseguenza, ci si chiede come si presenta l'antisemitismo proiettivo di fronte alle attuali situazioni di crisi, che si stanno drammaticamente aggravando. Verrà ripresa la riflessione di Moishe Postone sul dominio astratto del capitale e la relativa antinomia tra concreto e astratto come sfondo essenziale dell'allucinazione antisemita, nonché il riferimento di Robert Kurz alla moltiplicazione del Capitale come fine irrazionale della socializzazione della dissociazione-valore, con il suo carattere di crisi. L'antisemitismo come elaborazione proiettiva della crisi si colloca attualmente nella crisi immanentemente incontrollabile del capitalismo, che oggi si manifesta nelle cosiddette crisi multiple. La perdita di controllo da parte degli attori politici dovrebbe essere compensata da una fuga nel concreto e da una difesa dall'astratto. Provenienti dal terreno fertile della “borghesia rozza”, le soluzioni proposte vanno dalla difesa contro i migranti e i rifugiati, all'intensificazione della repressione contro i disoccupati, all'agitazione contro i poveri, agli orientamenti autoritari-identitari, e alla lotta di classe ancora una volta offerta dalla sinistra come soluzione (salvezza). Sono tutte soluzioni legate alla feticizzazione del lavoro. Le emozioni proiettive della “borghesia rozza” possono così essere esercitate, in basso contro i “pigri”, e in alto contro quelle “élite”, che come leader mondiali ottengono la ricchezza senza lavorare. Il fine irrazionale e allucinatorio della moltiplicazione del Capitale - compresa la sua dinamica di crisi distruttiva - rimane intatto, e rappresenta un presupposto senza riflessione. Corre verso il vuoto, verso il nulla, e quindi verso l'annientamento. Nell'irrazionale fine in sé stesso dell'accumulazione del capitale, che corre verso il nulla, unito all'illusione di poter “mantenere” la normalità delle relazioni feticizzate, “gli ebrei” e quello che è  “l'ebreo tra gli Stati” diventano l'oggetto di una proiezione delirante, che in ultima analisi mira all'annientamento di tutti gli ebrei. Se questi processi e le loro dinamiche non vengono interrotti, l'annichilimento attuato sugli ebrei, e che li minaccia, rischia di andare alla deriva verso l'auto-annichilimento e l'annichilimento del mondo, verso l'annichilimento totale.

SEMINARIO EXIT 2024 - 27-29 settembre a Magonza
Luogo del Seminario: Jugendherberge Mainz, Otto-Brunfels-Schneise 4. 55130 Mainz

  fonte: Exit!