Dante e i Pirati dei Caraibi
- Ultraoltre. Alle origini del teschio con le ossa incrociate vi sono fratellanze di cui Dante era un probabile esponente di alto grado -
- di Raffaele K. Salinari -
Cos’hanno in comune Jack Sparrow e Dante Alighieri? Il capitano della Perla Nera ed il Padre della lingua italiana?
Forse il simbolo di una vita vissuta pericolosamente alla ricerca della libertà: il Jolly Roger, la bandiera nera con il teschio e le tibie incrociate.
Il teschio che ride potrà sembrare scontato come riferimento per Capitan Sparrow e quelli come lui, pirati dello schermo e della letteratura, da Capitan Uncino al Corsaro Nero, o realmente esistiti come Francis Drake ed Henry Morgan, ma le sue origini si devono a circostanze in cui entrano in gioco delle Fratellanze di cui Dante era probabilmente un esponente di altissimo grado. Ma andiamo per ordine.
Il Jolly Roger
Alcuni studiosi fanno risalire il nome della bandiera pirata (dal greco peiratès che deriva da peiráomai il verbo che significa fare un tentativo, provare un assalto), ad una anglicizzazione del francese joli rouge, come veniva chiamata la bandiera, in origine rossa (rouge in francese), issata sull’albero di bompresso, il joli mat appunto. La bandiera rossa col teschio, simbolo di morte, era temutissima dalle navi che la incontravano poiché significava che i pirati non intendevano fare prigionieri. Il nome, poi storpiato in Jolly Roger, venne successivamente usato anche per la bandiera nera con teschio e ossa che, attorno al 1700, si era oramai imposta.
Ma l’origine della bandiera è molto più antica, dato che la troviamo agli inizi del Duecento su alcune navi corsare del Mediterraneo agli ordini di Re Enrico II di Inghilterra. La differenza tra corsari e pirati è nota: i primi combattono agli ordini di qualcuno che attribuisce loro le cosiddette «patenti», una sorta di autorizzazione riconosciuta, mentre i pirati sono uomini senza alcun padrone. Garibaldi, ad esempio, è stato un corsaro nel suo periodo sud americano, con una patente di corsa della Repubblica del Rio Grande do Sul.
Ruggero il Normanno
Ma forse il termine Roger era in origine il nome di un personaggio storico: Ruggero II di Sicilia (1095-1154), della dinastia degli Altavilla, conosciuto anche come Il Normanno. Nel suo libro Pirates and The Lost Templar Fleet, David Hatcher Childress sostiene che il termine è il patronimico di chi, per primo, utilizzò il vessillo.
A Ruggero II viene attribuito storicamente l’accorpamento sotto un unico regno di tutte le conquiste normanne dell’Italia meridionale. Ma, per legare insieme tutti questi stati, il titolo reale era essenziale; l’occasione si presentò con la morte di papa Onorio II nel febbraio 1130, seguita dalla duplice elezione di un Papa e un Antipapa: Innocenzo II e Anacleto II. Nella confusione che ne seguì, Innocenzo, pur riconosciuto dalla maggior parte della cristianità, fu costretto a rifugiarsi in Francia; rimase a Roma invece Anacleto II che tuttavia aveva bisogno di essere sostenuto.
Ruggero lo appoggiò ed in cambio chiese la corona: una Bolla di Anacleto II lo sancisce Re di Sicilia. L’incoronazione avvenne a Palermo il 25 dicembre 1130. Ma per far prevalere Anacleto II fu necessaria una guerra. E qui entra in gioco Bernardo di Chiaravalle, campione di Innocenzo II, che mise in piedi una coalizione contro Anacleto II ed il suo «Re mezzo pagano». La componevano Luigi VI di Francia, Enrico I di Inghilterra e l’Imperatore Lotario II del Sacro Romano Impero. Nonostante questo spiegamento Ruggero prevalse e si tenne la corona, espandendo il suo regno verso la sponda sud del Mediterraneo. Ora, David Hatcher Childress sostiene che nella varie battaglie contro la coalizione nemica, Ruggero abbia fatto utilizzare ad alcuni dei suoi squadroni, per lo più composti da mercenari, il vessillo che poi avrebbe adottato il suo nome.
Roger de Flor
Ma è molto più probabile che sia stato un altro Ruggero a dare il nome al vessillo pirata, dato che in effetto lo era lui stesso: Roger de Flor, o Ruggero Flores, nato a Brindisi nel 1267, Capitano e Fratello Templare la cui nave Falcone, la più grande e potente dell’Ordine, era ancorata nel porto di Brindisi in servizio costante per la Terrasanta. Distintosi in battaglia nella difesa di San Giovanni d’Acri nel 1291, Helen Nicolson autrice del The Knights Templar, narra la sua storia in rapporto alla Compagnia Mercantile Catalana.
Siamo agli inizi del Duecento, e quello dei Pauperes commilitones Christi templique Salomonis (Poveri compagni d’armi di Cristo e del tempio di Salomone), era un Ordine oramai molto potente ed in grado di governare le rotte del Mediterraneo da e per la Terrasanta. Per qualche anno, da Frate Templare, Ruggiero porta nelle casse dell’Ordine ricchezze enormi, frutto del commercio legale ma anche della guerra di corsa contro le navi saracene.
Ruggero era allora al comando di una potente flotta di mercenari che divennero il terrore dei mari sinché il Gran Maestro De Molay non fu costretto ad espellerlo dall’Ordine, a causa degli eccessi delle sue ciurme di corsari. Caduto in apparente disgrazia, entra al servizio del Re Federico III d’Aragona, che gli affida il comando della Compagnia Catalana (detta anche degli almogavari), composta da mercenari catalano-aragonesi.
Al comando di quella flotta Ruggero partecipa alla difesa di Messina (1301) assediata dagli Angiò che ancora reclamavano il possesso della Sicilia persa dopo i Vespri, e poi si mette al servizio di Andronico II Paleologo, imperatore bizantino, e sconfigge in diverse e cruente battaglie i Turchi Selgiuchidi, riaffermando la ferocia delle sue soldatesche. Il suo vessillo era rosso col teschio e le tibie incrociate.
Ma, nonostante ne fosse stato cacciato, Ruggiero rimaneva una figura chiave per l’Ordine, tanto che, poco prima della strage dei Templari ordinata da Filippo il Bello il 13 ottobre del 1307, viene ucciso, dato che il piano del sovrano francese per impadronirsi dei beni dell’Ordine non avrebbe avuto successo senza la sua eliminazione.
E infatti, nonostante la sua morte, molti uomini che gli erano rimasti fedeli aiutano i Templari superstiti ad organizzare una fuga di massa. E così, la notte prima della strage, avvertiti dell’inganno dal loro servizio di sicurezza, in gran segreto, diciotto galee templari navigano lungo la Senna e prendono il mare dirette a La Rochelle, dov’era pronta una flotta templare.
I Cavalieri avevano così portato in salvo parte del tesoro e delle reliquie più preziose. Le loro vele erano state annerite per non essere viste nella notte. Durante il viaggio i Templari superstiti decisero sotto quale vessillo avrebbero navigato, non potendo più utilizzare quello che effigiava la loro croce rossa: la bandiera col teschio e le tibie incrociate, che peraltro richiamavano la croce templare, con il fondo nero in riferimento al lutto ed al colore delle vele.
Nasce forse così la versione del Jolly Roger come oggi la conosciamo. Molte di queste navi si recarono poi in Scozia dove l’autorità papale e quella del sovrano di Francia non erano riconosciute, ma questa è un’altra storia.
Dante esoterico
E dunque la bandiera dei pirati potrebbe essere una trasformazione dell’antico vessillo di Ruggero Flores, o di Ruggero II di Sicilia, in quello che le navi corsare templari adottarono nella loro fuga e nella successiva guerra di corsa contro il papato che aveva impunemente lasciato che venissero trucidati.
E questo ci porta agli anni in cui il nostro Dante Alighieri o meglio a Durante Alegheri – poiché così si chiamava il Padre della lingua italiana, prima che una trascrizione di Boccaccio gli imponesse il nome col quale lo conosciamo oggi – stava scrivendo la Commedia.
Per ben due volte, in questa, Dante invita il lettore a prestare particolare attenzione a quanto sta per dire; si tratta di due terzine la cui funzione è quella di suggerire che esiste una interpretazione esoterica, cioè letteralmente «interna» da eso (dentro), nascosta, della sua Opera. I passi in questione sono, Inferno IX, vv. 61-63: «O voi ch’avete li ’ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ’l velame de li versi strani», e Purgatorio VIII, vv. 19-21: «Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, ché ’l velo ora è ben tanto sottile, certo che ’l trapassar dentro è leggero».
Il riferimento al velo è chiarissimo: qui siamo di fronte ad una metafora che deriva direttamente dai Misteri di Iside, quelli a fondamento della Tradizione iniziatica occidentale e non solo. Narra Plutarco nel suo Iside ed Osiride che a Menfi, su quella che si diceva essere un tempo la «tomba» di Iside, era stata eretta una statua ricoperta da un velo nero.
Sulla sua base era incisa l’iscrizione: «Io sono tutto ciò che fu, ciò che è, e ciò che sarà, e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo».
Questo è il Velo di Iside, divinità antichissima che simboleggia la Natura, cioè la Natura naturans, l’insieme cioè della Zoè e delle sue Bìos.
Perché Iside è velata? Già Eraclito di Efeso, in uno dei suoi frammenti più discussi ci dice che «la Natura ama velarsi», ed infatti Plutarco così descrive il velo che copre la Dea in opposizione a quello che invece riveste il suo sposo: «Tinte di colori diversi sono la veste di Iside, a segno del suo potere sulla materia, la quale accoglie tutte le forme e tutte le vicissitudini subisce, potendo diventare luce e tenebra, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, inizio e fine.
Ma senza ombra né varietà è la veste di Osiride, che ha un solo colore, quello delle luce. Il Principio, infatti è vergine di ogni mescolanza: l’essere primordiale ed intelligibile è essenzialmente puro. Così i sacerdoti non rivestono che una sola volta Osiride della sua veste, per subito riporta e non mostrarla mai né toccarla mai… La visione dell’Essere… non si può ottenere o percepire che in un solo istante».
E dunque il rimando dantesco al velo denota la sua vicinanza ad una forma di pratica esoterica, ma quale?
I Fedeli d’Amore
Come noto Dante faceva parte dei Fedeli d’Amore, una confraternita iniziatica che aveva tra i suoi rappresentanti i più importanti stilnovisti del Trecento. Sono nomi noti: Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi Cino da Pistoia. In particolare la loro filosofia, di stampo neoplatonico, ruotava attorno alla ricerca della grazia, cioè della possibilità di elevarsi spiritualmente sino al ricongiungimento col Principio divino, dal quale l’anima discende nel corpo, attraverso l’aiuto della Donna Angelo; per Dante, Beatrice.
Alcuni versi di Guido Cavalcanti ci chiariscono cosa rappresentava per i Fedeli d’Amore la figura della Donna Angelo: «Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, che fa tremar di chiaritate l’âre e mena seco Amor, sì che parlare null’omo pote, ma ciascun sospira?».
A questo proposito Borges, nei suoi Nove saggi danteschi, sostiene la suggestiva teoria che tutta la Commedia altro non sia che un enorme Aleph immaginale concepito dal Sommo Poeta per celebrare l’apoteosi della sua Amante Invisibile che, infatti, lo trasporta sino al Settimo Cielo e lì lo lascia con suo celestiale sorriso, vero punto di arrivo della beatitudine dantesca all’incrocio tra il trascendente e l’umano.
«Penso che Dante» dice Borges «abbia edificato il miglior libro della letteratura per introdurvi alcuni incontri con l’irrecuperabile Beatrice. O meglio, i cerchi del castigo e il Purgatorio australe e le nove sfere concentriche e Francesca e la sirena ed il grifone e Bertrand de Born sono elementi aggiuntivi; un sorriso e una voce, che lui sa perduti, sono il fatto fondamentale. All’inizio della Vita Nuova si legge che una volta elencò in un’epistola sessanta nomi di donna per insinuarvi, segreto, quello di Beatrice. Penso che la Commedia abbia ripetuto quel malinconico gioco. Che uno sventurato s’immagini la felicità non ha nulla di singolare; ciascuno di noi, ogni giorno, lo fa. Dante lo fa come noi, ma qualcosa, sempre, ci lascia intravedere l’orrore di quelle felici finzioni… Innamorarsi è dar vita a una religione il cui dio è fallibile. Che Dante abbia professato per Beatrice un’adorazione idolatrica è una verità innegabile».
Dante templare
Ma cosa c’entra tutto questo con i Templari? In realtà sappiamo che i Fedeli d’Amore erano certo una confraternita iniziatica di chiaro stampo neoplatonico, ma altresì un gruppo di attivisti politici di prima grandezza: basti pensare a tutta la vita di Dante, ambasciatore di Firenze e poi esule per la sua adesione ad una visione ante litteram della separazione tra potere temporale e potere spirituale.
Ma è nella stessa Commedia che troviamo chiaramente il legame che cerchiamo. In un passo si accenna alla vicenda templare, lì dove dice che «il nuovo Pilato sì crudele, che ciò nol sazia, ma senza decreto porta nel tempio le cupide vele. O signor mio, quando sarò io lieto, a veder la vendetta che nascosa, fa dolce l’ira tuo nel tuo segreto?» (Purgatorio, canto XX, 86-96).
Versi di facile interpretazione, conoscendo questa appartenenza dantesca: alludono al fatto che il «nuovo Pilato», cioè Filippo il Bello che, come Pilato, si era dichiarato estraneo all’oltraggio di Anagni contro Bonifacio VIII, «senza decreto» papale, di fatto l’unica autorità che i Templari riconoscevano, aveva sterminato l’Ordine.
Nella seconda parte dei versi si allude alla «vendetta che nascosa» prima o poi arriverà (vendetta nascosta come lo sono quelle legate alle morti fatte passare per suicidi o incidenti). E infatti, molto gli storici si sono interrogati sulla relazione tra la maledizione lanciata contro il Papa ed i Re di Francia sino alla tredicesima generazione dalla pira del suo supplizio da Jacques de Molay nel marzo del 1314, e le morti nello stesso anno di entrambi. A compimento dell’anatema templare una leggenda narra che il boia di Luigi XVI, Charles-Henri Sanson, gli avrebbe sussurrato sul patibolo: «Io sono un Templare ed eseguo la nostra vendetta».
Il rapporto coi Templari poi è indirettamente confermato anche dal giudizio che Dante dà di Clemente V, definito nell’Inferno un «pastor senza legge» e, nel Purgatorio, «puttana sciolta», forse in riferimento al fatto che il Papa era morto dopo diversi attacchi di diarrea dovuti con ogni probabilità ad un tumore intestinale.
I Cavalieri vengono poi direttamente nominati nel Canto XXX del Paradiso in cui Beatrice è descritta nell’Empireo contornata e protetta dal «convento delle bianche stole» che, secondo la versione di Guénon, potrebbero essere le bianche stole dei cavalieri templari.
Ma, ed è forse l’evidenza più importante, la guida di Dante nell’ultima parte del viaggio è Bernardo di Chiaravalle, fondatore della regola templare.
Come mai Dante dedica dei versi a queste vicissitudini storiche? La risposta la troviamo in una moneta oggi nel Museo di Vienna su cui, da una parte è incisa la scritta Fidei Sanctae Kadosh Imperialis Principatus Frater Templarius, cioè Fratello Templare, Cavaliere della Fede Santa del Principato Imperiale, dall’altra l’effigie di Dante.
Secondo la nota interpretazione di René Guénon nel suo l’Esoterismo di Dante, l’associazione della Fede Santa, di cui il Poeta sembra sia stato uno dei capi, era un Terz’Ordine di filiazione templare, il che giustificava l’appellativo di Frater Templarius, ed i suoi dignitari portavano il titolo di Kadosch, termine ebraico che significa «santo» o «consacrato», e che si è conservato fino ai nostri giorni negli alti gradi della Massoneria.
Dunque Dante, insieme ai Fedeli d’Amore, era in stretto collegamenti con i Templari dei quali, non solo conosceva la regola, ma la condivideva insieme agli altri membri della sua confraternita, custodendo le conoscenze iniziatiche proprie dell’Ordine – in parte trasmesse nella Commedia – in un periodo estremamente critico per la sopravvivenza di queste parte della Tradizioni esoterica occidentale.
Certo un incontro tra Garibaldi, primo Gran Maestro della Massoneria italiana e Dante, dunque, avrebbe avuto il Jolly Roger come simbolo accomunante di una storia antica: la ricerca della libertà nella conoscenza; un’avventura che, fortunatamente per noi, non è ancora finita.
- Raffaele K. Salinari - Pubblicato su Alias del 10 giugno 2017 -
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