domenica 25 giugno 2017

Navi

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Weber sulla nave di Platone
- di Mauro Bonazzi -

Ci sono testi che conviene rileggere, di tanto in tanto, per la loro capacità di illuminare i problemi con cui gli uomini hanno sempre a che fare. A questo servono i classici, del resto. Come La scienza come professione, ricavato da un discorso che Max Weber tenne circa un secolo fa, in una Germania piegata dalla guerra e ormai sprofondata nell’isteria. Un titolo dimesso per un tema forse importante, ma di certo non fondamentale. In realtà un’analisi lucidissima della modernità e dei suoi problemi, insieme a una riflessione su quale sia il ruolo degli intellettuali in una società in crisi. Argomenti di cui si torna ciclicamente a discutere, come testimoniano il libro recente di Paolo Di Paolo "Tempo senza scelte" (Einaudi) e ancora di più quello di Sarah Bakewell "Al caffè degli esistenzialisti" (Fazi). Figure controverse come poche, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, non hanno mai avuto paura di far sentire la propria voce, esaltando il modello dell’intellettuale pubblico, sempre pronto a prendere posizione, deciso a «invadere il lettore», come ha dichiarato Roberto Saviano in una recente intervista. Con una passione inattesa in un severo professore tedesco dell’età guglielmina, Max Weber aveva scelto di percorrere un’altra strada.

La grande crisi dall’età moderna sta tutta nell’incapacità di accettare il politeismo dei valori, scriveva Weber. Piaccia o no, la nostra epoca è segnata in modo indelebile dalla circolazione di idee e principi differenti, incompatibili tra di loro, ma tutti ugualmente legittimi. Libertà o uguaglianza, solidarietà o benessere, le ragioni dell’individuo o quelle della comunità: la scelta dell’uno va a detrimento dell’altro. È un fatto che non ha senso contestare e da cui si dovrebbe partire per trovare soluzioni concrete: è inutile sperare di tornare a un mondo omogeneo e coeso, retto da un unico sistema di valori. Eppure proprio questo gli uomini finiscono per fare: incapaci di sopportare le situazioni d’incertezza che inevitabilmente si creano, si affannano in cerca di risposte nette, anelano alla guida che promette soluzioni facili, cadendo in illusioni più o meno dolorose. In quegli anni, a Monaco di Baviera, fu proclamata un’effimera repubblica dei soviet, annunciata, scrivevano i suoi capi Ernst Toller ed Erich Mühsam, come «il regno della luce, della bellezza e della ragione». Per le strade marciavano però compatte le squadre della controrivoluzione, inneggiando al sangue e alla patria.
Carico d’anni (sarebbe morto di lì a poco), con una barba ispida, «pallido e affaticatissimo», così lo ricorda Karl Löwith, proprio in quella città Weber tenne i suoi ultimi interventi pubblici. In una sala gremita all’inverosimile, «con il cupo fervore di un profeta», ricordò a un Paese lacerato che i profeti non esistono. Che non bisogna attenderli. La perfezione non è di questo mondo. Weber ce l’aveva soprattutto con «i profeti in cattedra»: professori, intellettuali, scienziati, filosofi che approfittavano della loro posizione di prestigio per promettere soluzioni facili invece di aiutare a leggere la complessità di un mondo sempre più indecifrabile. L’impressione fu «sconvolgente», ma non poté molto contro i demoni che si erano ormai scatenati. Pochi, tra i giovani studenti che si erano accalcati nella sale delle conferenze, fecero proprio l’invito a coltivare il «pathos della sobrietà». Gli altri, la maggioranza, non avrebbero resistito alla tentazione di seguire le sirene di chi prometteva nuovi mondi. A Monaco, negli stessi anni, c’era anche Adolf Hitler.
Succede. Sarebbe successo di nuovo ed era già successo. Weber non ci pensava, ma il suo invito all’onestà intellettuale — a non chiudere gli occhi davanti ai fatti scomodi, diceva: fatti, cioè, che costringono a rivedere le proprie convinzioni — trovava una coincidenza quasi perfetta con la missione che Socrate aveva rivendicato davanti al tribunale di Atene nel 399 a.C., in un clima non meno tumultuoso. C’era del vero nell’accusa per cui fu condannato, quella di corrompere i giovani: Socrate aveva dedicato tutta la sua vita a seminare dubbi, a mettere in discussione i valori su cui si fondava la città, a chiedere conto delle decisioni prese in assemblea. Senza offrire nulla in cambio — come poteva se non sapeva nulla? Solo domande, nessuna risposta. Sempre ironico, si descriveva come un tafano, con l’ingrato compito di risvegliare il cavallo sonnolento che era Atene. Gli altri lo associavano piuttosto alla torpedine marina: apparentemente innocua, in realtà capace di paralizzare chi la toccava. In entrambe le immagini si nasconde qualcosa di sinistro, il disagio che gli Ateniesi provavano davanti a un personaggio enigmatico, e alle sue richieste incomprensibili. A che serve un «sapere» che paralizza, moltiplica dubbi e incertezze, cerca la complessità senza proporre soluzioni, o indicare un cammino?

Se Dio è morto, tutto è permesso: oggi, quando si parla di questi problemi, si cita sempre Fjodor Dostoevskij. Dove mancano valori forti, ogni decisione è legittima e conta solo realizzarla. È così, a patto d’intendersi, però. In un mondo come il nostro, in cui mancano punti di riferimento assoluti, in cui le possibilità di scelta sembrano moltiplicarsi a piacimento, la prima reazione è in realtà l’esitazione: un blocco da cui si esce solo quando ci si è costruiti il proprio Dio. Un Dio che nasce da paure o ambizioni e che serve a fornire una giustificazione e una legittimità a queste paure o ambizioni. Sono situazioni che si ripetono quotidianamente, per tutti. Siamo circondati da voci dissonanti, punti di vista contrapposti, dibattiti infiniti. Il rumore è assordante; il rischio è il disorientamento; la conclusione è sempre la stessa: finiamo per chiuderci in noi stessi, ascoltando solo quelli che ripetono quello che già pensiamo. È la strada più semplice, dare ragione a chi è d’accordo con te. Confermarsi gli uni con gli altri nelle proprie convinzioni — nei propri pregiudizi, dunque. Non che quello che pensa la gente sia sempre sbagliato: persino i tanto vituperati elettori bianchi di Donald Trump pongono alcune questioni che avrebbero meritato maggiore considerazione. Il problema è quando ragioni parziali vengono trasformate in verità assolute. Troppo spesso è in questo modo che si stabilisce cosa è bene e cosa si deve fare. Per passare poi all’azione, convinti di essere sempre dalla parte giusta.
Quando Dio non esiste, urge trovare un sostituto che dia ragione, che ammanti di credibilità le proprie idee. Weber non voleva guidare nessuno. Socrate, per tutto il processo, ha negato di avere cercato allievi. A entrambi era ben chiaro che, se si fossero messi a dire la loro, avrebbero solo aumentato il rumore di fondo. Cercavano altro. Fare chiarezza, per quanto possibile: aiutare i concittadini a capire che ogni decisione comporta una scelta e che le scelte richiedono responsabilità. Perché non c’è più un Dio o un destino a garantire per ciò che facciamo, ed è sbagliato ogni tentativo di costruirsi surrogati dietro cui nascondersi. Bisogna imparare ad affrontare le proprie paure e anche le proprie idee. Agire si agisce sempre; raramente, però, consapevoli di quello che si fa. È davvero così inutile, allora, il lavoro sotto traccia di chi si propone di ricordare agli altri che la verità è sempre sfaccettata? Di chi cerca di ostacolare, per quanto possibile, la tendenza tutta umana ad abbarbicarsi alle opinioni del gruppo? Il vero maestro non insegna cosa si deve pensare, ma a come pensare.

Il compito è difficile, certo; e ancora più difficile nel nostro mondo della post-verità, in cui l’emotività sembra aver definitivamente trionfato. È inutile nasconderselo: il rischio del fallimento c’è. Neppure questa è una novità. Ne erano ben consapevoli tanto Weber quanto Socrate; e così pure Platone, che sulla morte e la sconfitta di Socrate costruì la sua filosofia. Nella Repubblica si racconta di una nave in mezzo a onde sempre più minacciose. Tutti iniziano a litigare perché ognuno vuole decidere come affrontare la tempesta che incombe; qualcuno avrebbe consigli da dare; ma l’isteria ormai domina e nessuno sembra più in grado di ragionare. Che cosa può fare quell’uomo? Vorrebbe probabilmente ritirarsi in disparte, per evitare l’insopportabile gazzarra. Ma quando la nave affonderà, anche lui affonderà. Urlare a sua volta nella speranza di farsi ascoltare? Non migliorerebbe la situazione. L’unica alternativa è cercare di calmare i suoi compagni, raffreddare gli animi, perché si possa tornare ad affrontare, e auspicabilmente superare, le difficoltà in modo sensato.
È improbabile che la Repubblica di Platone stia sul comodino di Quentin Tarantino: ma in Pulp Fiction la stessa idea, con parole irripetibili, è ripetuta da Mr. Wolf, quando viene mandato in aiuto dei due sicari (John Travolta e Samuel L. Jackson), che, in preda al panico dopo aver combinato un disastro, riescono solo a urlare e strattonarsi, come i marinai della nave di Platone. Più sobriamente lo ha scritto anche Leonardo Sciascia: «Credo nella ragione, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono». Non è facile, a volte è molto pericoloso, e la vicenda di Socrate sta lì a ricordarlo. Ma altre possibilità, per chi si ostina a pensare che la ragione umana non debba essere sacrificata, non ve ne sono.
Ogni epoca attinge alle proprie esperienze per descrivere quello che accade. In una società dominata dalla rivoluzione tecnologica e informatica si parla di «svitati» e «connessioni»; dal Medioevo arrivano espressioni di matrice religiosa o astrologica come «diabolico» e «lunatico». Più legati di noi alla terra e ai suoi tempi, gli antichi, per spiegare il valore dell’educazione, ricorrevano a metafore agricole: si tratta di seminare, coltivare e avere pazienza. Adempiendo alle «richieste di ogni giorno», concludeva Weber citando Goethe. Contro il proprio tempo, per il proprio tempo

- Mauro Bonazzi - Pubblicato su Il Corriere/La Lettura del 24 dicembre 2016 -

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