Soldi, sempre soldi, l'ABC del denaro. Sono questo le lettere di Hunter Stockton Thompson. "Sono rovinato", oppure "Sono al verde", appaiono come le frasi più ricorrenti che questo giornalista, "gonzo", batte sui tasti della sua macchina da scrivere. Sono le sue preoccupazioni e il lato amaro del suo mestiere che fanno da contraltare agli argomenti, alle denunce, alle lotte e agli insulti che sparava con la sua 44 magnum di parole. Dentro la sua corrispondenza si annida tutta la fame, la miseria, il freddo, la guerra con il mondo dell'editoria, insieme ad una vita dissipata, all'alcol e alle droghe. Ma anche l'onestà e l'integrità di un giornalista compromesso solo con la sua scrittura e con i suoi principi.
La belligeranza di Hunter diminuisce pian piano col tempo, forse un po' come succede a tutti. Il giornalista sportivo (1955-1967) è un uomo sensibile e con un enorme talento che spesso diventa verbosamente smisurato ed aggressivo. E' talmente sicuro di sé che indugia ad insultare il cielo, senza esitazione. La seconda parte della sua vita (1968-1976), quella segnata da un approccio più politico e dal compromesso con il pubblico, dalla sua candidatura a sceriffo, da quel "Freak Power" con cui intendeva unire forze e voti, dalla sua presenza abituale su Rolling Stone, Playboy, The Nation.
Eppure, in tutto questo, non cessò mai la sua lotta con il proprio conto corrente.
Hunter era un giornalista che guardava dentro sé stesso, per poter raccontare quello che succedeva fuori. Era un uomo cui i fatti importavano assai meno di quanto gli importasse dei suoi fantasmi. Era uno scrittore che guardava il mondo attraverso il vetro appannato del suo bicchiere di whiskey. La sua voce era scomoda, nella sua epoca d'oro quando gli Stati Uniti affondavano nel pantano vietnamita, illuminati dal sole malato del Watergate. Ci sono le lettere a Katharine Graham, proprietaria del Washington Post, in cui rifiuta un'offerta di lavoro. Era l'epoca in cui bisognava neutralizzare Nixon e la sua banda di tagliagole. "Era l'animale che doveva essere abbattuto", scrive, quando si riferisce al presidente destituito. Non va dimenticato che Hunter era fermamente contrario alla guerra in Vietnam, mentre era inviato a Saigon per Rolling Stone, dove cercava di intervistare il colonnello Vo Dan Giang del Governo Rivoluzionario Provvisorio del Vietnam. Non ebbe mai risposta, al pari di scrittori della statura di Faulkner o Mailer.
L'epistolario di Hunter fotografa, in ogni lettera, la lotta dello scrittore per la sopravvivenza. Spesso i personaggi che compaiono nelle missive, sono del tutto effimeri. Altri non lo sono, come nella corrispondenza con Tom Wolfe, o con Jimmy Carter. O con Jim Silberman, il suo contatto con la casa editrice Random House. Con Wolfe mantiene una corrispondenza fluida, fatta di rispetto reciproco, sebbene in uno scambio, arriva ad attaccarlo per il "nuovo giornalismo" che questi avrebbe creato. Wolfe non cade nella trappola, e l'amicizia sembra abbia continuato.
Nel tempo, Hunter, si evolve e matura. Passa dall'insulto irrazionale all'insulto educato e prudente. Anche quando la lingua incandescente di questo giornalista picchiatore si infiamma ancor di più. Sono lettere di vomito e di stelle, come quando si legge della pace che lo pervade, mentre nell'alba attraversa a bracciate la piscina di un hotel. Dimentico della sua sopravvivenza.
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