Nato nel 1935, Claude Faraldo - autore di "Themroc", in italiano "Il mangiaguardie", con Michel Piccoli - ha girato in tutto cinque lungometraggi (Claudio o La jeune morte (1965), Bof! (1971), Themroc (1972) Tabarnac (1974) y Les fleurs du miel (1975)) e ha rappresentato alcune opere teatrali. Quella che segue, è un'intervista - forse vecchia, ma non datata - rilasciata a El Pais, il 16 marzo del 1979.
Domanda: Come sei arrivato a fare film?
Faraldo: Mi manca quella che si chiama una cultura, una formazione intellettuale. Per tredici anni ho lavorato. Ho fatto il camionista, ed ho militato politicamente. Fu durante uno sciopero che decisi di rompere con il partito, e poi di lasciare il lavoro. Ho viaggiato da un posto all'altro, senza fare niente, vivendo. Poi ho incontrato una donna che mi ha detto: «Perché non smetti di parlarne e, tutte queste cose che racconti sempre, non le metti in un film? Io ti aiuterei.» Così scrissi la mia prima sceneggiatura. Il mio primo film, non mi piace che venga visto, perché è troppo estetico, ho capito che lo avevo messo su per fare arte, delle belle immagini. Credo che non sia quello che si deve fare. Bisogna fare film che dimostrino alla gente che anche loro possono farli, che fare cinema non è così difficile e che non c'è bisogno di nessuna cultura o preparazione speciale per fare un film. Il maggio 68 mi ha permesso di rappresentare un mia opera teatrale, e così è successo che si parlasse anche di me. Grazie a questo, ho potuto realizzare "Bof!"
Domanda: Ritiene che i suoi film illustrino in qualche modo lo spirito del maggio francese?
Faraldo: No. Ho fatto i miei film a partire da lì. Il maggio 68 mi ha permesso di farli perché ci si trovava in un grande periodo di crisi e di confusione. I commercianti del cinema non sapevano cosa piacesse alla gente, erano confusi, grazie a ciò ho potuto fare un film come "Themroc", disgraziatamente è successo. Ora sarebbe impossibile girare un film così in Francia, senza dialoghi, senza musica, ecc.
Domanda: Sei contro la qualità abituale del cinema francese?
Faraldo: Assolutamente. Bisogna fare un cinema che serva alla gente per qualcosa. Le pellicole di Bergman non servono nemmeno agli intellettuali, perché raccontano storie che loro conoscono molto bene. Storie insignificanti e meschine del tipo "Ti amo, allora mi devi qualcosa!". E' un cinema borghese, su un senso di colpa cristiano che non ha più senso, un cinema che va contro la libertà dell'individuo. E Bergman ha talento, è un grande tecnico, ma traffica con idee vecchie che non hanno più senso. I suoi film sono fatti bene. Bergman non fa cinema perché gli altri poi possano farlo a loro volta e imitarlo, ma dice: «Voi occupatevi di scaricare casse, che al cinema ci penso io.». Non sono un cinefilo, al cinema ci vado appena. Ci sono film, di tutti i generi, che mi piacciono. Per esempio, Milos Forman, un mio amico da molti anni, ha fatto un film stupendo in America, "Qualcuno volò sul nido del cuculo", in cui la gente si sofferma sul lato psicologico e clinico della storia. Mi ha preso completamente, quello che mi piace è che in questo film c'è l'America come la vede Forman. Ultimamente, sono cambiate molte cose. Anni fa, un operaio smetteva di lavorare e si sentiva finito, non era più niente. Ora incontri uno e ti dice: «Sono rimasto disoccupato per due anni, e cercherò di rimanerci ancora per un altro anno», e questo è molto buono. In "Themroc" parlo di questo. Parlo anche del fatto che fare l'amore con tua sorella va bene, se lei è d'accordo. Dobbiamo farla finita con i vecchi tabù borghesi. Ho scoperto la libertà molto tardi. Mi riferisco alla libertà individuale, intima, che è molto importante.
Domanda: In che condizioni economiche è stato realizzato "Themroc"?
Faraldo: In "Themroc" ha lavorato molta gente, guadagnando però molto poco. La pellicola è costata 130 milioni di vecchi franchi. Ma l'importante è un'altra cosa. In "Themroc" ci sono alcune scene che si svolgono nella Metropolitana; io non potevo permettermi di pagare per avere i permessi, perciò siamo entrati con la forza e abbiamo girato le scene in un'ora e mezza, il tempo che ci volle loro per venire a proibirci di girare. Abbiamo girato mettendoci in mezzo alla gente con le videocamere, alle sei del mattino. La gente non guardava nella videocamera! Stavao in qualche modo costringendo le persone, era anche molto violenta, la cosa, abbiamo rischiato che ci spaccassero la faccia. Non lo dico per raccontare un aneddoto, ma per illustrare il contesto difficile in cui è stato realizzato il film. Tutto ciò sottolinea lo stile del film e presuppone un contatto molto reale con la vita, senza i trucchi del falso cinema-verità. C'è gente che mi dice: «Claude, è possibile scrivere dei buoni dialoghi. Non ti sei rotto i coglioni delle tue storie di operai che mandano tutto al diavolo?» Mi consigliavano di cambiare argomento, di fare film d'avventura. Forse avevano ragione. Però credo che quel che faccio non sia né facile né comodo. Giro un film perché ho un forte bisogno di collegarmi alle persone e mostrare determinate cose. Le mie pellicole sono reazioni vitali, non funzionano in riferimento ad altri film, oppure alla cultura in generale. Sono parte della mia vita. Non mi piacciono quelli che fanno film in un modo, e vivono la vita in un altro modo. Bisogna essere onesti e raccontare le cose che realmente si vivono, e in cui si crede. Per mezzo dei miei film, cerco di cambiare la mia stessa vita!
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