Ci stiamo perdendo un sacco di "western"! Parecchio, e parecchio buono, e questo avviene perché quasi nessuno lo legge. Quello scritto, è il miglior western che esista, e quest'opinione si basa sul fatto che il western nasce dalla realtà indiscutibile di un tempo che fu: quello in cui l'uomo aveva bisogno di mistificare un'epoca, la conquista di un territorio, doveva stabilire una frontiera e creare un nuovo mondo davanti ad essa. E allora, non aveva cineprese per aiutarsi a farlo. Lo fece, e assai bene, mettendo insieme una parola dopo l'altra: scrivendo. Oramai sono molte le generazioni che hanno avuto accesso al cinema e che sono arrivate a pensare che i film, in sé stessi, siano fondativi delle storie che narrano, solo a partire dal semplice fatto che le filmano. Sarebbe come dar valore all'opera di Omero, solo a partire da "Troy", di Wolfgang Petersen. Un Omero del selvaggio west; anzi, ce n'è più di uno! Scrittori di qualità straordinaria che superavano, di gran lunga, con le loro storie, gli adattamenti cinematografici. Altri, riposano più tranquilli, nelle loro tombe, sapendo che i miti dei quali sono gli autori sono stati trattati con giustizia e rispetto, dal cinema.
Per esempio, non fu John Ford ad uccidere Liberty Valance - servendosi della perizia di John Wayne, nell'uso del winchester; per lo meno, non è stato il primo a stendere quel mascalzone che usava, per castigare il prossimo, la frusta con un manico corto e grosso. A levarlo dal mondo, per prima, se ne occupò una donna, di nome Dorothy, usando l'arma del suo talento narrativo. Già, il Far West, questa specie di Valhalla di uomini duri e non rasati, uomini che bevevano il più cinematografico dei super-alcolici, questo mondo ce lo ha consegnato Dorothy M.Johnson, una signora! Senza macchina da presa, con la scrittura. La conosceva bene la qualità della scrittura di Dorothy, John Ford. Quel maniaco alcolizzato ne trasse profitto dal racconto sul sadico Valance, e riuscì a tirarne fuori tutta la scarna poesia che c'era, per farne un grande capolavoro. Certo, di capolavori, Ford ne realizzò almeno una dozzina. Ma dietro a ciascuno c'era dietro un grande scrittore. Non c'è da scandalizzarsi, è così che funziona il cinema.
In "Ombre Rosse", per esempio, si respira l'essenza della trama del racconto di Ernest Haycox, come è riconosciuto nei titoli del film. Ma il racconto di Haycox, pur notevole, è inferiore alla realizzazione drammatica della pellicola di Ford. Qualcuno dice che Ford si relazionò anche col racconto "Boule de suif", di Guy de Maupassant, cui la storia di Haycox si sarebbe ispirata. Invece, con ogni probabilità, la disperazione, il dolore la tragedia dei personaggi di "Ombre Rosse" si ispira al racconto di Bret Harte, "The Outcasts of Poker Flat". Una storia terribile, dove la sofferenza di alcuni poveri diavoli, scacciati da un villaggio - fucile alla mano - dal "comitato per la decenza", trascende i personaggi nel momento in cui devono confrontarsi con la morte collettiva, sulla sierra, per il freddo e la fame. Qui, l'autore tira fuori dai personaggi la parte più nobile, la migliore, quella della dedizione agli altri: come quando scoprono che la vecchia prostituta, la prima a morire di fame, giorno dopo giorno si privava della sua misera razione di cibo, per darlo alla ragazza del gruppo, quasi una bambina. Proprio come avviene in "Ombre rosse", dove la generosità trascende e rende grandi "gli espulsi", in una situazione di minaccia e pericolo per le loro vite. Bret Harte, un Omero, all'altezza di Dorothy M. Johnson, creatore ineguagliabile di tanti altri western, di cui noi - non leggendolo - ci priviamo.
Anche in un altro film di Ford - "Sentieri Selvaggi" - si nasconde Dorothy, fra una sequenza e l'altra. Scorre, dentro il film, come un ruscello, silenzioso e mite. Non si sa, o non si dice, però lei sta lì. Non dentro la sceneggiatura, ma nella sua carica drammatica. Sta dentro lo sguardo di disgusto e di odio immenso che Ethan rivolge alla pioniera pazza, salvata dall'esercito dopo essere stata rapita dagli indiani e che, fra grida e gemiti, afferra con disperazione una bambola di stracci, per poi cullarla nelle sue braccia. Uno sguardo femminile sulla devastazione che la guerra degli uomini produce.
Sta anche dentro il senso di inquietudine e di perdita, espresso dalla madre che vede il suo amato Ethan partire in cerca della banda di comanches che ha attaccato un ranch. Ford era come una sorta di spugna che assorbiva tutta la buona letteratura.
Ne "L'uomo che uccise Liberty Valance" prende parecchio della storia originale. Ci sono tre colonne portanti: il carattere sadico di Valance, l'atteggiamento sconcertante di Stoddard (Jimmy Stewart) e, soprattutto, la dedizione assoluta - per amore - di Donyphon (John Wayne). Un amore così potente che lo farà rinunciare all'amata in favore di Stoddard. Ford di suo, fra l'altro, ci mette la disperazione emotiva di Donyphon quando, ubriaco, brucia la sua propria casa; la casa che aveva costruito con le sue mani, per lei, la sua illusione, la sua vita.
I racconto della Johnson è superiore, almeno in uno delle due rimanenti colonne: la descrizione di Stoddard che viene ritratto come un irritante viziato dell'est, anche cinico. Capace solo di sentirsi motivato dall'odio profondo che prova per Valance, che lo ha umiliato, picchiato e abbandonato nel deserto. Paradossalmente, Valance acquista una luce quasi positiva perché tira fuori il peggio, da Stoddard (Ramsom Foster, nel racconto). Ford, invece, sceglie di ritrarlo, fin dal principio, come un nobile lottatore, poco portato per la vita del selvaggio west.
"Non ho potuto dare la vera risposta: egli era il mio nemico; egli era la mia coscienza. Lui mi ha reso quello che sono" - questo, il pensiero che il vecchio senatore Foster (nel racconto) non ha osato rivelare al giornalista, davanti al cadavere di Barricune (Donyphon, nel film), cui ha rubato l'illusione di vivere, strappandogli l'affetto dell'amata. "E' stato il mio amico per tutti questi trent'anni" - mente, invece.
Un estremo cinismo che non ha domicilio dentro la pellicola di Ford.
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