lunedì 24 dicembre 2012

la povertà dell’esperienza, e viceversa

Verrebbe quasi da considerarlo preveggente, questo scritto, questo frammento, di Walter Benjamin, risalente al 1933 e così attuale.
Un nuovo concetto, positivo, di barbarie, nel quadro della perdita dell'esperienza, e di una crisi economica alle porte, quasi inseguita dall'ombra di una guerra a venire. Vengono i brividi, pensandolo nell'oggi, questo frammento, mentre continuo a rileggerlo e mentre i secoli, e le barbarie, si confondono, per poi staccarsi nettamente su uno sfondo in cui, noi, continuiamo ad agitarci e ci apprestiamo a sopravvivere. Anche grazie a Walter Benjamin.

benjamin
Esperienza e Povertà - 1933 -
di Walter Benjamin

In tutte le nostre antologie scolastiche compare la favola del vecchio che, sul suo letto di morte, fa credere ai suoi figli che c'è un tesoro sepolto nella vigna. Non devono fare altro che cercarlo. I figli scavano, ma non c'è traccia del tesoro. Quando arriva l'autunno, però, la vigna fruttifica, come nessun'altra in tutto il paese. Capiscono allora che il loro padre ha voluto lasciare loro il frutto della sua esperienza: la vera ricchezza non risiede nell'oro, bensì nel lavoro. Sono le esperienze di questo genere, quelle che ci vengono contrapposte, minacciosamente o bonariamente, per tutto il tempo della nostra adolescenza: «E' ancora un moccioso e vuole mettere bocca.» « Hai ancora un bel po' da imparare.» L'esperienza, sappiamo perfettamente che cos'è: gli anziani l'hanno sempre consegnata ai più giovani. In modo conciso, con l'autorità dell'età, sotto forma di proverbi; in maniera più articolata, loquacemente, sotto forma di storie; perfino nei racconti di terre lontane, intorno al camino, davanti ai figli e ai nipoti. - Ora tutto questo è finito? Ci sono ancora delle persone in grado di raccontare delle storie? I moribondi pronunciano ancora delle parole imperiture, che si trasmettono di generazione in generazione, come un anello ancestrale? A chi, oggi, viene in mente di recitare un proverbio per tirarsi fuori dall'imbarazzo? Chi è che prova a chiudere il becco alla gioventù, invocando la propria esperienza passata?
No, una cosa è chiara; le quotazioni dell'esperienza sono crollate, ed è accaduto dentro la generazione che nel 1914-1918 ha fatto una delle più terrificanti esperienze della storia universale. Il fatto, perciò, non può essere così sorprendente come sembra. Non si poteva forse già allora constatare che le persone ritornano mute dal campo di battaglia? Non più ricche, ma più povere di esperienza comunicabile. Quello che si è riversato dieci anni più tardi nel diluvio di libri di guerra non aveva niente a che fare con una qualsiasi esperienza, perché l'esperienza si trasmette dalla bocca all'orecchio. No, questa svalutazione non ha niente di sorprendente. Perché mai le esperienze acquisite sono state così radicalmente smentite, come l'esperienza strategica è stata smentita dalla guerra di posizione, l'esperienza economica dall'inflazione, l'esperienza corporale dalla prova della fame, l'esperienza morale dalle manovre dei governanti. Una generazione che era andata a scuola sui tram tirati dai cavalli si è ritrovata in breve dentro un paesaggio dove più niente era riconoscibile, tranne le nuvole, ed in mezzo, in un campo di forze attraversate dalla tensione e dalle esplosioni distruttrici, i minuscoli e fragili corpi umani.
Quest'impressionante dispiegamento della tecnica ha piombato gli uomini in una povertà del tutto nuova. E tutto questo ha avuto, come altra faccia della medaglia, l'oppressiva profusione di idee che si desta nelle persone - o piuttosto: che si diffonde su di loro - la reviviscenza dell'astrologia e dello yoga, dello scientismo e della chiromanzia, del vegetarianesimo e della gnosi, della scolastica e dello spiritismo. Non tanto un'autentica reviviscenza, quanto una galvanizzazione, quella che qui si svolge. Pensate alle magnifiche pitture di Ensor, che mostrano le strade delle grandi città piene di tumulto, dove si riversa, non vista, una coorte di piccoli borghesi in costume da carnevale, con maschere ghignanti smorfie e fronti ornate da corone di paillettes. Questi quadri mostrano forse soprattutto la rinascita spaventosa e caotica nella quale tante persone ripongono le loro speranze. Ma noi qui vediamo, nel modo  più chiaro, che la nostra povertà d'esperienza non è che un aspetto di questa grande povertà che ha di nuovo trovato un volto - un volto netto e distinto che è quello del mendicante del Medio Evo. Cos'è allora che rimane del nostro patrimonio culturale, se non abbiamo più con esso, semplicemente, nessun legame di esperienza? Cosa ne consegua, dal simularla o ingannarla, il terribile miscuglio di stili e ideologie del secolo scorso, ce l'ha reso troppo chiaro, dimostrandoci quanto sia disonorevole confessare la nostra povertà. Diciamo la verità, la povertà non sta solo nelle nostre esperienze private, ma nelle esperienze di tutta l'umanità. E questo è un nuovo tipo di barbarie.
Barbarie? Certo. Lo diciamo per introdurre un nuovo concetto, positivo, della barbarie. A cosa è spinto, il barbaro, dalla povertà di esperienza? A ricominciare da capo, a ripartire da zero, ad accontentarsi di poco, a costruire con praticamente niente, senza volgersi né a destra né a sinistra. Tra i grandi creatori, ci sono sempre stati di questi spiriti implacabili, che cominciavano col fare tabula rasa. Volevano avere, per prima cosa, un grande tavolo da disegno; erano dei costruttori. Cartesio era uno di questi, che per tutta la sua filosofia volle una sola certezza: "penso, dunque sono", e da lì partì. Anche Einstein era un costruttore di tal genere cui, dell'intero vasto mondo della fisica, niente lo interessava più di una piccola, singola discordanza tra le equazioni di Newton ed i risultati delle osservazioni astronomiche. E lo stesso, identico, 'cominciare daccapo' lo avevano ben in mente gli artisti, come i cubisti, quando facevano riferimento alla matematica, e costruivano il mondo da forme stereometriche, o come Klee che si ispirava al lavoro degli ingegneri. Poiché le figure di Klee, si possono dire progettate praticamente sul tavolo da disegno, e come una buona automobile in cui, anche la carrozzeria, obbedisce agli imperativi della meccanica, esse rispondono, nell'espressione facciale, innanzitutto alla struttura interna. Alla loro struttura, più che alla loro vita interiore: è questo che le rende barbare.
Qua e là, le migliori menti hanno da lungo tempo cominciato a farsi un'idea a proposito di queste tematiche. Si sono caratterizzate per una totale mancanza di illusioni sul loro tempo e, ciononostante, per una pronuncia senza riserve in suo favore. Questo è il loro contrassegno. Lo stesso atteggiamento che si trova in Bert Brecht, quando osserva che il comunismo è l'equa distribuzione, non della ricchezza, ma della povertà, e quando il precursore dell'architettura moderna, Adolf Loos, afferma: "Scrivo per gli uomini con una sensibilità moderna (...) Non scrivo per gli uomini che si consumano di nostalgia per il Rinascimento o per il rococò." Un artista così complesso, come Klee, ed uno così programmatico, come Loos - entrambi rifiutano l'immagine umana tradizionale, solenne, nobile, fregiata di tutte le offerte sacrificali del passato, e si rivolgono al loro contemporaneo, spogliato di ogni ornamento, che piange come un bambino in fasce, le sudicie fasce di quest'epoca. Nessuno gli ha riservato un'accoglienza più gioiosa e ridente di quanto abbia fatto Paul Scheerbart. Ha scritto romanzi che, da lontano, assomigliano a quelli di Jules Verne, ma a grande differenza di Verne, nelle cui opere sono sempre presenti piccoli redditieri, inglesi o francesi, impegnati a volare in giro per lo spazio nei più fantastici veicoli, Scheerbart si è interessato al problema di come queste creature completamente nuove, amabili e curiose, i nostri telescopi, i nostri razzi ed aerei, trasformino il nostro uomo di ieri. Queste creature già parlano una lingua completamente nuova. Il fattore determinante in questa lingua è l'attrazione per tutto ciò che è parte di un piano deliberato di costruzione, soprattutto se in contrasto con la realtà organica. E' il segno inconfondibile del linguaggio umano - o meglio, delle persone - in Scheerbart. Proprio a partire dal rifiuto di qualsiasi somiglianza con l'uomo, il principio dell'umanesimo. Perfino nei suoi nomi propri: i personaggi, nel libro "Lesabéndio", si chiamano Peka, Labu, Sofanti e simili. Anche ai russi piace dare ai propri figli nomi disumanizzati. Li chiamano "Ottobre", come il mese della rivoluzione, oppure "Piatililitka", come il piano quinquennale, o ancora "Aviakhim", il nome di una compagnia aerea. Nessun rinnovamento tecnico della lingua, ma una mobilitazione della stessa al servizio della lotta o del lavoro; in ogni caso, la trasformazione della realtà, piuttosto che la descrizione.

Paul Scheerbart in the Glas Pavilion 1914

Scheerbart, per tornare a lui, attribuisce una grande importanza ad installare i suoi personaggi - e secondo tale modello, i suoi concittadini - in case degne del loro rango; dentro case mobili fatte di vetro, come Loos e Le Corbusier intanto hanno costruito. Il vetro, non è una coincidenza, è un materiale duro e liscio a cui niente si attacca. Ma è anche un materiale freddo e sobrio. Le cose di vetro non hanno "aura". Il vetro è soprattutto il nemico del mistero. E' anche il nemico della proprietà. Il grande scrittore André Gide ha detto una volta: ogni oggetto che voglio possedere, per me diventa opaco. Se persone come Scheerbart sognano case di vetro, non è forse perché sono gli apostoli di una nuova povertà? Ma forse un esempio ci dirà di più, a tale scopo, di quanto possa fare la teoria. Entrando in una stanza borghese degli anni 1880, in tutta la comoda e tranquilla agiatezza che essa irradia, l'impressione più forte è quella del "qui tu non hai da cercare niente". Non hai niente da cercare, perché non c'è angolo dove gli abitanti non abbiano lasciato un segno: i ninnoli sulle mensole, la coperta sulla poltrona, le vetrofanie alle finestre, il parafuoco davanti al camino. C'è una bella espressione di Brecht, che qui aiuta ad andare avanti, molto avanti: "Cancella le tracce", dice il Coro della prima poesia del Manuale per gli abitanti delle città. Qui, nel salone borghese, l'atteggiamento opposto è l'abitudine. E' l'interno, d'altra parte, che obbliga il suo abitante a prendere la maggior parte delle abitudini, le quali sono appunto commisurate assai più all'interno in cui vive, che a sé stesso. Per convincersene, basta riflettere sullo stato in cui cadevano quando nella loro dimora qualcosa andava in pezzi. Il loro stesso modo di irritarsi - e sapevano accentuare virtuosamente, questa passione che a poco a poco comincia ad estinguersi - era soprattutto la reazione di una persona cui viene cancellata ogni "traccia del suo soggiorno terreno". E da qui, Scheerbart con il suo vetro, e il Bahaus con il suo acciaio, sono riusciti a costruire spazi dove è difficile lasciare tracce. Tutto quello che è stato detto in questo libro - spiegava Scheebart più di vent'anni fa - ci autorizza a parlare di una civiltà del vetro [Glaskultur]. Il nuovo ambiente che trasformerà completamente l'uomo. E c'è da sperare soltanto che la nuova civiltà del vetro non trovi troppi avversari.
Povertà di esperienza: questo non va inteso come se gli uomini anelassero ad una nuova esperienza. No, essi aspirano ad essere esonerati una qualsiasi esperienza di sorta, desiderano un ambiente in cui possano far risaltare la loro povertà, quella esteriore e, in definitiva, quella interiore, in modo così netto e chiaro che ne possa venir fuori qualcosa di decente. Del resto, non sono sempre ignoranti o inesperti. Spesso, anzi, si può dire il contrario: hanno divorato tutta questa "cultura" e tutto "l'uomo", e ne sono stanchi e disgustati. Nessuno si sente coinvolto da queste parole di Scheerbat: "Siete tutti così stanchi - ed in realtà è solo perché non concentrate tutti i vostri pensieri intorno ad un piano semplice ma veramente grandioso." Alla stanchezza segue il sonno, e quindi non è raro che che il sogno compensi la tristezza e lo scoramento del giorno, rendendo la vita assai più semplice, ma grandiosa, realizzando qualcosa per cui, nello stato di veglia, manca la forza. L'esistenza di Topolino è uno dei sogni degli uomini di oggi. Un'esistenza piena di meraviglie che non solo superano quelle della tecnica, ma se ne prendono gioco. Perché quel che è più notevole, è che non mettono in gioco alcuna macchineria, ma saltano direttamente fuori dal corpo di Topolini, dei suoi complici e dei suoi persecutori, dai comuni mobili della casa, così come da un albero, dalle nubi o da un lago. Natura e tecnica, primitività e comfort, sono diventati perfettamente una cosa sola. E questo, agli occhi della gente, stancatasi delle complicazioni senza fine della vita quotidiana, e per cui il fine della vita affiora soltanto come un lontanissimo punto di fuga, in un'infinita prospettiva di mezzi, appare come liberatorio e liberante un'esistenza che basta a sé stessa, in ogni frangente, nel modo più semplice e più confortevole allo stesso tempo, dove un'automobile non pesa più di un cappello di paglia e il frutto dell'albero si gonfia velocemente come un pallone areostatico.
Ma manteniamo le distanze, facciamo un passo indietro!
Siamo diventati poveri. Pezzo dopo pezzo, abbiamo fatto scialo del patrimonio dell'umanità, lo abbiamo dovuto lasciare al Monte di Pietà, spesso per ottenere in cambio solo un centesimo del suo valore, in moneta corrente. La crisi economica è alle porte, dietro di essa un'ombra, la guerra che avanza. Rimanere saldi è ormai affare solo di pochi potenti che, lo sa iddio, non sono più umani di molti, anzi sono spesso più barbari, ma nel senso sbagliato. Tutti gli altri, quindi, devono arrangiarsi come possono, ripartire con un altro piede e con poca scelta. Fanno causa comune con quegli uomini impegnati ad esplorare delle possibilità radicalmente nuove, fondandosi sul discernimento e sulla rinuncia. Nei suoi edifici, fra i suoi dipinti e la sua storia, l'umanità si appresta a sopravvivere, se necessario, alla scomparsa della cultura. E quel che più importa è che lo fa, ridendo. Forse, a tratti, questo riso suona barbaro. Bene!
Talvolta il singolo può cedere un po' della sua umanità a quella massa che, un giorno, gliela renderà con interessi doppi.

- Walter Benjamin -

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