martedì 10 luglio 2018

Soggetti e No

king mist

La funzione degli individui nel capitalismo in crisi
- Brevi riflessioni a partire dalla letteratura di Stephen King -
di Joelton Nascimento

Nel racconto lungo di Stephen King, "La Nebbia" (1985), tutto ha inizio con una violenta tempesta. Poco dopo questa tempesta, una strana nebbia si impadronisce di una piccola città nell'entroterra del Maine, scenario preferito delle storie del Re. Un padre e suo figlio si recano in un supermercato, mentre la madre/moglie resta a casa. Padre e figlio, così come gli altri clienti del supermercato, rimangono sorpresi dall'improvvisa apparizione di terribili creature - metà insetti, metà mostri - che a quanto pare provengono da un esperimento militare sbagliato che ha avuto luogo in una base vicina. Decine di persone che rimangono bloccate in un supermercato stipato di merci e circondate da orrende creature assetate di sangue umano: è questo lo scenario in cui si svolge la trama di "The Mist", che nel 2007 diventa un film per la regia di Frank Darabont.
La storia può esser letta come un'allegoria del momento di crisi strutturale del capitalismo che stiamo vivendo [*1]. Persino in un mondo come il nostro, pieno zeppo di merci, anche così, siamo rimasti stupiti dalla mostruosa sorpresa dovuta al fatto che questo mondo non è esattamente quello che pensavamo che fosse. Abbiamo come la sensazione che degli esperimenti segreti, condotti da coloro che hanno il dovere di proteggerci e vigilare sulla normalità del nostro mondo, siano andati a finire male e che ora esistono dei mostri liberi di divorare le nostre "vite" o, meno drammaticamente, di divorare le nostre "economie", che fino ad un momento prima erano normali e relativamente sane. È questo l'aspetto che hanno le cose, nel senso comune. Fin qui tutto bene! Richiamo l'attenzione del lettore sul fatto che, quanto maggiore è la crisi, tanto maggiori sono le sue ripercussioni. Una crisi strutturale profonda può generare ansietà e, al limite, il panico. In una situazione di panico, siamo portati a fare cose che in generale non faremmo. Per di più, diamo ascolto a dei discorsi a quali, in altre situazioni, non concederemmo nessuna attenzione.
È questo quel che accade nel supermercato fittizio del racconto di King allorché, da un momento all'altro, molti cominciano a dar retta al discorso religioso fondamentalista della signora Carmody, una bigotta fino a quel momento inoffensiva per la comunità. Lei se ne viene fuori e comincia a dare una spiegazione bell'e pronta per spiegare come mai siano apparse queste creature, riuscendo a convincere tutti che la cosa fa parte di un piano divino di purificazione dei tanti peccati degli esseri umani, che devono essere redenti dai loro errori davanti a Dio ed ai suoi comandamenti, e così via.
Abbiamo visto come negli ultimi anni la destra politica, e anche l'estrema destra, si siano sempre più alzati in piedi per dire, come la signora Carmody, qualcosa che può essere riassunto come un «io so che cosa sta succedendo e so anche quello che dobbiamo fare per uscire da questa situazione». Ha fatto un discorso che, in alcuni luoghi, come in Ucraina ed in Ungheria, ha sedotto le classi medie, insegnando loro a marciare per il "valori tradizionali", Dio e famiglia, come se questo fosse un modo per affrontare la valanga della crisi economica del liberismo senza freni. [*2]
Non c'è alcun dubbio che il discorso reazionario sia incoerente. Porre valori come la "famiglia" o come "Dio" per far fronte alla complessità dell'economia capitalistica presumibilmente globalizzata, e alle sue paralisi e contraddizioni, alle sue crisi e alle sue distruzioni, è in po' come usare un fucile per fare il gelato, vale a dire, un puro disastro, qualcosa che è evidente di per sé.
Ma perché questo discorso assurdo riesce ancora a trascinare così tante persone? Per le stesse ragioni per cui la signora Carmody convince alcuni clienti del supermercato di Stephen King a fare dei sacrifici umani per placare l'ira divina: viviamo in una situazione perturbante in cui tutto appare essere fuori luogo, le persone sono scioccate, stordite, traumatizzate, sconvolte. In circostanze normali, nessuno presterebbe molta attenzione alla signora Carmody, ma in quel momento di crisi, lei sembra essere l'unica che continui a mantenere della convinzioni! Per cui allora la sua retorica «in fondo, non sembra poi così fuori luogo». Quelle che sono delle circostanze di emergenza richiedono certamente dei punti di vista e delle misure estreme, giusto? Ok. Poco a poco, ecco che la signora Carmody comincia a formare una piccola sezione di fondamentalisti.
Bisogna leggere il racconto, o vedere il film di Darabont, per scoprire cosa succede con la signora Carmody ne "La Nebbia". Ma l'Ucraina ha dimostrato che la destra non offre alcuna via d'uscita. L'unico motivo per cui è riuscita ad avere un discorso seducente, è stata l'audacia e la prontezza di proporsi come risposta ai problemi del momento. Quell'audacia che assai spesso manca a sinistra, la quale non di rado sposa in maniera passiva il compito di salvare il capitalismo, e dimentica che è possibile agire per la costruzione di un'alternativa sociale e strutturale a quello che è il "capitalismo del disastro" (Klein). Anche se non c'è nessuno veramente onesto e intelligente che abbia nella manica "l'uscita" dalla crisi strutturale del capitalismo che stiamo vivendo, tuttavia possiamo già dire NO! alla signora Carmody. [*3]
A partire dal momento in cui il Brasile è entrato al centro del turbinio della crisi economica, abbiamo anche visto nascere, in maniera ancora più accentuata a partire dal giugno del 2013, diversi nuovi "odi politici", dovuti principalmente all'incomprensione della natura, dalla totalità e dalla profondità della crisi strutturale in corso del capitalismo.

king zone

C'è un altro romanzo assai più vecchio di Stephen King che ci può aiutare a pensare questo problema che riguarda gli affetti politici in tempi di crisi, ed è "La Zona Morta", del 1979, il quale ha avuto anch'esso una versione cinematografica diretta da David Cronemberg nel 1983. Un insegnate di scuola superiore, John Smith, resta vittima di un grave incidente automobilistico e rimane per più di quattro anni in coma; al risveglio, oltre a dei lievi danni neurologici, acquisisce il misterioso dono di predire il futuro toccando le persone. Quando stringe la mano di un cinico candidato alle elezioni, Greg Stillson, Smith prevede il suo futuro come presidente degli Stati Uniti, e di come egli farà precipitare il mondo in una guerra nucleare di proporzioni bibliche, causando un'apocalisse globale. L'insegnate vive perciò il dilemma fra il dover agire in maniera drastica per evitare la catastrofe, e lo stare semplicemente a guardare aspettando gli eventi senza interferire con il destino. Lascio al lettore il compito di scoprire da solo quale sarà la decisione di Smith, sia nel romanzo di King che nel film di Cronenberg - in entrambe le versioni il finale è abbastanza simile. Qui richiamo l'attenzione del lettore sul fatto che in questa storia, l'apocalisse è vista come un futuro certo che viene considerato come se fosse la conseguenza dell'azione di un singolo uomo, e non di tutta un'epoca. Sembra che la tendenza all'individualismo abbia ripercussioni non solo sulla nostra concezione della vita nella società, ma anche sulla concezione della morte nella società.
Smith è convinto che Stillson sia qualcosa come un "anticristo" in grado di piombare, in gran misura per mezzo delle sue proprie azioni, tutta una società nelle tenebre del caos. Nei momenti di crisi, è cosa più che normale cercare quanto prima una narrazione confortevole nella quale sistemarci. A quanto pare, sembra che, come Smith, abbiamo bisogno di credere che le cause e gli effetti dei più grandi problemi che viviamo si inquadrino nel miglior modo possibile nei comportamenti soggettivi degli individui "chiave" della storia. [*4]
Questa convinzione deriva anche dal modo in cui intendiamo la politica nella modernità. La politica viene solamente praticata, per la maggior parte delle volte, come la presa di coscienza degli antagonismi e dei consensi in atto, in una data situazione. Pertanto, chi fa che cosa, con chi, perché, sotto quali bandiere e con quali risorse, tutte queste cose sono gli enigmi ai quali ogni e qualsiasi agente politico deve rispondere se vuole agire politicamente, quando ciò è nel suo interesse. È da questo che proviene la nostra fissazione sui tratti caratteriali visti come i tratti che definiscono il nostro destino: coraggio, amore, perseveranza, ma anche, cinismo, crudeltà e freddezza; chi sono gli amici e quali sono i nemici, e così via. Per cui i nostri destini sarebbero legati non ad una qualche astrazione, bensì piuttosto ai tratti concreti del carattere degli individui che, per opportunità del destino, si trovano in dei punti "chiave" dello sviluppo della storia. Il fatto di aver messo in moto dei processi storico-sociali che hanno luogo a prescindere dal nostro controllo cosciente, di solito non fa parte del modo in cui concepiamo generalmente il mondo in cui viviamo. [*5]

king wpping

Questa fissazione per i personaggi "chiave" della storia appare in maniera chiara in altre opere di Stephen King. Nel romanzo "22/11/'63" (2011), ad esempio, un altro insegnante, Jacob Epping, trova un modo per realizzare dei viaggi nel passato, più precisamente, in un determinato punto del passato, nel 1958. A partire da questo, pertanto, si rende conto che può modificare profondamente la storia, evitando l'omicidio di John Keneddy il 22 novembre del 1963. Epping è del tutto convinto che salvare la vita a Kennedy cambierà - in meglio - tutta un'epoca storica, ignorando il fatto che i profondi shock vissuti globalmente negli anni '60 e '70 sono andati molto al di là di quello che un politico avrebbe potuto fare - anche se stiamo parlando del presidente del paese più influente del mondo. Coloro che ritengono che i nostri problemi siano "politici" nel senso detto precedentemente, vale a dire, che sono il risultato dell'azione concertata ed orchestrata dei malvagi onnipotenti che controllano il sistema capitalista globale, e che devono essere combattuti da quelli che subiscono le conseguenze nefaste delle azioni di questi cattivi, non rimane altro che aggrapparsi a questo sentimento che muove i personaggi di Stephen King, come John Smith, Jacob Epping - ed in una qualche misura, anche la signora Carmody - per i quali alcune figure "chiavi" sono tutto ciò che abbiamo bisogno di estirpare per migliorare la situazione del mondo. A mio avviso, questa è una fonte inesauribile di odio politicamente orientato, piuttosto che una misera fonte per la vera emancipazione sociale.
Siamo parte dei principali problemi che invece pensiamo di trovare nei "cattivi" del nostro tempo. In generale, tendiamo ad acquistare l'idea secondo lo quale noi facciamo parte di quel 99% di innocenti, contro l'1% dei colpevoli, ma dall'altro lato, ad un certo livello, sappiamo che lo cose non stanno esattamente in questo modo: una catastrofe che ha le dimensioni di quella che si profila all'orizzonte dei nostri giorni non è opera di una minoranza malvagia, non importa quanto possiamo considerarla potente!
Come afferma Anselm Jappe, «in una società che non solo si basa sulla produzione delle merci, ma nella quale è il lavoro che le produce ad essere la principale relazione sociale, era inevitabile che, con il tempo, il narcisismo diventasse il tratto psichico più tipico» (2012, p.103).
E questo cosa comporta? «Il narcisista può apparire come se fosse una persona "normale", ma in realtà egli non ha mai abbandonato la sua originale fusione con il mondo circostante, e fa di tutto per mantenere l'illusione di onnipotenza che da questo gli proviene» (2012, p.128). E di conseguenza, continua, «Non per caso, troviamo in tutto questo la medesima perdita di realtà, e la medesima assenza del mondo - di un mondo riconosciuto nella sua autonomia fondamentale - che caratterizza il feticismo della merce» (2012, p.128-129). Quella che esiste, è una dimensione del mondo che può riuscire a sfuggire interamente alla libera volontà, propria o di altri, e che pertanto non è una creazione ideologica di un gruppo o di una classe qualsiasi, ma è il risultato di una socializzazione narcisistica che produce soggettività narcisistiche, anziché essere prodotta da esse, ed è qualcosa che difficilmente riusciamo a concepire.
I meccanismi impersonali della produzione e dello scambio sociale costituiscono fondamentalmente il capitalismo, a differenza di quanto avveniva in tutte le altre epoche della storia umana. [*6]
Il denaro, la forma della merce ed il lavoro salariato sono assai più che gli artifici con cui una classe inganna un'altra. Anche se il marxismo del movimento operaio possiede una forte retorica morale contro lo sfruttamento del lavoro, il capitalismo è il primo sistema ad estrarre vantaggi dall'attività umana che non dipende da relazioni personali dirette e, di conseguenza, esso è il sistema che meno può essere descritto e criticato come moralmente condannabile.
Tuttavia, non è questa la ragione della diffusa depressione sociale generalizzata, o dell'accettazione senza restrizioni della colpa e dei castighi che deriverebbero da tale colpa. Sì, siamo tutti partecipi, ed è proprio per questo che possiamo realizzare una trasformazione qualitativa nella nostra situazione sociale ed ambientale. Per farlo, dobbiamo abbandonare una volta per tutte la convinzione secondo cui abbiamo solo bisogno di sconfiggere, di annullare, o addirittura sterminare un determinato gruppo di persone, per poter risolvere i nostri grandi problemi: non c'è nulla che possa provenire da una simile convinzione, oltre l'odio che l'alimenta.

- Joelton Nascimento - Pubblicato su Baierle & Co. il 9 luglio 2018 -

NOTE:

[*1] - Descriviamo qui la crisi strutturale come un'altra modalità della crisi socio-economica capitalista che eccede quelli che sono i limiti della mera crisi ciclica. Attualmente, ci sono diverse letture della crisi vista nella chiave del suo carattere strutturale (cfr. MÉSZÁROS, 2009).

[*2] - Sembra che la situazione descritta negli anni '30 da Marcuse sia una costante nella storia del capitalismo: nei momenti critici, c'è sempre terreno fertile per una critica al liberalismo che viene fatta da destra (cfr. MARCUSE. 1997).

[*3] - È ovvio che esistono dei principi e delle premesse in grado di rendere chiara una ricostruzione della socializzazione che vada oltre il capitalismo: consiliarismo, autogestione, associativismo, (neo)comunismo; tuttavia, tutti questi principi non sono manuali d'istruzione nelle mani di individui e gruppi (soprattutto di quelli intelligenti e onesti) ma sono piuttosto dei punti di partenza per una difficile ricostruzione teorica e pratica di quello che deve essere un superamento a venire quasi completo. Non esistono mappe e riferimenti che ci possono guidare completamente in questo superamento, il quale, teoricamente e praticamente, rimane ancora da fare.

[*4] - Anche il marxismo tradizionale ha la sua narrazione confortevole. Secondo tale narrazione, la classe lavoratrice è l'unica forza capace di presiedere al superamento del capitalismo, per mezzo della sua volontà organizzata; ogni e qualsiasi tesi che sfugga seppur minimamente a questa narrazione viene subito considerata come appartenente al campo opposto, antagonista, "controrivoluzionaria”.

[*5] - Per una visione più dettagliata della questione della politica nel nostro tempo, cf. (JAPPE, 2013)

[*6] - Circa il passaggio dai feticci personali al feticcio della merce, cfr. (KURZ, 2014)

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Anselm Jappe - Sobre a Balsa da Medusa - Ensaios Acerca da Decomposição do Capitalismo
____________ - Crédito à morte – a decomposição do capitalismo e suas críticas

Stephen King - La Zona Morta
____________ - La nebbia (in Scheletri)
____________ - 22/11/'63

Robert Kurz  - Dinheiro sem valor - Linhas gerais para uma transformação da crítica da economia política.


Herbert Marcuse - O combate ao liberalismo na concepção totalitária de Estado. In Cultura e Sociedade. Volume I.

István Mészáros - A crise estrutural do capital.


fonte: Baierle & Co.

lunedì 9 luglio 2018

Leviatano invisibile

errore

L'errore della composizione e la legge della redditività
- di Michael Roberts -

Nell'economia ufficiale, viene spesso usato il concetto di "errore della composizione". In senso generale, l'errore della composizione insorge quando viene assunto che la somma di tutte le parti individuali sarà uguali al tutto. Qualche volta, non è così. Ci sono molti esempi: se durante un concerto ti alzi in piedi, di solito riesci a vedere meglio. Ma se si alzano tutti in piedi, avviene che tutti non riescono a vedere meglio, dal momento che questo causerà l'oscuramento della visuale della maggior parte dei partecipanti. Pertanto, ciò che potrebbe essere vero per un individuo nella folla, non è vero per tutta la folla. Questo fenomeno si verifica perché l'interazione dei comportamenti individuali può influenzare il risultato complessivo.
In economia, l'errore della composizione viene citato spesso. Paul Samuelson, nel suo onnipresente libro di testo per gli studenti universitari [Economia, edizioni Utet] ritiene che «nello studio dell'economia, l'errore della composizione sia uno dei più basilari e distintivi principi di cui si deve essere consapevoli». Ed esso viene invariabilmente usato dagli economisti keynesiani, nella loro difesa della spesa pubblica per il rilancio dell'economia. Questo è il Paradosso della Parsimonia. Cioè, la convinzione che se un individuo spendendo meno può risparmiare denaro, allora anche la società, o un'economia, può risparmiare più denaro spendendo meno. Ma se ogni famiglia riduce la spesa, allora la domanda di prodotti e di servizi diminuirebbe. Di conseguenza, le imprese dovrebbero abbassare i salari o licenziare gli individui. La gente avrebbe meno entrate e quindi risparmierebbe meno. In economia, quello che è vero per un individuo non è necessariamente vero per l'economia nella sua totalità.
In questo contesto, l'errore di composizione è stato usato dai kenesyani per attaccare il punto di vista della scuola neoclassica e di quella austriaca. secondo cui le economie sono come le singole famiglie. Una buona economia domestica è una buona politica economica. Ma se per la famiglia, tirare la cinghia può essere un bene, può non esserlo per l'economia nel suo insieme. Così i keynesiani dicono che non è un delitto avere un deficit di bilancio ed evitare "l'austerità", anche se questo significa aumentare il livello del debito pubblico.
Ora, ho già discusso molte volte a proposito del fatto se l'aumento del debito (pubblico e privato) conti o meno per l'economia capitalista, per cui qui non tornerò di nuovo sull'argomento.

Ciò che mi interessa è che l'errore della composizione si applica anche ad un'altra area: alla confutazione di una critica fondamentale alla legge di Marx riguardo la caduta tendenziale del saggio di profitto. L'argomento più moderno che viene proposto contro tale legge, è quello di Nobuo Okishio, un economista marxista giapponese [*1].  Okishio ha sostenuto nel lontano 1961 che nel capitalismo competitivo, un capitalista individuale che massimizzi i suoi profitti, adotterà una nuova tecnica di produzione solo se essa riduce i costi di produzione per ciascuna unità, o se aumenta i profitti per ciascuna unità al prezzo corrente. Così facendo, l'accumulazione capitalista deve portare ad una crescita del saggio di profitto, e non ad una tendenza alla caduta - diversamente, perché mai un capitalista dovrebbe investire in nuove tecnologie? E anche Marx è abituato a sostenere un simile argomento: « mai nessun capitalista introduce volontariamente un nuovo metodo di produzione ...nella misura in cui questo riduce il saggio di profitto».
Già, nessun singolo capitalista introdurrebbe una nuova tecnologia, a meno che questa contribuisse ad aumentare i profitti e le quote di mercato, il tasso di profitto individuale. Ma è qui che entra in gioco l'errore della composizione. Il capitalista innovatore batte gli altri capitalisti per mezzo dell'abbassamento dei costi di produzione, rispetto ai prezzi di mercato prevalenti. I suoi profitti aumentano. Ma quelli che sono i profitti degli altri capitalisti cominciano a cadere, via via che perdono il loro vantaggio competitivo. E quindi devono reagire introducendo la nuova tecnologia (o addirittura una tecnologia ancora migliore) che abbassi anche i loro costi. Ma a questo punto la produttività della forza lavoro esistente, che ora si è probabilmente ridotta, aumenta per tutti i capitalisti, e quindi abbassa il valore di ciascuna unità prodotta. Una volta che tutti i capitalisti hanno adottato la nuova tecnologia, la composizione organica del capitale (la proporzione di lavoro speso in attrezzature e in salari) andrà a crescere e, ceteris paribus, il tasso generale di profitto cadrà.

Il professor Simon Mohun ha fornito un eccellente esempio della teoria dei giochi al fine di mostrare perché l'innovazione nel contesto del capitalismo e della concorrenza possa portare ad una caduta del tasso medio di profitto, contrariamente a quanto afferma Okishio:
Ci sono due capitalisti: A e B. Ciascuno di loro inizia con una quota di profitto pari a 3. Se né A né B innovano al fine di ridurre i costi ed aumentare i profitti, sia A che B rimangono a 3.
Ma se A innova e B non lo fa; allora A ottiene un profitto più alto (4), mentre B perde mercato ed ottiene meno profitto (1).  In alternativa, se A non innova ed invece lo fa B, Allora è A ad ottenere 1, di profitto, mentre B ottiene 4.
Se invece innovano entrambi, allora sia A che B finiscono per ottenere 2.
C'è una spinta all'innovazione che fa sì che A o B potrebbero far sì che il loro profitto da 3 divenga 4. Perciò non ci può essere un accordo a non innovare, che lascia sia A che B ad un profitto di 3.
Ma se uno riesce ad innovare per primo ed ottiene un profitto di 4, allora deve farlo anche altro, oppure il suo profitto cadrà ad 1.
Innovando tutt'e due, si troveranno entrambi ad avere un profitto di 2, anziché 3 (che manterrebbero, se non avessero fatto niente!)
Quindi l'innovazione aumenta il profitto individuale di quello che dei due è leader.
Però, se eventualmente innovano entrambi, allora il profitto si abbassa.
Ancora una volta, questo avviene col tempo. Se A e B potessero introdurre simultaneamente l'innovazione (come presume Okishio), potrebbero di comune accordo decidere di non farlo, e rimanere così con un profitto di 3, anziché far cadere il loro profitto a 2. Solo che questa non sarebbe la realtà. La realtà è temporale!

Il teorema di Okishio è un esempio dell'Errore della Composizione.
Tale errore non fa altro che sommare semplicemente il guadagno di un singolo capitalista al guadagno di tutta l'economia capitalista nel suo insieme. Ma ciò che è buono per il singolo capitalista, non è buono per la redditività dell'intera economia capitalista nel suo insieme.
Quando lo fanno tutti, la redditività complessiva nel suo insieme, diminuisce!
Inoltre, dopo tutto, ogni singolo capitalista individuale non fa questo "volontariamente", ma lo fa per la necessità di competere e non perdere quote di mercato. Come dice Marx, la legge del valore e della redditività opera "dietro le spalle" dei capitalisti - non è è sotto il loro controllo cosciente! Per Adam Smith, si trattava della "mano invisibile" del mercato. Per Marx, tanto per usare la metafora di Murray Smith [Smith, Murray. Forthcoming, 2018. Invisible Leviathan (Second Edition): Marx’s Law of Value in the Twilight of Capitalism.  Leiden: Brill Academic Publishers (Historical Materialism Book Series)], si tratta di un "Levitano invisibile".

- Michael Roberts - Pubblicato il  30 maggio 2018 -

[*1: N.d.T.] : " Partendo da un apparato analitico simile a quello di Sraffa e da un altro contributo di Samuelson (1957), l'economista giapponese Nobuo Okishio ha potuto dimostrare un famoso teorema che ha preso il suo nome, in base al quale l'innovazione tecnologica non può che accrescere il saggio del profitto, contrariamente a quanto sostenuto con la marxiana legge della caduta tendenziale del saggio del profitto (N. Okishio, 1961)." (fonte: Wikipedia)

fonte: Michael Roberts Blog

domenica 8 luglio 2018

Cartilagini sanguigne

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« "Raccontami della nostra isola; è una bella terra benché popolata da somari. Gli Dei vi hanno soggiornato, forse negli Agosti inesauribili vi soggiornano ancora. Non parlarmi però di quei quattro templi recentissimi che avete, tanto non ne capisci niente, ne sono sicuro”.

Cosi parlammo della Sicilia eterna, di quella delle cose di natura; del profumo di rosmarino sui Nèbrodi, del gusto del miele di Melilli, dell’ondeggiare delle messi in una giornata ventosa di maggio come si vede da Enna, delle solitudini intorno a Siracusa, delle raffiche di profumo riversate, si dice, su Palermo dagli agrumeti durante certi tramonti di Giugno. Parlammo dell’incanto di certe notti estive in vista del golfo di Castellammare, quando le stelle si specchiano nel mare che dorme e lo spirito di chi è coricato riverso fra i lentischi si perde nel vortice del cielo mentre il corpo, teso e all’erta, teme 1’avvicinarsi dei demoni.

Dopo un’assenza quasi totale di cinquanta anni il Senatore conservava un ricordo singolarmente preciso di alcuni fatti minimi. "Il mare: il mare di Sicilia è il più colorito, il più romantico di quanti ne abbia visti; sarà la sola cosa che non riuscirete a guastare, fuori delle città, s’intende. Nelle trattorie a mare si servono ancora i 'rizzi' spinosi spaccati a metà?". Lo rassicurai aggiungendo però che pochi li mangiano adesso, per timore del tifo. “Eppure sono la più bella cosa che avete laggiù, quelle cartilagini sanguigne, quei simulacri di organi femminili, profumati di sale e di alghe. Che tifo e tifo! Saranno pericolosi come tutti i doni del mare che dà la morte insieme all’immortalità. A Siracusa li ho perentoriamente richiesti a Orsi. Che sapore, che aspetto divino! Il più bel ricordo dei miei ultimi cinquanta anni! “»

- da "La Sirena" (1958), di Giuseppe Tomasi di Lampedusa -

"Ebrei come Gesù, non se ne fanno più!"

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Chi altri avrebbe mai potuto scrivere una canzone country sull'Olocausto ("Ride 'Em Jewboy") oppure sulla storia di un uomo che si esibisce in un circo dentro un gabbia ("Wild Man from Borneo")?
Scandaloso e irriverente, ma quasi sempre stimolante, negli anni '70, Kinky Friedman ha scritto e cantato canzoni country satiriche ed è stato acclamato come il Frank Zappa della country music.
Figlio di un professore dell'Università del Texas che ha fatto crescere i suoi figli nel ranch di famiglia, a Rio Duckworth, Richard F. Friedman ha studiato psicologia all'Università del Texas, ed è stato in quel frangente che ha fondato la sua prima band. Ad ogni modo, "King Arthur & the Carrots" - un gruppo che si divertiva a suonare surf music - ha registrato un unico single, nel 1966. Dopo la laurea, Friedman ha servito per tre anni nei "Peace Corps" (era di stanza nel Borneo, dove lavorava anche come operaio agricolo.
Nel 1971, fonda la sua seconda band, Kinky Friedman & the Texas Jewboys. In linea con quella che erano le canzoni satiriche del gruppo, ogni membro della band aveva un nome politicamente scorretto: si facevano chiamafre "Little Jewford", "Big Nig", "Panama Red", "Rainbow Colors" e "Snakebite Jacobs". Friedman ha la sua occasione nel 1973, grazie a Commander Cody, che introduce il giovane cantante alla Vanguard Records. È questo l'anno in cui il suo gruppo incide il proprio album di debutto, "Sold American", in cui suonano e cantano anche John Hartford and Tompall Glaser.
La canzone che dà il titolo al disco è una storia amara che parla di un cantante country che è stato dimenticato, sul punto di morire alcolizzato. Il disco riesce a malapena a scalare le classifiche, ma Friedman riesce ad attrarre abbastanza attenzioni da essere invito al Grand Ole Opry. Così, nel 1974, registra per l'ABC Records il suo disco dal titolo "Kinky Friedman". Prodotto da Steve Barri, produttore pop di Los Angeles, l'album mette in fuga tutto il pubblico country che Friedman avrebbe potuto avere, ma, dall'altro lato, ha l'effetto di deliziare il crescente nucleo duro di suoi fan, con pezzi satirici come quella che è la sua risposta all'antisemitismo: "Non ne fanno più di ebrei come Gesù". Insieme alla satira, Friedman offre anche degli schizzi più delicati che dipingono la sfortuna americana, come "Rapid City, South Dakota."
A metà degli anni '70, Friedman e la sua band partecipano al tour insieme a  Bob Dylan & the Rolling Thunder Revue. Nel 1976 registra il suo terzo album, "Lasso from El Paso", al quale partecipano anche Dylan ed Eric Clapton. I "Texas Jewboys" si sciolgono tre anni dopo, e Friedman si trasferisce a New York, dove appare spesso al Lone Star Cafe. Nel 1983, registra e pubblica "Under the Double Ego", per la Sunrise Record.

kinky sigaro

In seguito, Friedman si dedica soprattutto a scrivere, anche se continua occasionalmente a suonare in pubblico . Ha scritto per riviste come "Rolling Stone" e "Texas Monthly" e, soprattutto diviene uno scrittore di romanzi gialli, unici ed oltraggiosi come "Greenwich Killing Time", "A Case of Lone Star" [in italiano, “A New York si muore cantando” (Feltrinelli 2000)] , and "The Mile High Club".
Equamente suddivisi fra fantasia e metafisica, i libri confondono finzione e realtà. Il protagonista, che mette in scena sé stesso, è un cantante country che è diventato il detective privato del Greenwich Village che si chiama... Kinky Friedman, il quale a volte torna nel suo nativo Texas. Ci sono anche altri personaggi, tratti dalla cerchia di amici sia in Texas che a New York.
Molte delle canzoni di Friedman degli anni '70 e dell'inizio degli '80 sono state antologizzate in una raccolta di due CD, "Old Testaments & New Revelations" (1994) e "From One Good American to Another" (1995).
Nel 1999, l'interesse di artisti come Willie Nelson, Tom Waits, e Lyle Lovett per la musica di Friedman, ha portato al tributo a lui dedicato, dal titolo "Pearls in the Snow: The Songs of Kinky Friedman", e ad un secondo tributo già previsto. Nel 2003, Friedman è apparso triplicamente nudo, mentre fuma un sigaro, sulla copertina del "Dallas Observer", in una parodia della copertina dell'Entertainment Weekly, dove apparivano nude le Dixie Chichs.

In tutti questi anni, Kinky Friedman è stato sicuramente un uomo occupato, destreggiandosi fra concerti ed attività extra-cantautorali, come campagne politiche, libri gialli e fabbriche di sigari, ma con tutta questa sua vorticosa attività, in tutto questo tempo, non ha mai pubblicato un album che contenesse tutti il nuovo materiale che era rimasto inedito in questi quarant'anni. Il cerchio si è chiuso proprio ora, all'inizio di quest'estate con "Circus of Life", un disco che affonda le sue radici in Texas e narra una sorta di autobiografia d'atmosfera, condita di meditazioni alla Leonard Cohen e sostenuta dalla collaborazione artistica del suo amico Willie Nelson.
Ed è stato ancora una volta proprio Nelson ad accendere il motore della scrittura di Friedman. Un pomeriggio, Nelson aveva telefonato a Kinky, che in quel momento stava guardando la replica di una vecchia puntata di Matlock. «Questo è sicuramente un segno di depressione, Kinky,» gli ha detto Willie Nelson, mentre in sottofondo si sentivano i suoni del telefilm. «Spegni Matlock e comincia a scrivere.»
Friedman ha seguito le istruzioni, riuscendo a mettere insieme uno sferzante album fatto di asciutto umorismo e di bellezza sfrenata. La canzone che dà il titolo al disco, "Circus of Life", che può essere ascoltata in anteprima su Rolling Stone Country, traccia quella che è una linea familiare fra tragedia e commedia, dove Friedman fa un parallelo fra una relazione d'amore infelice ed un carnevale degno del Circo Barnum. Anche per lui, nel disco, arriva un "little help from his friends", fra i quali più d'uno arriva dal Texas.

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Artist: Kinky Friedman
Title: Circus of Life
Year Of Release: 2018
Label: Echo Hill Records

Tracklist
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01. A Dog Named Freedom
02. Copper Love
03. Jesus in Pajamas
04. Circus of Life
05. Autographs in the Rain (Song to Willie)
06. Back to Grace
07. Sister Sarah
08. Song About You
09. Spitfire
10. Me & My Guitar
11. Zoey
12. Sayin' Goodbye

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sabato 7 luglio 2018

Equivoci

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Bianco, l’equivoco che fondò l’Occidente
- di Mauro Bonazzi -

Finalmente arrivato davanti al Partenone, Sigmund Freud aveva avuto un mancamento: «Dunque tutto questo veramente esiste?». René de Chateaubriand, invece, era stato sopraffatto dal piacere – un’emozione sempre più intensa che gli impediva addirittura di pensare – mentre l’Acropoli gli si manifestava in tutto il suo bianco splendore. Viaggiava «per incontrare i popoli», così aveva scritto, «e soprattutto i Greci, che erano morti». Sotto il cielo di Atene, di fronte a quei marmi candidi, aveva improvvisamente scoperto l’eternità. È il miracolo di cui avrebbe parlato Ernest Renan nel 1865, anche lui abbagliato dalla purezza del marmo pentelico («l’ideale cristallizzato del marmo pentelico») – qualcosa «che si è dato una volta soltanto, che mai si è visto e mai si rivedrà, ma il cui effetto durerà per sempre». Fidia, l’artista che aveva progettato quelle meraviglie, si sarebbe stupito di fronte a tutto questo entusiasmo per il bianco. Perché il Partenone era colorato, come aveva potuto verificare Louis Sébastien Fauvel, console di Francia ad Atene nel 1798: «Tout était peint!», tutto è stato dipinto.
Quella tra i Greci e i colori è una storia bizzarra, di cui hanno subìto le amare conseguenze generazioni di studenti impegnati in traduzioni quasi impossibili. Uno dei termini per il bianco è árgos, che però indica anche i lampi e i piedi che si muovono veloci, mentre chlorós, verde (si pensi a clorofilla), è sì usato per la vegetazione, ma anche per descrivere la sabbia sulla battigia, o il colorito pallido di chi ha paura, nonché la resina e il miele. Kýanos è usato per i capelli di Odisseo quando Atena lo fa bello: «scuri», verrebbe da tradurre, prima di scoprire che lo stesso aggettivo vale anche per i giacinti. Odisseo aveva i capelli blu? Disperato, qualche studioso ha concluso che i Greci vedevano le cose diversamente da noi. Improbabile, o meglio impossibile. I colori sono sempre quelli, e così pure noi. Ma i colori possono assumere significati e valori diversi nel corso del tempo, come ben mostra il caso del bianco, che per i Greci non aveva particolare importanza, anzi: di norma era associato al pallore delle donne costrette in casa. Nausicaa è «dalle bianche braccia», mentre Odisseo, dopo l’intervento di Atena, è melanchroiésha la pelle nera, letteralmente.
Anche per questo le statue erano colorate. E così pure i templi e persino i leggendari fregi del Partenone, ora al British Museum: erano blu, rossi e brillavano per le scaglie dorate. Sono poi stati sistematicamente sbiancati, non solo dall’opera del tempo ma anche dall’intervento di chi ha voluto riportarli (soprattutto nel XIX secolo) a un’inesistente condizione di purezza originaria. In un’epoca di accesi sovranismi e rivendicazioni identitarie, vale forse la pena tornare a riflettere su quello che lo storico Philippe Jockey ha chiamato, appena cinque anni fa, in un saggio mai tradotto in italiano, «il paradosso del Partenone»: il modello che sta alla base del «mito della Grecia bianca» non era bianco, perché il bianco, per i Greci, era il colore dell’incompiutezza, se non addirittura del disordine.

Sono piccole storie, apparentemente marginali, ma molto istruttive, perché ci aiutano a capire qualcosa di noi che altrimenti ci sarebbe sfuggito. Quale sia la posta in gioco, del resto, è chiaro, come ha scoperto Sarah Bond, una studiosa americana, l’estate scorsa. Aveva scritto su «Forbes» delle statue colorate; è stata ricoperta di insulti, e addirittura minacciata di morte. Il bianco, il colore apparentemente più neutrale e discreto, è in realtà quello più dirompente. È il colore che definisce una civiltà, la nostra, differenziandola e separandola dagli altri.
All’inizio si era trattato di un banale equivoco. Durante i secoli della tarda antichità e poi nel Medioevo le statue e i monumenti greci, caduti progressivamente in rovina, avevano perso i loro colori. Si era così diffusa la convinzione che fossero sempre stati così, come si vede in Andrea Mantegna e in tanti altri pittori rinascimentali. In quei quadri le rovine antiche sono sempre bianche, così come bianche saranno le statue che si scolpiranno seguendo quei venerati modelli. A qualcuno verrebbe in mente di colorare il David di Michelangelo? Il prevalere del bianco significa il prevalere della forma (il disegno), e quindi dell’ordine: questa è la lezione degli antichi. Poi le cose presero un’altra piega, proprio mentre gli archeologi iniziavano a trovare le prime tracce di colore. Queste nuove scoperte non avevano infatti minimamente impressionato il più grande studioso dell’arte antica, Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), che impose definitivamente il canone bianco: «Un bel corpo sarà tanto più bello quanto più sarà bianco», scrisse. Solo che questa celebrazione del bianco – della bellezza della forma e dell’ordine – si accompagna ormai a prese di posizione sempre più decise nei confronti delle altre civiltà, che questi vertici di ordine e compostezza non avevano saputo raggiungere.

Il mito dell’antichità bianca diventa così lo strumento che serve a isolare il mondo greco (e romano, perché ormai Grecia e Roma formano un tutt’uno) dalle altre civiltà del mondo mediterraneo – il mondo levantino, pieno di colori, languido e sensuale, caotico, torbido... Ecco insomma che il bianco inizia a giocare un ruolo decisivo nella costruzione identitaria di un Occidente sempre più esaltato nella sua presunta superiorità. Lette su questo sfondo le pagine del già citato Chateaubriand acquistano un valore sintomatico. Al tempo del suo viaggio Atene era una città ottomana, meticcia, piena di minareti e chiese, brulicante di genti provenienti da tutte le parti del Mediterraneo: l’ascesa verso il Partenone bianco e silenzioso, il viaggio di liberazione da questo mondo colorato e turbolento, diventa un viaggio di iniziazione verso la riscoperta delle proprie radici più remote. E la situazione non cambia – tutt’altro! – quando si entra nel Novecento, con le appropriazioni di nazisti e fascisti: dal film Olympia di Leni Riefenstahl (statue greche, bianche, che si trasformano in atleti, bianchi, e corrono verso Berlino) allo stadio dei marmi di Mussolini o alle pagine web dei suprematisti di Identità Europa gli esempi si sprecano e raccontano sempre la stessa storia.
E non si tratta di loro soltanto: la Casa Bianca dei presidenti americani, che riprende palesemente i propilei dell’Acropoli, ne è un’altra palese conferma. Il mito bianco della Grecia (e di Roma) costituisce una colonna portante della tradizione occidentale, ed è meno innocuo di quello che può sembrare. Ma se tutto in Grecia era colorato, è evidente che l’opposizione sfuma, e così pure le gerarchie. Meglio seguire la provocazione dei Bagni misteriosi di de Chirico, da poco restaurati alla Triennale di Milano: statue greche colorate, dapprima spiazzanti, ma poi affascinanti nella loro inattualità. La distinzione tra Occidente e Oriente, bianco contro colori, è fittizia, e non solo dal punto di vista cromatico, ovviamente. Come tutti i popoli, anche i Greci sono stati gelosi della loro identità e delle loro tradizioni, adottando anche politiche ostili nei confronti dell’Altro, si trattasse di immigrati o stranieri. Ma questo non ha impedito circolazioni, scambi, viaggi, che hanno progressivamente ampliato le loro conoscenze e prospettive, contribuendo allo sviluppo della loro civiltà. Come nel verso più bello di Seferis: «Intanto la Grecia viaggia, viaggia sempre».
La nostra storia è la storia di questi incroci, e dei tanti altri che ne sono seguiti. Dimenticarsene, riducendola in schemi di opposizioni binarie, non è solo sbagliato: è uno spreco d’intelligenza e ricchezza.
La sfida è piuttosto ricomporre questa varietà colorata in un disegno armonico: per creare quello che i Greci chiamavano kósmos, uno spazio ordinato in cui le differenze non sono annullate, ma organizzate. Non è vero, come troppo spesso si pensa, che il passato sia qualcosa di stabile, che basta ricostruire così come è stato. La memoria, quella collettiva non meno di quella individuale, è sempre selettiva, e muove le sue tessere in modo molto libero e spregiudicato. Ed è per questo che lo studio della storia è così importante: perché spiegandoci chi siamo stati, ci aiuta a capire chi vorremmo o potremmo essere.

- Mauro Bonazzi - Pubblicato sulla Lettura del 3 giugno 2018 -

Difendersi

auto

Una storia dell'autodifesa popolare
- di Zones subversives -

Di fronte alla repressione, l'autodifesa collettiva diventa una questione importante. La violenza della polizia riattiva questa dimensione. Le Pantere Nere rimangono l'esempio più emblematico di questa pratica di autodifesa nei confronti della polizia e dello Stato. Ma esiste anche tutta una genealogia di quella che è la difesa nei confronti degli oppressori, a partire dagli schiavi, fino ad arrivare alla difesa da parte delle donne. La filosofa Elsa Dorlin, nel libro "Se défendre. Une philosophie de la violence.", traccia un'archeologia di questa pratica.

Gli inizi dell'autodifesa
Il porto d'armi rimane controllato dallo Stato. Ci sono delle legislazioni che codificano tale pratica al fine di controllarne la sua pericolosità. «Quello che si voleva fare , attraverso la gerarchizzazione dei regolamenti stessi, era distinguere le condizioni, sedimentare delle posizioni sociali, vale a dire istituire un accesso differenziato alle risorse indispensabili per la difesa di sé », osserva Elsa Dorlin. Inizialmente, il porto d'armi è riservato alla nobiltà. Gradualmente, la scherma diventa uno sport.
Nel 1685, il Codice Nero proibisce il porto d'armi agli schiavi. Dall'altro lato, i coloni possono utilizzare le armi. È un vero terrore quello che viene imposto ai neri per poter impedire qualsiasi rivolta. Gli schiavi non hanno neppure il permesso di riunirsi per praticare le danze che diffondono una cultura marziale. Però, la Francia utilizza i maschi colonizzati per fare la guerra. I tiratori scelti africani sono considerati obbedienti.
In Francia, il dibattito che precede la Prima guerra mondiale solleva il problema dell'autodifesa popolare. La classe dirigente preferisce basarsi su un'élite militare, piuttosto che preparare le masse alla battaglia. L'armamento delle masse popolari renderebbe difficile la repressione dei movimenti sociali. All'inizio del XX secolo, le suffragette inglesi sviluppano l'autodifesa moderna. A partire dal fatto che l'oppressione delle donne è direttamente legata allo Stato, osservano che la rivendicazione di un'uguaglianza civile e civica non può essere domandata pacificamente ad uno Stato che istituzionalizza le disuguaglianza sociali. Per cui queste donne praticano il ju-jitsu. Tali tecniche di combattimento permettono di occupare in maniera diversa la strada e lo spazio. L'autodifesa femminista sviluppa un altro rapporto con il mondo, un altro modo d'essere. «Così, imparando a difendersi, i militanti creano, modificano il loro proprio schema corporeo - che diventa poi il crogiolo di un processo di presa di coscienza politica», analizza Elsa Dorlin. L'autodifesa permette di utilizzare la forza dell'avversario. Quest'arte marziale permette ai deboli di difendersi contro i forti.
Nel 1942, viene creata l'Organizzazione ebraica di lotta, per permettere la difesa del ghetto di Varsavia contro i nazisti. La scelta di combattere malgrado sia stata programmata la loro morte, consente una politicizzazione della vita. Questi ebrei preferiscono morire con le armi in mano. «Si tratta quindi di preferire la lotta al suicidio: per la maggior parte dei resistenti. il suicida spreca delle pallottole che avrebbero dovuto essere destinate ai nazisti», sottolinea Elsa Dorlin. L'autodifesa ebraica si sviluppa nella Russia della fine del XIX secolo, contro i pogrom e contro l'antisemitismo. Il Bund raggruppa i socialisti rivoluzionari ebrei. Crea dei comitati di difesa insieme agli operai non ebrei. Questi servizi d'ordine vengono mobilitati anche nel corso delle manifestazioni e dei grandi scioperi. Contrariamente al Bund, il partito sionista valorizza la difesa della comunità ebraica, ma non tenta di combattere l'antisemitismo in seno al movimento operaio.

Protesta afro-americana
Negli Stati Uniti, a margine della giustizia, vengono organizzati dei linciaggi. Vengono spesso attaccati dei neri ed esprimono il razzismo degli Stati del sud. Di fronte a questa violenza, a partire dagli anni 1910, degli intellettuali neri insistono sull'autodifesa. Ma i sostenitori dell'autodifesa armata vengono considerati vicini ai comunisti.
A partire dagli anni '50, le associazioni dei neri sono divise riguardo la questione dell'autodifesa. Spesso sono alla ricerca di una certa rispettabilità, e non vogliono essere associati ai comunisti. «Privilegiando una politica integrazionista delle minoranze razziali, queste associazioni continuavano a prendere le distanze rispetto ad una coalizione di lotta contro l'imperialismo ed a dissociarsi dai movimenti rivoluzionari di liberazione e di decolonializzazione su scala internazionale», osserva Elsa Dorlin.
Robert Williams, al contrario, ritiene che la violenza sia necessaria, per una questione di sopravvivenza. Quando la giustizia non persegue la violenza nei confronti dei neri, non rimane altro che difendersi da soli. Quindi, Robert Williams ritiene che la violenza rimanga il solo mezzo per rovesciare l'ordine sociale. «Secondo lui, la strategia della violenza difensiva si lega ad una dinamica insurrezionale, la sola capace di modificare in profondità i rapporti di potere», afferma Elsa Dorlin.
Il dibattito sulla violenza è riemerso negli anni '60. Malcom X si oppone a Martin Luther King che viene accusato di lasciare indifesi i neri. Con il Black Power, l'autodifesa diventa una politica assertiva. Permette di rivendicare un diritto negato e ripristinare l'orgoglio delle minoranze oppresse. Nel 1966 vengono create le Black Panters, le quali partecipano alla politicizzazione dell'autodifesa. Tentano di unificare la comunità nera contro le brutalità poliziesche, ma anche contro il capitalismo ed il colonialismo.
All'inizio degli anni '70, negli Stati Uniti, le Pantere Nere diventano un modello di autodifesa. Per costruire la loro lotta, i gay si ispirano a questo movimento. Il Gay Liberation Front (GLF) partecipa a numerose azioni con il sostegno delle Black Panters. In questo clima di protesta «l'articolazione delle lotte anticapitaliste, antirazziste e antipatriarcali è uno dei pilastri dell'analisi politica di numerosi movimenti coalizzati», osserva Elsa Dorlin. La polizia diventa un nemico comune.
Ma in seguito il movimento gay denuncerà le violenze patriarcali ed omofobe degli afro-americani. I gay non esitano a chiamare la polizia per difendersi contro altre popolazioni oppresse. Tuttavia, le Pantere Nere fanno dei passi avanti sulla questione. Denunciano il machismo esistente all'interno dei loro ranghi. Huey Newton chiama ad un'ampia coalizione di tutti i movimenti oppressi insieme alle donne e agli omosessuali. «Noi dobbiamo acquisire la sicurezza di noi stessi e quindi avere rispetto e sentimenti per tutte le persone oppresse», considera Huey Newton.

auto elsaFemminismo intersezionale
Il libro di Elsa Dorlin propone una riflessione su dei movimenti storici. Sviluppa delle connessioni fra lotte differenti al fine di tentare di collegarle per mezzo del concetto di autodifesa. Dall'altro lato, i passaggi più filosofici del libro rimangono astrusi. Le dissertazioni su Hobbes e Locke, oltre ad essere di difficile fruizione, non aggiungono granché al pensiero critico.
Elsa Dorlin si inscrive nella tradizione del femminismo intersezionale, da cui trae il meglio. Anche se questa corrente politica finisce per restare impigliata nella chiacchera filosofica o nell'obitorio sociologico, il suo approccio storico si rivela tuttavia stimolante. Elsa Dorlin si concentra sui movimenti reali e sulla loro esperienza di lotta. Riuscendo così a mostrare i punti di forza e le debolezze di ciascuna rivolta. Il suo femminismo intersezionale non consiste nel posare gli occhi su alcune oppressioni secondo una demagogia politica ben incarnata da Houri Bouteldja [Parti des Indigènes de la République (PIR)].
Al contrario, Elsa Dorlin cerca di prendere in considerazione tutte le forme di oppressione. Indica il razzismo che esiste presso alcune femministe. Sottolinea anche il machismo e la logica patriarcale che esiste nei movimenti afro-americani. Elsa Dorlin condivide le sue esperienze di autodifesa contro alcune specifiche oppressione. Ma tende a mostrare il loro orientamento a mettere sotto accusa tutte le oppressioni. L'autodifesa può quindi passare all'offensiva rivoluzionaria.
Elsa Dorlin sviluppa allo stesso tempo una certa concezione della lotta. Il suo libro permette di uscire dalla posizione della semplice vittimizzazione, oggi assai presente. Le campagne contro la violenza alle donne sono un buon esempio di questa posizione passiva della quale gli oppressi rimangono prigionieri. L'autodifesa permette alle vittime di organizzarsi per reagire e lottare. Alzare la testa ed affermare il proprio rifiuto.
Tuttavia, nonostante abbia tutte queste qualità, il libro di Elsa Dorlin riflette anche una certa sinistra postmoderna, con Foucault e Butler sullo sfondo. Questa corrente ideologica valorizza le micro-resistenze, piuttosto che i grandi movimenti di rivolta. L'intersezionialità consiste allora nell'aggiungere i collettivi che lottano contro delle oppressioni ben precise. Come la convergenza delle lotte, questa corrente vuole raccogliere i diversi settori isolati, continuando a mantenere le separazioni e le divisioni.
Al contrario, appare indispensabile affermare la necessità di un movimento di rottura con lo Stato, il capitalismo ed il patriarcato. Ciascuna lotta locale deve orientarsi verso una prospettiva globale. D'altra parte, dei movimenti di autodifesa possano isolarsi in una strategia identitaria o settoriale, senza prospettive trasversali. La valorizzazione di una cultura minoritaria rimane una posizione difensiva legittima. Ma essa deve anche sfociare in una prospettiva di trasformazione sociale. Le lotte femministe o antirazziste possono inscriversi in una prospettiva di rottura con il capitalismo. Questi movimenti sociali rendono quindi possibile diffondere delle pratiche di lotta che possono estendersi e generalizzarsi.

(Elsa Dorlin, Se défendre. Une philosophie de la violence, Zones - La découverte, 2017)

fonte: Zones subversives. Chroniques critiques

venerdì 6 luglio 2018

Permesso di ricordare

bolano

« Il rapporto esistente fra autobiografia e letteratura mi appare come del tutto casuale: vi sono scrittori che hanno condotto delle vite avventurose, ed altri che non sono mai usciti dai loro villaggi e dalle loro case, o più precisamente dai loro castelli, ed ogni scrittore scrive come meglio può e come lo lasciano scrivere. Salgari, per esempio, ha costruito l'Asia - non solo la Malesia - a immagine e somiglianza del suo desiderio, e non è mai uscito da Torino, o a Milano, ora non ricordo. Invece Raymond Russell, da parte sua, ha viaggiato in tutto il mondo, ma i suoi viaggi erano semplicemente un "pretesto per la mobilità", dal momento che non era interessato a nessuno di quei luoghi che visitava. Balzac era monarchico, e le sue opere sono profondamente repubblicane: ecco quello che è un viaggio incredibile. Stendhal ebbe una vita romanzesca, la quale però si riflette ben poco nella sua opera, dove il suo interesse viene riservato ad altre vite romanzesche, e non alla propria. Credo che in America Latina lo scrittore più autobiografico di tutti sia, contrariamente a quanto di solito crede la gente, Borges. Ad ogni modo, non ha importanza se i fantasmi provengono dalla realtà o dalla testa. Quel che conta è la biblioteca. Del resto, salvo alcune eccezioni, come quelle di Saint-Simon, o i ricordi d'infanzia di Perec, io detesto i libri di memorie. Di solito i libri di memorie sono magniloquenti, a volte a partire dal titolo stesso; si pensi, fra gli altri, a "Confesso che ho vissuto", un titolo stupido come pochi, dal momento che nessuno, nemmeno il torturatore più scemo, cercherà di far confessare a qualcuno di aver vissuto! Una risposta stupida ad una domanda inesistente. La letteratura latinoamericana, o quello che con autosufficienza da imbecilli chiamiamo letteratura latinoamericana, è piena di libri di memorie, scritti, nella loro maggioranza, da persone molto ignoranti o molto noiose. Infatti, gli unici ai quali dovrebbe essere permesso di scrivere libri di memorie sono gli avventurieri sanguinari, le attrici di film porno, i grandi detective, i trafficanti di droga, i mendicanti. »

(Roberto Bolaño - Entrevista en el diario El Mercurio - Santiago de Chile, 18 de abril de 2003)

Storia e Natura

cnosso

Domande sul passato tra Minosse e technicolor di Evans
- di Massimo Natale -

La vigilia della mia visita a Cnosso è una festa di paese, in una fortezza veneziana diroccata sul mare di Libia, nell’estremo sud dell’isola-gigante. Ci passo qualche ora, osservando un po’ in disparte i capannelli dei greci che cuociono carne, e soprattutto le danze. Uomini e donne si tengono per mano, e muovendosi disegnano un circolo, sospesi fra la serietà del gesto e un’allegrezza che trattiene qualcosa di malinconico. Si nutre, questa danza, come di un senso di perdita, un sentore incerto del tempo profondo da cui viene. Sono le stesse danze in cui in molti, fino a Karl Kerényi, hanno intravisto per un attimo l’ultima ombra di Arianna, la Signora del Labirinto cretese («anche Omero - ricorda il Kerényi di Nel labirinto - dice che giovani e fanciulle, danzando, “si tenevano per i polsi”»).

Una selvaggia e spoglia semplicità
Il giorno dopo l’aria delle cinque del mattino ha allontanato ogni aroma, il vento è fatto solo di se stesso. Batte potente, fa oscillare la piccola Matiz su cui mi sposto. Per raggiungere il sito archeologico, partendo dai dintorni di Chora Sfakion, servono quasi tre ore, si deve risalire fino alla costa opposta - quella settentrionale, più addomesticata, lungo cui si snoda la Strada Nazionale - fiancheggiando intanto gole e paesi, zigzagando fra strade spesso sterrate, su cui si rischiano le gomme. Le guide turistiche insistono sulla pericolosità delle strade dell’isola, ma in fondo è anche grazie a queste strade se molti luoghi, a Creta, restano intatti. Forse solo Creta, con la sua selvaggia, spoglia semplicità, ha la forza - magari inconsapevole - di continuare a mettere un bastone fra le ruote dei secoli, di far aspettare il capitale e il mercato come ospiti di nessun riguardo, lasciandoli ancora - almeno per un poco - fuori dalla porta. A questo penso, mentre raggiungo la Nazionale che congiunge l’Ovest all’Est, fino a Sitià, ma a me basta arrivare a Heraklion, uscire dalla strada principale e fare un’altra manciata di chilometri fino alla meta.
L’ultimo tratto è un susseguirsi di negozi, bancarelle e gru, asfalto e polvere, arbusti, supermarket dai nomi mitologici – Pasifae, Teseo -, è la prima periferia di una città mercantile greca. A Creta - specie nel sud, che ho appena lasciato - si ha spesso la tentazione di pensare alla Storia come a un’ipotesi pronta a essere abolita, un minuscolo intervallo nel battere e levare della Natura. I segni del passaggio degli uomini - anche i più recenti - mostrano tutta intera la loro provvisorietà. Mentre aspetto di vedere le indicazioni per il parcheggio, sfilo di fianco a Villa Ariadne. Sir Arthur Evans la fece costruire nel 1906, sei anni dopo l’inizio degli scavi sul colle di Képhala, e la scelse come alloggio. La sua ultima visita a Cnosso è del 1935 - Evans morirà novantenne, nel luglio del ’41. Due mesi prima, in maggio, un altro mostro infernale, dopo il Minotauro, mette Creta sotto scacco: l’esercito tedesco lancia l’Operazione Merkur per la conquista dell’isola. Lontana dal ruolo pensato per lei da Evans - che nel 1926 l’aveva donata alla British School of Archeology di Atene - Villa Ariadne è destinata a diventare il quartier generale delle truppe naziste. Proprio sulla strada che da Archanes - un villaggio a non più di un quarto d’ora di macchina - conduce fino a qui, nella primavera del ’44 il generale Heinrich Kreipe veniva fatto prigioniero da un maggiore inglese nemmeno trentenne, Patrick Leigh Fermor, che proprio alla Grecia - al Mani soprattutto, e al continente - avrebbe dedicato, molti anni dopo, alcune fra le sue più straordinarie pagine di viaggio. Storia antichissima e storia recente, in questa polvere, sembrano toccarsi.

Il busto in giacca e cravatta
Acquistato il biglietto d’ingresso mi fermo al bar, passo oltre il busto di bronzo in cui Evans è ritratto in giacca e cravatta, comincio disordinatamente la mia visita. Creta è l’isola del passato, un luogo che mette in questione il nostro rapporto con esso, rendendone così più chiara tutta la sua mutevolezza e inafferrabilità. Anche a Cnosso: la più moderna filologia - mentre non smette di lasciarsi affascinare dall'enigma del labirinto, emblema del luogo - ha prontamente condannato l’archeologo inglese e il suo rapporto disinvolto con la storia. L’accusa è chiara. Sul bianco e nero della pietra - per esempio quella della sala del trono di Minosse, riportata letteralmente alla luce il 13 aprile del 1900 - si è abbattuto il technicolor di Evans: colonne arbitrariamente rivestite di un rosso acceso, fregi su cui delfini di un blu intenso inseguono pesci più piccoli, pareti che vedono sporgersi le teste leonine dei grifoni a custodire il trono - mi chiedo se anche la sedia di gesso sia un falso. Tutto questo convive con i muretti irrimediabilmente spaccati, scale originali che aggettano sul vuoto, basamenti divelti. Nel Megaron della Regina - un’altra delle stanze più importanti dello scavo - dietro le figure di donne che vorrebbero restituire almeno un qualche sapore dell’arte minoica, si insinua la traccia dell’art nouveau, che affiora nelle pennellate di Emile Gilhéron, pittore svizzero praticamente coetaneo di Evans, che lavorò - ma le guide, a quanto pare, difficilmente lo raccontano - a integrare i più importanti affreschi del Palazzo. Ai viaggiatori italiani - peraltro molto fieri di altri e ben diversi scavi, quelli di Festo, a una cinquantina di km da Cnosso - il lavoro di Sir Arthur è parso presto di dubbia tenuta: «colori moderni da cartellone» - scriveva Mario Praz di questi affreschi rimaneggiati -, pittura degna di «decorare una nursery». Ma un posto di prima filaria i «nomi esecrandi» decretava, per Evans, soprattutto il Cesare Brandi del Viaggio nella Grecia antica, che si inaugura proprio con alcune pagine cretesi.

La fontana Morosini
Gli appunti di Brandi si trasformano in una vera e propria invettiva contro Evans, nella precisa e sacrosanta richiesta, per l’archeologo, di assolvere al proprio ruolo di conservatore mettendo a frutto la propria competenza di filologo, senza cedere alla voglia di seduzione - specie se molto arrischiata, come quella praticata da Evans. Ne rileggo qualche passaggio, verso la fine della mattinata, lasciato Cnosso e giunto ormai nel centro di Heraklion, seduto in un brutto bar di tendenza, non lontano dalla fontana Morosini - altro pezzo di Venezia trapiantato a Creta, altro tassello di passato scombinato, ora quasi muto. Non so perché, non riesco ad abbracciare del tutto il pur giusto sdegno di Brandi. Forse perché si sente in queste sue righe, al fondo, una fiducia nel rileggere il passato che resta sempre intera, troppo certa. Preferisco, ai toni di invettiva, lo sguardo che improvvisamente si getta sul fuori-dalla-storia, il Brandi distratto dalla potenza della natura primaverile. Lo sguardo che cattura le «grazie insinuanti di fiori inattesi: prati interi di anemoni bianchi e spauriti con un capino nero al mezzo, come pierrot lunari».
Lo si cerchi sotto una parete mal ridipinta o sotto la nuda pietra battuta dal sole, il senso del passato, la forma di un’intera civiltà della quale anche l’alfabeto ci resta per lo più indecifrabile, sembra non smettere di sfuggirci. Siamo condannati a lasciarlo scivolare via, sempre più altrove. Guardando una cartolina del disco di Festo - un altro enigma minoico, conservato nel Museo Archeologico di Heraklion, dove l’ho appena comprata - mi accorgo intanto che gli anemoni fioriscono anche sulla sua argilla. Uno sta proprio al centro del disco. Non sappiamo cosa significhi quel fiore, perno perfetto dei suoi pochi centimetri di diametro. Lo immagino bianco. Anche gli anemoni trascolorano in storia, in attesa di rifarsi natura? Sono prima storia o prima natura? Chissà.

- Massimo Natale - Pubblicato su Alias del 6/8/2017 -

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giovedì 5 luglio 2018

Nostro Messico…

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Messico: violenza, corruzione e disuguaglianza - arriva AMLO ?
- di Michael Roberts -

La vittoria alle elezioni presidenziali messicane di Andrés Manuel López Obrador (AMLO), avvenuta sotto le bandiere del suo relativamente nuovo partito "progressista" Morena, riesce simultaneamente a sorprendere e a non stupire. La sua vittoria non è sorprendente, in quanto AMLO era partito nei sondaggi che hanno preceduto le elezioni, con un enorme, e sempre più crescente, vantaggio. E gli 88 milioni (su 127 milioni) di messicani che lo hanno votato, assegnandogli così la più grande vittoria nella storia delle elezioni del dopoguerra, con oltre il 53% di preferenze. Per la prima volta, il partito delle élite e dello status quo si è diviso su chi avrebbe dovuto essere il loro candidato standard. Ed è stata la pura rabbia e la frustrazione dovuta alla situazione economica messicana e alla vita quotidiana del cittadino medio, che ha trascinato al comando AMLO. Ma allo stesso tempo, il risultato riesce a sorprendere, perché l'immenso potere delle classi dominanti, in grado di "aggiustare" il risultato elettorale (come hanno fatto per i mandati precedenti), o di trovare un modo per fermare politicamente AMLO, ha fallito. Naturalmente, i tribunali messicani potrebbero ancora tentare di ribaltare il risultato, a parte da delle presunte "irregolarità", ma la dimensione della vittoria di AMLO è tale che un simile trucco con ogni probabilità non avrebbe alcuna chance di successo. Morena, il partito di AMLO, ha inoltre ottenuto la maggioranza al Congresso messicano, ed ha vinto almeno cinque governatorati, incluso quello di Città del Messico dove è stata eletta per la prima volta una donna sindaco, Claudia Shienbaum. Ma Morena è anche alleata con un piccolo partito estremista fondamentalista cristiano, il quale potrebbe tentare di moderare quello che vuol fare la nuova amministrazione, in particolare riguardo le questioni sociali e quelle legate alla "famiglia". AMLO ha vinto perché ha portato avanti una campagna legata a tre questioni chiave, le quali fanno infuriare e coinvolgo in messicani: l'aumento dilagante della violenza quotidiana in tutto il paese; la corruzione endemica diffusa fra i politici ed i funzionari; e l'altissima sempre più crescente disuguaglianza fra ricchi e poveri.

mexico-2 omicidiIn media, in Messico, nel messe di maggio, ogni quindici minuti è stato ucciso qualcuno, e questo ha messo il paese nelle condizioni di poter superate il record dello scorso anno, con 29.168 omicidi. Sono aumentati anche gli omicidi politici, con 130 politici, inclusi 48 candidati ad una carica che sono stati uccisi dall'inizio del ciclo elettorale di settembre, secondo Etellekt, agenzia di consulenza politica.
Dietro questa violenza si trova la battaglia in corso fra i cartelli della droga, il crimine organizzato e la criminalità in generale, che viene spesso risolta per mezzo dell'omicidio. Inoltre la polizia lamenta una carenza di personale, o di sostegno da parte del governo, oppure addirittura il fatto che entrambi - polizia e governo - sono in combutta con i criminali. La corruzione è integralmente legata agli enormi profitti che vengono realizzati dalla produzione e dal traffico di droga, e da altre attività criminali. Riguardo tutto questo, i politici che fanno parte dei partiti istituzionali ci sono stati dentro fino al collo. La posizione del Messico, nella classifica della corruzione globale non è mai stato così alto.

mexico-4 corruzione

Il paese è stato scosso da un susseguirsi di scandali legati alla corruzione, fra i quali quello di Javier Duarte, un governatore del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) che è fuggito con un elicottero del governo dopo essere stato accusato di corruzione, e la cui moglie recentemente si è trasferita in un lussuoso esilio in uno dei quartieri più eleganti di Londra. Il governo del presidente Enrique Peña Nieto è stato oggetto continuo di scandali praticamente dal momento in cui è entrato in carica. La moglie ha acquistato a condizioni favorevoli, da un appaltatore governativo, una casa costruita su misura. Poi c'è stato l'insabbiamento dell'orribile scomparsa di 43 studenti universitari, l'utilizzo di sofisticati spyware acquistati dal governo per monitorare giornalisti ed avvocati difensori dei diritti umani, mentre c'erano alti funzionari che sottraevano fondi pubblici per pagare le campagne elettorali del loro partito.
AMLO aveva promesso di mettere fine alla corruzione - ma come questo dovrebbe avvenire continua a non essere chiaro. AMLO ha dichiarato che permetterà che dopo due anni ci possa essere una richiesta di revoca dei mandati dei funzionari in carica d (inclusa la presidenza), che venderà l'areoplano presidenziale e che vivrà solo in modesti appartamenti.
AMLO dice che difenderà i poveri (più di 50 milioni di messicani vengono definiti tali), innanzitutto contro i ricchi. E questo è il terzo argomento che ha portato alla sua vittoria elettorale. Nel XXI secolo, il Messico è una delle società più ineguali del mondo, superata solo dal Sudafrica del dopo-apartheid. Recentemente la statunitense "Brooking Institution" ha calibrato quella che è l'unità di misura per la disuguaglianza in un paese, il coefficiente Gini. Più il Gini si avvicina ad 1, più è alto il livello di disuguaglianza. Secondo le nuove stime, il coefficiente Gini del Messico per l'anno 2014 è salito, da un già alto 0,49, fino ad un mega 0,69, vicino a quello del Sudafrica, il paese nel modo che ha lo squilibrio maggiore.

mexico-5 GINI

Dietro la sconvolgente storia di violenza, corruzione e disuguaglianza si trova la situazione stagnante dell'economia messicana. Secondo il suo PIL, il Messico è il 15° paese del mondo, ed il secondo dell'America Latina. È abbastanza avanzato da poter essere incluso nei top 30 delle economie dell'OCSE. Eppure si trova in uno stato miserabile. La disuguaglianza non è solo quella fra ricchi e poveri, ma ha che fare anche con lo sviluppo irregolare dell'economia sotto il capitalismo. Fra il 2007 ed il 2016, la crescita economica cumulativa negli Stati messicani che hanno conseguito i migliori risultati ha raggiunto il 32%, circa il doppio rispetto a quella che è la media dell'America Latina. Ma questo però è circa quattro volte quello che è il tasso di crescita degli Stati messicani a basso rendimento. La produzione pro capite mostra lo stesso percorso divergente.
Ad esempio, in Oaxaca e in Chiapas circa il 70% della popolazione si trova in povertà, ed il 23-28% in estrema povertà, secondo i dati provenienti dal National Council per la valutazione dello sviluppo socio-politico (CONEVAL). Contrariamente a quelle che sono le opinioni dell'economia ufficiale, il NAFTA, l'accordo commerciale del 1994 con gli Stati Uniti ed il Canada, non ha portato avanti l'economia messicana. Infatti, laddove l'economia messicana è più che raddoppiata raggiungendo il 16% di quella che era la produzione statunitense della metà degli anni '80, da allora è diminuita fino ad arrivare al 12%.
La produzione messicana, per ore lavorate, rispetto a quella degli USA si avvicina a quello che era il suo livello più basso dal 1950. Il NAFTA, ben lungi dal potenziare le prestazioni economiche del Messico, ha fatto aumentare la sua dipendenza dal commercio e dagli investimenti degli Stati Uniti, rinchiudendolo nelle misure neoliberiste degli anni '80 e facendo aumentare le disparità fra le aree di confine statunitense ad alta crescita, con le loro zone economiche speciali, e le povere regioni rurali del sud. Ed ora, il presidente degli Stati Uniti Trump sta insistendo per rinegoziare in modo da renderlo ancora più favorevole agli Stati Uniti.
Inoltre, come sostiene l'eccellente rapporto del CEPR, se il Nafta fosse riuscito a ripristinare in Messico quello che era il tasso di crescita precedente agli anni '80, oggi il Messico sarebbe un paese ad alto reddito, con un reddito pro capita significativamente più alto di quello del Portogallo o della Grecia. È improbabile che la riforma dell'immigrazione possa diventare una questione politica importante per gli Stati Uniti, dal momento che sono relativamente pochi i messicano che cercano di attraversare il confine.

mexico-7 poverta

Il tasso di povertà del Messico, del 55,1% nel 2014, era più alto del tasso di povertà del 1994. Perciò, nel 2014 (gli ultimi dati disponibili) c'erano circa 20,5 milioni di messicani che vivevano al di sotto della soglia di povertà, rispetto al 1994. Dal 1994, i salari reali hanno fatto scarsi progressi. Dal 1994-1996, c'è stato un calo dei salari reali pari al 21,2%, associato alla crisi del Peso e alla recessione. Fino al 2006, 11 anni più tardi, i salari non hanno recuperato il loro livello precrisi (1994). Nel 2014, erano solo il 4,1% a trovarsi al di sopra del livello del 1994, e a trovarsi appena sopra il loro livello del 1980. Col salario minimo, corretto a causa dell'inflazione, andava ancora peggio. Dal 1994 al 2015, è diminuito del 19,3%.
Come risultato della bassa redditività e degli investimenti, insieme all'impatto dovuto all'accordo del NAFTA, l'economia messicana ha sostanzialmente ristagnato. La ragione risiede nel fallimento del settore capitalista messicano. Il "periodo neoliberale", a partire dai primi anni '80, e poi governato da tutte le successive istituzioni, favorevoli all'economia messicana, hanno frenato in qualche misura la caduta della redditività del capitale messicano, ma hanno fallito nel far ripartire la redditività, allo stesso modo in cui la cosa è avvenuta nella maggior parte delle altre economie capitaliste.

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La lenta crescita economica nel periodo successivo al crollo globale delle finanze pubbliche, in quanto lo Stato ha dovuto prendere in mano i conti del fallimento del settore privato. Fra il 2008 ed il 2018, il debito pubblico è cresciuto dal 21% del PIL nel 2008, fino al 45,4% del PIL nel 2018. La manutenzione di tale debito, ora assorbe il 20% in più delle entrate governative rispetto a quelle che nel budget federale vengono destinate alla sanità, all'istruzione e alla riduzione della povertà. È questo l'onere che verrà ereditato da AMLO!

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L'OCSE, il principale promotore di misure neoliberiste in Messico, afferma che «la crescita è destinata a salire, sostenuta dai consumi privati e dall'esportazione.» Ma la stessa OCSE calcola anche «l'incertezza (con Trump) continuerà a frenare gli investimenti privati». Tuttavia, «gli investimenti privati potrebbero avere un rapido incremento se i negoziati del NAFTA si dovessero concludere favorevolmente». E così continua a chiedere "riforme strutturali" (vale a dire misure neoliberiste di tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni) «per rafforzare lo stato di diritto e migliorare la qualità istituzionale.» (!).
Nonostante l'ottimismo dell'OCSE, dalla fine della Grande Recessione gli investimenti del settore capitalista sono rimasti stagnanti o sono calati. E questo perché, dalla Grande Recessione, la redditività del capitale messicano non si è più ripresa, almeno secondo quello che è il tasso di rendimento netto secondo i dati patrimoniali forniti dall'AMECO. In realtà, la redditività si trova ancora a circa il 18% al di sotto del livello del 2007, e del 28% al dis otto del picco neoliberista del 1997.

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Il programma di AMLO è fondamentalmente keynesiano, e intende utilizzare gli investimenti pubblici per "dare una spinta" all'investimento privato e sostiene che quel denaro che dovrebbe provenire dalla minore corruzione fornirà i finanziamenti. Ma non intende tornare indietro rispetto alla parziale privatizzazione della PEMEX, la compagnia petrolifera statale, o mettere fine al progetto del nuovo "incubo" dell'aeroporto di Città del Messico - solo per considerare la "revisione dei contratti". Ma come può AMLO cambiare le cose rispetto alla corruzione, alle disuguaglianze e alla violenza, senza controllare le banche (in gran parte estere), senza ri-nazionalizzare la PEMEX e senza controllare all'interno del Messico quelle che sono le maggiori operazioni delle multinazionali?
Donald Trump si è congratulato con AMLO per la sua vittoria. Ma il vicino settentrionale del Messico in questo momento è gestito da un nazionalista, imperialista pazzo, intenzionato a scatenare una guerra commerciale contro tutti quanti. In questo turbinio, il Messico si trova esattamente in prima linea, con un'economia capitalista che sta lottando in mezzo a povertà, corruzione e violenza. Tuttavia, con una popolazione che è enorme e giovane, le risorse di petrolio e di gas, e in parte la moderna industria, il Messico si trova in una posizione migliore di quella in cui si trovano il Venezuela e Cuba. AMLO non assumerà ancora la presidenza per altri cinque mesi (a dicembre). Ha grandi sfide che lo aspettano.

- Michael Roberts - Pubblicato il 2/7/2018 -

fonte: Michael Roberts Blog

mercoledì 4 luglio 2018

Note di Lettura

rensi

Giuseppe Rensi, Contro il lavoro
- di Benoit Bohy-Bunel -

In Francia, le edizioni Allia rieditano il libro di Giuseppe Rensi, "Contro il lavoro" [che può essere liberamente letto e/o scaricato, in italiano, da qui], tradotto in italiano da Marie-José Tramuta, e con prefazione di Gianfranco Sanguinetti. Pubblicato nel 1923, lo stesso anno di "Storia e coscienza di classe" (Lukács), questo saggio propone una critica radicale ed originale del lavoro, la cui dimensione "morale" viene affermata in ogni pagina. Rensi, pensatore sovversivo che si era opposto alla destra neo-hegeliana dei suoi tempi, propone una filosofia scettica e post-leopardiana. Venne condannato in contumacia a 11 anni di prigione, mentre dirigeva la rivista "Lotta di Classe", e più tardi, nel 1927, venne estromesso dalla sua cattedra di filosofia morale all'Università di Genova. Nel 1903, mentre era esiliato in Svizzera, era stato il primo deputato socialista eletto in Ticino. Con questo suo appello contro il lavoro, può essere considerato al vertice delle avanguardie artistiche della sua epoca, e rimane un precursore dei situazionisti.

L'Antilogia del Lavoro
In maniera coerente, Rensi per prima cosa fa riferimento alla dualità del termine "giustizia", che si rende necessario allorché parliamo della questione del lavoro. La cosiddetta "giustizia" borghese, che si impone genealogicamente con la forza (espropriazioni), rimanda all'ingiustizia dello spossessamento e dell'indigenza: l'individuo che lavora viene spossessato dei suoi strumenti di lavoro, e del prodotto del suo lavoro. L'estorsione di un plus-lavoro, condizione del profitto borghese, aggiunge un'ingiustizia ancora più esplicita, cinicamente istituzionalizzata. Il pseudo-contratto di lavoro che lega un datore di lavoro al suo dipendente ratifica "giuridicamente" una situazione che è di fatto ingiusta, che viene imposta con la forza. Il "libero lavoratore", che dispone solo della sua forza lavoro, non lavora affatto in modo "libero", né perciò in modo "giusto", ma è costretto a vendersi, se non altro per poter sopravvivere.
Rensi non si riferisce in dettaglio a questa dimensione economica, ma la sua invettiva mora contiene in germe tutto l'oltraggio capitalista relativo alla reificazione dell'individuo diventato lavoratore; reificazione che Lukács descriverà proprio in quello stesso anno. Oppone ad una pseudo-giustizia, che viene affermata ideologicamente, ma che viene imposta con la forza, una vera giustizia, che consiste nel rivendicare l'emancipazione dal lavoro. L'apparato poliziesco e militare di cui dispone la borghesia, per mezzo del quale fa rispettare il "diritto" alla proprietà privata, si basa su una violenza espropriatrice a partire da un principio, il cui monopolio della forza è "legittimo" sono nell'inversione ideologica. Chiunque volesse rovesciare questa pseudo-giustizia lo dovrebbe fare nel nome di una giustizia più urgente, ossia quella che riconosce la dignità di ogni persona umana, ed il suo diritto a disporre di sé, e ad avere un dominio reale sulla propria attività.
In un certo senso, qui Rensi evoca una dissociazione in atto: quel che viene detto "giusto" nel capitalismo patologico, è ingiusto in sé, socialmente e praticamente parlando. La tesi di Rensi è chiara e semplice: quanto più questa pseudo-giustizia ideologica, nel corso del processo economico, si accompagna ad una realtà cinicamente ed esplicitamente ingiusta, tanto più essa verrà combattuta con fermezza, poiché nella lotta contro "l'ordine" ammesso si potrà sviluppare un sentimento di legittimità più forte.
In quella stessa epoca, un filosofo tedesco, Walter Benjamin, era riuscito a dare una risonanza originale, "adamitica", a questa intuizione di Rensi relativa alla dissociazione che si cela nel cuore stesso della designazione dei fatti attraverso le parole, in un mondo realmente invertito, laddove il vero è un momento del falso.

Il lavoro è morale o immorale?
Il lavoro viene considerato come se fosse la condizione morale di ogni elevazione spirituale, e allo stesso tempo, dal momento che tale elevazione, nel suo dispiegarsi, non è contemplativa, viene simultaneamente considerato come se fosse un fardello, un affaticamento ingiustificabile, uno scandalo.
Per poterci elevare alla dignità morale, ci dicono gli ideologhi del lavoro, bisogna lavorare, ma allo stesso tempo ogni lavoro impedisce l'esercizio di tale dignità. Qui, Rensi si riferisce ad un sistema di ricompense che fa pensare al cristianesimo. Egli non specifica mai questo fatto, ma è l'etica protestante che fa del lavoro una virtù quella che viene messa qui in discussione. In quanto religione che accompagna i primi passi del capitalismo (l'anglicanesimo), il protestantesimo tenta di giustificare, già con Lutero, l'ingiustificabile: lo sfruttamento in quanto tale. E lo fa, per l'appunto, facendo del lavoro un valore morale in sé. Più in generale, si tratta anche del mito del "peccato originale" che viene messo in dubbio: il lavoro è una condanna conseguente alla caduta. Come "riscatto", può essere considerato come qualcosa di "morale". Ma come marchio della colpa, ci ricorda l'immoralità dell'essere umano.
Più generalmente, per Rensi si tratta del dualità della vita attiva e della vita contemplativa: solo la contemplazione permette di considerare serenamente quello che è il dovere morale, ma per "meritare" l'accesso a questa contemplazione, bisogna ancora aver agito nella sfera del lavoro. La sofferenza dell'individuo che lavora lo rende degno della moralità, e finalmente degno della felicità che verrebbe garantita da questa moralità, tanto per riprendere un'idea del grande protestante Emmanuel Kant.
Solo che, secondo Rensi, il cinismo del sistema borghese risiede nel fatto che coloro che lavorano accedono a questa dignità morale senza mai poter accedere alla vita contemplativa, sebbene il loro lavoro sia attraversato da parte a parte dall'ingiustizia. Sono stati i dirigenti borghesi ad aver "inventato" questa moralità del lavoro per poter meglio sottomettere i lavoratori, per fare loro meglio amare la loro servitù. "L'orgoglio", la "dignità" del lavoratore, sono dei sentimenti che vengono patologicamente estorti ai lavoratori che dimostrano solo una cosa: l'efficacia radicale dell'ideologia borghese del lavoro.

La svalorizzazione morale del lavoro crea la plus-valorizzazione economica
Qui, il ragionamento di Rensi è abbastanza semplice: se il lavoro viene considerato come una virtù, i lavoratori non devono essere esigenti per quanto riguarda la retribuzione monetaria, dal momento che dovrebbero essere già "felici" di essere così "moralmente" retribuiti. Ma se il lavoro viene in maggior misura concepito come un fardello, come una pena, come uno scandalo ingiustificabile, allora i lavoratori tendono ad inasprire le loro rivendicazioni, e la retribuzione del lavoro ne deve conseguire.
Quanto più cresce la razionalizzazione del lavoro, tanto più il lavoratore viene dislocato soggettivamente, e tanto più diventa chiaro che il lavoro è una sofferenza ingiustificabile. L'ideologia del lavoro come "virtù" perde ogni sua credibilità. Negli anni '20. Rensi scrive: «si sta sviluppando il taylorismo, e diventa sempre più evidente che il lavoratore non è altro che un'appendice della macchina, la quale cristallizza le teorie scientifiche che lo privano della sua attività. Sempre più, quindi, appare che il lavoro è una disumanizzazione, un fardello, e non è in alcun modo una "elevazione morale"». A partire da questo, se seguiamo la logica di Rensi, i lavoratori chiederanno la rivalutazione economica del loro lavoro, poiché le dissociazioni ideologiche borghesi non sono più sostenibili. Troviamo quindi in Rensi, un'interpretazione originale, morale, per l'appunto, del "circolo virtuoso" del fordismo.

Le giuste basi dell'odio per il lavoro
Rensi riprende qui un argomento che ritroveremo nella penna di Arendt, ne "La crisi della cultura" e ne "La condizione umana". Il lavoro sottomette gli individui ai cicli biologici della sopravvivenza: assegna all'individuo umano il punto di vista animale della riproduzione della specie. Di conseguenza, lo priva di ciò che lo rende specificamente umano, della sua propria libertà e della sua spiritualità. Se gli esseri umani non fanno altro che inserirsi in una cultura ripetitiva della produzione e del consumo, non facendo altro che lavorare. vengono privati della linearità storica propriamente umana. Vengono respinti fuori dalla loro umanità e fuori dalla loro storia.
Qui, le osservazioni di Rensi hanno qualcosa di antropocentrico: Rensi è un pensatore del proprio tempo. La sua distinzione fra la vita contemplativa ed il lavoro fa riferimento ad antiche distinzioni aristocratiche (greche) dalle quali oggi sarebbe necessario emanciparsi. La società da lui promossa, in un certo senso, sarebbe la democrazia ateniese, al netto della schiavitù. Ma simili raccomandazioni anacronistiche non si adattano alle esigenze moderne, e forse bisognerebbe criticare questa distinzione ancora troppo "umanistica" fra la vita attiva e la vita contemplativa (distinzione che lo stesso Marx, come pensatore utopico, poteva sostenere, qui o là). Tuttavia, quest'idea secondo cui la sfera del lavoro è una sfera della sopravvivenza che abolisce ogni possibilità di vita libera ed emancipata rimane una portante, e non ha perduto affatto la sua attualità.

Lavoro e Gioco
Il gioco, il giocare, come attività artistica, scientifica o filosofica, sono tutti dei fini in sé, che bastano a sé stessi, secondo Rensi, contrariamente al lavoro, il quale non è altro che un mezzo per la sopravvivenza. La distinzione fra libera creazione e produzione meccanica, viene qui fatta implicitamente: il primo emancipa, e fa nascere il nuovo in quanto nuovo, l'irreversibile, laddove il secondo si sottomette all'implacabile necessità del "corso delle cose", ciclico e ripetitivo. Dal momento che non è un fine in sé appagante, ma un mezzo obbligato, il lavoro viene visto come una pura penalità, e pertanto dev'essere abolito. Qui, Rensi non considera il fatto che, in una società di mercato, le attività che egli ha descritto come "fini in sé" diventano sempre più dei mezzi produttivi, non solo in vista della sopravvivenza, ma anche e soprattutto in vista della valorizzazione del valore economico. Perdendo così ogni altruismo. L'arte, lo sport, per esempio, finiscono per aver valore solamente nella relazione con il denaro che fatturano.
Inoltre, Rensi non percepisce abbastanza il fatto che la scienza e la filosofia, ad esempio, come ideologie, non hanno nulla di disinteressato, ma consolidano in maniera retroattiva una situazione materiale e sociale nella quale il lavoro intellettuale, come organo della gestione dell'insieme sociale, ha interesse a tenere in piedi i rapporti di produzione. Su questo argomento, la prima sezione de "L'Ideologia Tedesca" (Marx) offre degli interessanti spunti. Ma è anche interessante mostrare che alcuni individui, che fanno tutto il giorno della filosofia o della scienza, e sono retribuiti a tal fine, non subiscono le costrizioni che altri lavoratori "manuali" subiscono quotidianamente e, a partire da questo, concepiscono in maniera diversa la critica del lavoro (vale a dire, forse, "dall'esterno").

Il "lavoro" intellettuale merita una retribuzione?
A priori, il lavoro intellettuale è esso stesso la sua propria retribuzione: è appagante. Laddove il lavoro manuale, che schianta sempre più gli individui, esige in maniera imperiosa una retribuzione in misura della costrizione subita. Tuttavia, risulta che il lavoro intellettuale, che definisce legittima una "cultura", implica una posizione sociale privilegiata, laddove il lavoro manuale viene mal pagato. I proletari perdono su entrambi i fronti: viene loro negata ogni "elevazione spirituale", e inoltre conoscono la miseria. Rensi, in quanto socialista coerente, per i proletari sostiene la riappropriazione dell'attività spirituale, e quella dei beni che vengono prodotti.

Il carattere di "fine in sé" dell'uomo condanna il lavoro
Il borghese acquista degli strumenti di lavoro, delle materie prime, e della "forza lavoro", per poter produrre delle merci che poi rivenderà ad un prezzo più caro di quello che ha pagato.
Si trae un profitto, proprio perché la forza lavoro rende più di quanto costa: il lavoratore salariato viene pagato in maniera tale da poter sopravvivere (riprodurre la sua forza lavoro), ma deve lavorare gratuitamente per un certo numero di ore.
In tutto questo processo, il lavoratore viene reificato in maniera triplice: non possiede il suo strumento di lavoro, ma deve sottomettersi all'organizzazione tecnica di tale strumento; non possiede il prodotto finale; viene sfruttato e dislocato soggettivamente nella produzione. Non è più un essere umano la cui dignità dovrebbe consistere nel definirsi come fine in sé, ma è solo un mezzo nelle mani del capitalismo, una "risorsa", una "cosa" sfruttabile, allo stesso modo in cui lo sono le materie prime e gli strumenti di lavoro. Ne consegue che è l'imperativo morale kantiano quello che viene costantemente violato dalla società del lavoro; quest'imperativo dice che non si deve trattare l'altra persona come se fosse semplicemente un mezzo, ma innanzitutto come fine. Per seguire le orme di Lukàcs (1923), diremo qui che la società borghese è una società che non ha coscienza di sé stessa, che provoca inconsciamente la propria dissoluzione: per esempio, essa asserisce l'esistenza di forme morali pure (come le forme kantiane) che nella realtà dei fatti non fa altro che contraddire. Moralmente parlando, quindi, desidera inconsciamente la propria auto-abolizione, e secondo Lukàcs sono le lotte proletarie che realizzeranno consciamente questo inconscio desiderio borghese.
Qui troviamo un certo vantaggio tattico: anche dal punto di vista della "legittimità morale" borghese, la società borghese è immorale, per cui gli individui reificati che le si oppongono possono ritorcere i suoi valori morali contro essa stessa. Rensi qui sia afferma come un abile stratega. Tuttavia, la società borghese è anche esplicitamente cinica, e lo rivendica in maniera sempre più chiara: sono gli individui sfruttati quelli che devono rispettare la morale borghese (rispettare il borghese come fine in sé), ma i borghesi, quanto a loro, che "gestiscono" questa morale, sono esenti dal doverla servire. Il cristianesimo politico fa esattamente la stessa cosa: è questo ciò che intendeva Marx, quando diceva che «la religione è l'oppio del popolo».

Lavoro e contemplazione
Qui, la prospettiva è quasi estetica: la vita è qualcosa di troppo breve e troppo miracolosa per essere sprecata nel lavoro. L'essere umano, gettato in un mondo così misterioso e pieno, è fatto per la contemplazione. Il lavoro manda in frantumi questa vocazione, ed è questo il motivo per cui è insopportabile.
Questo argomento estetico, se non esistenziale, è importante da ricordare: il fatto che ciascun essere umano possa elevarsi alla dignità e alla profondità della poesia, non è un'esigenza così stravagante, se consideriamo fino a qual punto sia stravagante semplicemente il fatto stesso di vivere. Ancora una volta ci soccorre l'Arendt ("Crisi della cultura", capitolo sulla libertà): «ogni vita, ed ogni vita umana, è un evento infinitamente improbabile, che spezza la circolarità dei processi naturali. Dato un universo fisico, è infinitamente improbabile che in esso si manifesti una vita cosciente». In questo senso, Arendt, si riferisce ad un'emergenza "miracolosa" non sovrannaturale, ad un principio di emergenza che dev'essere protetto. Il verificarsi della nascita, ma anche il fatto politico, racchiudono un tale principio, e lo proteggono indefinitamente. Ma per Arendt, la riduzione dell'essere umano all'animale che lavora lo riporta a dei cicli ripetitivi, prevedibili, che ostacolano l'accesso a questo miracolo. Con Arendt, dunque, si politicizzerebbero ulteriormente le intuizioni estetiche ed esistenziali di Rensi. Quest'ultime, forse, sono ancora troppo trans-storiche e tuttavia, probabilmente, forse non mirano sufficientemente alla radicale specificità del lavoro inteso in senso moderno.

Il lavoro necessario ed impossibile
Per Rensi, la finalità dell'essere umano è la contemplazione spirituale. Peraltro, è in tal modo che diviene esso stesso un fine in sé, e che viene quindi rispettato moralmente. Ma per poter accedere alla contemplazione spirituale, bisogna ancora lavorare. Quindi, il lavoro è necessario, nello stesso momento in cui rende impossibile ciò per cui esso è necessario. Qui, ancora una volta, l'ispirazione è troppo kantiana: si tratta di elevarsi alla stima ragionevole di sé stessi per poter essere una persona umana in quanto tale, ma questa stima presuppone il lavoro, che la fa a pezzi. Ancora una volta, qui si torna ai valori morali della borghesia contro essi stessi: la borghesia come borghesia non può venir fuori dalle proprie antinomie, ed è solo attraverso l'abolizione della società borghese che tali antinomie spariscono. Facendo riferimento qui alle summenzionate osservazioni di Lukács relative alle antinomie del pensiero borghese, sviluppate in quello stesso anno, si potrebbe dire che Rensi propone il corrispondente morale di Lukács.

La vanità delle rivoluzioni, la necessità dell'insurrezione
Rensi parla della vanità di qualsiasi rivoluzione che voglia "umanizzare" il lavoro, o ridistribuire i prodotti del lavoro in maniera più equa, senza una severa abolizione del lavoro. Qui, egli si pone anche come l'erede di Marx, che nella Critica del programma del partito operaio tedesco affermava che non si tratta di rivendicare socialmente una retribuzione formalmente equa del lavoro, ma piuttosto l'abolizione di ogni diritto formale borghese. La retribuzione formale è di per sé iniqua, dal momento che si basa comunque su una divisione del lavoro che viene imposta, e dal momento che gli individui non vengono fuori dal mondo del lavoro. Da ciascuno secondo le sue diposizioni, a ciascuno secondo i propri desideri, sarebbe una formula esistenziale appropriata per poter definire il programma, allo stesso tempo spirituale e politico, di Rensi. Sicuramente, mette in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma in aggiunta critica anche quel pernicioso "collettivismo" che non avrebbe affatto abolito il lavoro in quanto tale. L'insurrezione che abolisce il lavoro assume la dimensione di uno scandalo che è anche uno scandalo morale: non si vuole più lavorare, mentre le dissociazioni e le espropriazioni messe in atto sono diventate esplicite ed insostenibili. Per realizzare un mondo di individui liberi che possano fare a meno degli schiavi (Atene al netto degli schiavi), Rensi pensa, seguendo Marx, che delle tecniche adatte potrebbero emancipare noi tutti dal lavoro.

Osservazioni finali
Questo saggio di Rensi ha l'originalità di porre una critica del lavoro da un punto di vista morale e spirituale. Però gli possiamo rimproverare di avere una concezione ancora troppo trans-storica del lavoro.
Se seguiamo l'analisi svolta nel 1° capitolo del Capitale, il lavoro non è affatto "l'essenza dell'uomo", e neppure una condizione umana "arcaica", contrariamente a quanto tende ad affermare Rensi, quando congiuntamente sia al lavoro salariato moderno che alla schiavitù antica, ma un simile lavoro "tout court", un tale lavoro "senza aggettivi", è piuttosto una specificità radicalmente moderna.
In realtà, la modernità capitalista ha dato origine ad un nuovo principio: l'accumulazione delle merci. Una merce è un bene che possiede un valore d'uso ed un valore di scambio. Il valore di scambio è la forma empirica del valore. Il lavoro in un simile contesto si sdoppia in lavoro concreto ed in lavoro astratto. Il lavoro concreto, specifico e differenziato, è quello che produce la pluralità dei valori d'uso di mercato. Il lavoro astratto, non specifico, indifferenziato, è un tempo medio di lavoro, che diventa la sostanza del valore delle merci, rendendo così possibile la determinazione del loro valore di scambio. Il capitalista, accumulando delle merci, ha come solo fine l'accumulazione di valore, vale a dire, l'accumulazione di lavoro astratto.
Ora, si può parlare di "lavoro tout court" solo in una società nella quale si è fatto del lavoro astratto, il principio di ogni sintesi sociale: vale a dire, nella società moderna. In una società pre-capitalista, mai e poi mai avrebbe potuto germogliare nello spirito l'idea di mettere insieme due attività così diverse quali, per esempio, il fatto di produrre una bomba ed il fatto di scrivere un poema, per poi sussumerli sotto un unico concetto operazionale, il lavoro "in sé", poiché le sintesi sociali non erano "economiche" in senso funzionale (erano essenzialmente patriarcali e teocratiche). Quindi, si potrebbe parlare di attività produttive differenziate, o di lavori molteplici, ma non di "lavoro" in quanto tale.
Perciò, una critica radicale del lavoro non è la critica dell'attività umana per la sopravvivenza. ma è piuttosto una critica che ha come bersaglio essenzialmente la modernità capitalista. Attaccarsi ad un qualsiasi lavoro trans-storico - concetto confuso a tendenza "naturalistica" - non permette di cogliere la specificità dell'alienazione moderna, né quindi la possibilità del suo superamento. Retroproiettando le categorie moderne su delle realtà pre-moderne, si tende a naturalizzare tali categorie, e rendere più difficilmente ipotizzabile la loro abolizione.
La critica dell'economia politica è innanzitutto una denaturalizzazione delle categorie economiche moderne, cosa questa che a nostro avviso Rensi non percepisce abbastanza, riferendosi ad un concetto di lavoro che vuol essere troppo onnicomprensivo. È proprio la prospettiva morale o spirituale, "universalmente umana", a celare questo ostacolo.
Tuttavia, gli inconvenienti legati ad una tale approccio sono anche la misura dei suoi vantaggi certi: definendo degli scopi morali, Rensi descrive una preistoria umana globalmente insopportabile, in particolare quando il capitalismo è in decomposizione, una preistoria che deve essere superata, anche per delle determinate ragioni etiche e creative.
Combinando le analisi marxiane contro il lavoro (Grundrisse, I sezione del Capitale) e la prospettiva morale di Rensi, attraverso un principio di mutua regolazione ed arricchimento, si arriva certamente ad avere una posizione di una radicalità ed originalità altamente interessanti.

- Benoît Bohy-Bunel, maggio 2017 -

giuseppe rensi_edited

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme