giovedì 24 aprile 2025

Teoria della Decadenza ?!!???

Potere e declino
La fragile sintesi trumpiana

- di Jacques Wajnsztejn -

Se raramente gli autori postmoderni - a parte Michel Onfray [*1] - rivendicano esplicitamente una "teoria della decadenza", ci sono tuttavia molti di loro che si riferiscono a Nietzsche, il grande uccisore di una dialettica che - attaccando nell'Ecce Homo il suo primo rappresentante (Socrate e la sua maieutica) – egli percepì in quanto sintomo di decadenza . Per Nietzsche, ciò che conta è quel capovolgimento dei valori, che poi un pre-postmoderno come Baudrillard avrebbe assunto già negli anni '70 e '80 come distruzione del significato. Jean-François Lyotard, più politico, ha invece invocato una radicalizzazione della decadenza: «Ecco una linea politica: indurire, aggravare, accelerare la decadenza. Assumere la prospettiva del nichilismo attivo, e non rimanere alla semplice osservazione, depressa o ammirata, della distruzione dei valori; mettere mano alla distruzione, andare sempre più lontano nell'incredulità, lottare contro la restaurazione dei valori [...] accettare, ad esempio, di distruggere la fede nella verità, in tutte le sue forme.»[*2]. Questo è un esempio di quell'estetizzazione della politica che, per 50 anni e su questa base,  si è radicata. E che, nella misura in cui sono state abbandonate la teoria critica e la dialettica, non dovrebbe sorprendere che la sinistra abbia perso la battaglia per l'egemonia culturale. Del resto, Oswald Spengler, da parte sua, in modo più classico, percepiva Il declino dell'Occidente (1918) come qualcosa di oggettivo, il cui principale esempio storico era quello del declino dell'Impero Romano. Per lui, ogni civiltà ha dapprima il suo movimento apollineo di sviluppo (un altro riferimento a Nietzsche!), e poi un movimento faustiano di declino che, nella modernità, verrebbe caratterizzato da uno sviluppo scientifico e tecnico paradossalmente illimitato, ma in ultima analisi entropico, vale a dire, creatore di disordine. Questa dimensione oggettiva, che caratterizzerà la visione del declino di Spengler, si differenzia dalla critica più soggettiva e morale espressa da Valéry e dalla sua celebre formula: «Noi, civiltà, sappiamo ormai di essere mortali» (ne "La crisi dello spirito", 1933). Questo linguaggio del primo Novecento, rifiuta la visione teleologica del progressismo, e propone un relativismo che i nostri avversari postmoderni, delle grandi narrazioni, non avrebbero rinnegato [*3]. Questa tendenza sarebbe stata rafforzata, negli anni '20 e '30, in una fase storica punteggiata dalla prima guerra mondiale e dalle reazioni che essa produsse, sia rivoluzionarie che controrivoluzionarie, con la crisi economica che la superò, questa volta a sinistra, seguendo l'idea di una crisi finale del capitalismo. Da parte sua, Victor Serge aveva scritto, a proposito degli anni '30, che si trattava della "mezzanotte del secolo" [*4], e questo mentre i gruppi comunisti di sinistra (Munis, Damen) riprendevano invece l'idea della decadenza del capitalismo. Tutte queste interpretazioni sono più soggettiviste, o politiche, di quelle di Spengler, e da qui la tendenza a parlare in termini di decadenza piuttosto che di declino. Entrambi gli approcci prendevano atto di una decadenza della classe dominante, nella sua forma borghese, nella misura in cui essa non avrebbe più svolto la sua missione di civiltà, per alcuni, né il suo obiettivo di progresso, per altri. Tali posizioni si manifestarono nelle lotte politiche dell'epoca, e videro, da un lato, lo sviluppo di una controrivoluzione tedesca dopo la sconfitta degli spartachisti e la rivoluzione dei consigli; e, dall'altro lato, la tattica stalinista di classe contro classe, che designava la socialdemocrazia tedesca, e non il partito nazista, come il suo principale nemico. Le posizioni, abbastanza vicine sia ai nazisti che agli stalinisti, sull'arte decadente, o sull'atteggiamento moralistico nei confronti della norma sociale (ad esempio in relazione all'omosessualità) ci mostrano come la nozione di decadenza si riferisse all'ordine politico, economico, sociale e culturale visto nel suo complesso, mettendo in discussione i regimi politici in atto e soprattutto la forma democratica, principalmente in quei paesi che non avevano una lunga esperienza di democrazia (Germania, Austria e Italia). Per comprendere questo paradosso - rappresentato da un lato dall'estensione della forma democratica, ad esempio nella giovane Repubblica di Weimar o nei suoi vicini austriaci e cecoslovacchi, e dall'altro dalla sua crisi - ci sono alcuni che sostengono ( seguendo Norbert Elias) che ogni sistema politico generi una particolare psiche, e che la democrazia liberale crei uno spirito di insoddisfazione e di stanchezza. Come disse Tocqueville molto tempo prima: «Quando la disuguaglianza è la legge comune di una società, le più grandi disuguaglianze non colpiscono l'occhio; quando tutto è più o meno livellato, sono le più piccole a ferirlo. Ecco perché con il crescere dell'uguaglianza il desiderio di uguaglianza diventa sempre più insaziabile». E nel maggio 1935, Edmund Husserl scriveva, nella conclusione de "La crisi dell'umanità europea e la filosofia": «Il pericolo più grande per l'Europa è la stanchezza. Combattiamo con tutto il nostro zelo contro questo pericolo dei pericoli, da buoni europei che non si lasciano spaventare nemmeno da una lotta infinita».

QUI E ORA
Oggi, molti pensano, come faceva Spengler ieri, che sia l'eccesso di formalismo giuridico, democratico e morale (prima il "politicamente corretto", e poi il "benpensantismo" in generale) a impedire agli occidentali di osare impegnarsi in una politica di potenza in cui la sovranità, compresa la sovranità fondata sul popolo e ratificata in un modo o nell'altro dal voto, si imporrebbe sullo stato di diritto perché verrebbe espressa dal "paese reale". Questa contrapposizione tra "paese reale" e "paese legale" - inaugurata da Charles Maurras e ripresa da Jean-Marie Le Pen all'inizio degli anni '80 -  è stata ora attualizzata e messa in pratica negli Stati Uniti nel corso dell'attentato al Campidoglio, "legittimato" a posteriori dalla vittoria elettorale delle categorie sociali da cui provenivano gli attentatori. Gli attentatori del Campidoglio erano 6.000, mentre gli elettori di Trump sono stati 76,8 milioni. Per questo Trump e quelli che gli sono vicini invocano ora un'ondata di «impulsi vitali e di buon senso» contro lo Stato di diritto, che sotto l'etichetta di “Stato profondo” diventa così il nemico [*5]. Mentre l'idea di universalismo, sviluppata all'interno del mondo occidentale, e che dovrebbe simboleggiare la libertà e la tolleranza, diventa per Trump, per Milei, per Bolsonaro, per Erdogan e per Orbán, il simbolo della burocrazia e della regolamentazione. Paradossalmente, dopo aver attaccato quella che un tempo veniva chiamata giustizia borghese e Stato dei padroni, oggi la sinistra postmoderna legittima lo Stato di diritto [* 6]. Ma questo non avviene nel nome di ciò che era alla base della Rivoluzione francese, ossia un legame tra la Costituzione il diritto e una legge che garantisca che lo “Stato di diritto” non rimanga completamente associato allo Stato (cfr. l'articolo 35 della Costituzione del 1793 sul diritto alla rivolta), bensì nel nome della legalità, e non più della rivoluzione. Questo è il suo ultimo valore politico universale da brandire, dal momento che l'universalismo della classe operaia (precedentemente in lotta) è passato anima e corpo al Rassemblement National. Avviene così un ripiegamento nel campo dello Stato legale, dove si spera di conquistare il potere all'interno di uno Stato, ristrutturato nella rete e nella forma critica di un universalismo "astratto" e "occidentale", sotto le spoglie dell'apertura e dell'inclusione.

L'AMERICANITÀ DEGLI STATI UNITI
È dubbio che un potere come quello di Trump si consideri ancora “occidentale”. Forse questo è solo un indizio significativo, ma molti dei membri del clan Trump provengono dalla West Coast (Los Angeles e Silicon Valley), la quale è orientata verso il Pacifico e l'Asia, mentre tradizionalmente le élite americane provenivano dal Nord-Est (New York e Wall Street), che è orientato verso l'Europa. F. J. Turner, uno storico dell'inizio del secolo precedente, promuoveva già l'America come una terra eccezionale, quasi fuori dal mondo: elastica ed estensibile, e in un discorso del 1896 dichiarava: «l'Occidente è una magica fonte di giovinezza nella quale l'America si bagna, e che la ringiovanisce». È su questo che costruirà la sua teoria della “frontiera”. [*7] Successivamente, nel XX secolo, questo riferimento è stato usato dai leader politici come una metafora della crescita e dello sviluppo; con la "nuova frontiera" e la conquista dello spazio per John Kennedy; la globalizzazione come attraversamento dei confini, per Clinton; oggi Marte e Star Wars, per Musk. Il Canale di Panama, il "Golfo d'America" e la Groenlandia, tutte nel mirino di Trump, testimoniano di questa caratteristica americana, che lo allontana sempre più dalle sue origini europee e lo spinge verso l'idea di un prolungamento del confine, insieme alla memoria della "conquista dell'Occidente". Per la sociologa americana Olena Leipnik, Trump prende in prestito il costume dell'eroe fuorilegge [*8]. Né dobbiamo dimenticare che all'altra estremità dello spettro politico, un autore anarchico e ambientalista come Murray Bookchin ha detto che negli Stati Uniti - perfino in "un'altra società", sarebbe impossibile abbandonare questo spirito pionieristico; e oggi, il Seasteading Institute, finanziato da Peter Thiel (PayPal), promette di «aprire le frontiere dell'umanità». (ibid.). Probabilmente, per Trump, i groenlandesi sono un po' come dei nuovi indiani.

SUL CAPITALISMO AMERICANO
- Produzione e circolazione nella formazione, e nell'accumulazione del capitale negli Stati Uniti -

La storiografia marxista rimproverava alla scuola delle "Annales débutante" (1929) di mettere al primo posto la circolazione, piuttosto che la produzione, nel momento in cui lo stalinismo glorificava la produzione per la produzione. Sembrerebbe pertanto che tutto concorra a definire il capitalismo come un modo di produzione, laddove invece, per Fernand Braudel, il capitalismo era soltanto una delle forme che erano state assunte da un'economia di mercato che in gran parte lo precedeva [*9]. Così, per lui, l'esistenza di fabbriche come quelle del tempo di Colbert non poteva essere considerata come l'inizio dell'industrializzazione, visto che per quel genere di prodotti non esisteva ancora un mercato. Inoltre, egli classifica le innovazioni definendole come beni culturali circolanti, e non come formazione di capitale fisso, come vengono invece considerate dai sistemi di contabilità nazionale. Innovazioni che circolano e che si diffondono, ma che lo fanno solo quando esiste già una domanda, e persino una pressione sulla domanda. Braudel, inoltre, ha anche sottolineato il ruolo importante svolto dal capitale finanziario nello sviluppo del capitale in generale, e che in maniera chiara si riflette nell'ideale così come viene rappresentato dal futuro capitalistico degli Stati Uniti. Il primo punto notevole, è che le imprese si sviluppano in una forma che non è quella del singolo imprenditore, sebbene siano comunque nutrite dall'idea dell'America vista come patria della libertà individuale di impresa. Tuttavia, nel 1812, quando negli Stati Uniti c'erano allora solo 7,5 milioni di abitanti, esistevano più di 1000 società per azioni registrate, mentre la Francia ne aveva 13, la Prussia 8 e l'Inghilterra (nel 1824) 156 [*10]. I due ricercatori americani, avanzano una tesi che rivede in qualche modo lo schema classico della cronologia delle imprese: al capitalismo "mercantile" – quello degli armatori e del commercio coloniale – del XVII e XVIII secolo sarebbe succeduto il capitalismo "industriale" delle ferrovie e delle fabbriche a metà dell'Ottocento, e poi il capitalismo "finanziario" delle banche, delle borse valori e degli hedge fund nei primi anni '80. Ma a causa delle 500 maggiori capitalizzazioni del 1812 negli Stati Uniti, 130 (ovvero il 26%) sono banche (comprese le 5 più grandi, e anche 9 delle 10 più grandi). Queste 130 banche da sole rappresentano il 72% del capitale totale di queste 500 capitalizzazioni. Tra la fine della guerra civile (1861-1867) e la fine del XIX secolo, gli Stati Uniti divennero la più grande potenza industriale e agricola del mondo, e nel 1913 la prima potenza esportatrice, detronizzando la Gran Bretagna. Ma sono stati gli investimenti delle grandi banche, fondate tra il 1791 e il 1812, a finanziare questo boom. Il capitalismo americano è prima di tutto un capitalismo finanziario, che prosciuga i profitti dei mercanti, delle banche stesse e dei proprietari terrieri. Ma è nel nord-est degli Stati Uniti, non nel sud, che si concentra la "Fortune 500" del 1812: gli stati di New York, Massachusetts e Pennsylvania rappresentano il 63% delle aziende e il 56% del capitale. Negli anni '10, quando il Congresso si rese conto – a seguito di inchieste della stampa – che una manciata di banche controllava da sola i consigli di amministrazione delle più grandi società industriali e di trasporto, nello stesso momento in cui emettevano moneta, legiferò per limitare le partecipazioni azionarie delle banche, e nel 1913 creò la Federal Reserve che oggi monopolizza l'emissione di banconote. Nel 1933, il Glass-Steagall Act imponeva alle banche di separare le loro attività di investimento da quelle che erano le loro attività di deposito dei risparmi degli americani. Una battuta d'arresto per il capitalismo finanziario.

DALLA PRODUZIONE AL CONSUMO/CIRCOLAZIONE, NEGLI ANNI KEYNESIANI
L'uscita dalla crisi degli anni '30, non avvenne attraverso l'imperialismo e per mezzo della guerra, ma grazie a un'estensione, per ciascuno, del mercato interno attraverso le politiche di welfare keynesiane che trionfarono nei paesi vincitori potenziate dal Piano Marshall (1948). Vennero così gettate le basi della società dei consumi, la quale si spingerà fino al punto di invertire  la vecchia catena fordista che legava produzione e consumo, attraverso l'applicazione dei principi toyotisti del flusso just-in-time tra domanda e offerta. I grandi perdenti della Seconda Guerra Mondiale - la Germania e il Giappone - così come quella potenza emergente che poi sarebbe diventata la Cina, cercarono di compensare la mancanza di un mercato interno (questi sarebbero stati i paesi che avrebbero sviluppato il più alto risparmio privato) per mezzo di una politica di sviluppo del mercato esterno (una politica che favorisse le esportazioni attraverso la qualità, le sovvenzioni e i sussidi). A partire dagli anni '70 si assistette a un'accentuazione della divisione internazionale del lavoro, e a un'internazionalizzazione degli scambi (crescita delle multinazionali, Mercato Comune Europeo) che confermano l'importanza primordiale della circolazione: globalizzazione e capitalizzazione. Questo cambiamento può essere simboleggiato dal passaggio dalla forma D-M-D' (Denaro - Merce - +Denaro) alla forma D-D', nel corso del quale la velocità di rotazione del ciclo del capitale (D: denaro) virtualizza la produzione (M: la merce), che non è più la forza motrice del ciclo. Quella che abbiamo chiamato la "rivoluzione del capitale" produrrà una nuova fase di ottimismo - quella di una "globalizzazione felice" - che non proietta più in primo piano i paesi in via di sviluppo (e i paesi meno sviluppati dell'epoca precedente, ma i grandi paesi emergenti. Un periodo di appena 50 anni, durante il quale quella che veniva tradizionalmente chiamata "politica industriale", svolta  su iniziativa degli Stati, sembrava fosse stata dimenticata a favore di una nuova divisione internazionale del lavoro volta a ottimizzare gli scambi commerciali nel contesto di un implicito ritorno della teoria dei vantaggi assoluti comparativi di Adam Smith [*11]. Questa "globalizzazione felice" (in cui tutti guadagnano) si è scontrata sia con il ritorno dei sovranismi che con le cosiddette contraddizioni esterne, come quelle legate al clima e all'ambiente, o detto in altre parole, con la relazione con la natura esterna. Trump non vede così lontano; per lui, che ragiona in termini malthusiani, il protezionismo mirato non è altro che un modo per assicurarsi la posizione di "vincitore". Tuttavia, e anche da questo punto di vista, le sue misure protezionistiche sono paradossali poiché esse si applicherebbero al paese meno globalizzato del mondo, dove le importazioni di beni e di servizi rappresentano solo il 14% del PIL, contro il 18% della Cina e il 22% dell'UE. Lo stesso vale per le esportazioni; 11% per gli Stati Uniti, contro il 20% e il 23% (fonte: Les Echos, 11 marzo 2025). Quindi, un ambito limitato, ad eccezione dei settori industriali in declino, come ad esempio l'industria automobilistica, che dipende parecchio dalle importazioni messicane e canadesi.

TENTATIVI DI MODELLIZZAZIONE
Sebbene - come fa Arnaud Orain nel suo libro "Le Monde confisqué. Essai sur le capitalisme de la finitude (XVIe-XXIe siècle)", (Flammarion, 2025) - alcuni cerchino, con riferimento a Braudel, di fare la storia di lunga durata, la maggior parte di loro opta per una soluzione facile, tipo quella di fissare una forma attuale e di eternarla, per non dire essenzializzarla, facendone la forma preferenziale del capitale, o la sua tendenza permanente, mentre il capitale non ha una forma preferenziale. Capitalismo della finitudine (Orain), capitalismo della predazione (Da Empoli), capitalismo cannibale (Nancy Fraser), capitalismo dell'apocalisse (Quinn Slobodian), capitalismo oligarchico per altri ancora. Tutte queste semplificazioni che cercano di creare un modello, o un sistema, sono simultaneamente immediatiste, antidialettiche e nominaliste, dal momento che creano un proprio immaginario del capitale, anziché cercare una sintesi, come quando, alla fine della sua vita, Marx riconobbe finalmente che il capitalismo era un sistema, e cominciò a usare il termine “sistema capitalistico”. Partendo da questo presupposto, Marx ha riconosciuto l'esistenza di controtendenze e contraddizioni nello svolgersi determinato dei processi. Al loro posto, abbiamo invece diritto a interpretazioni che, partendo da un fatto o da una verità parziale, pensino di poter identificare una teoria generale che sia originale. Tutti questi autori cercano di dare un nome al capitalismo odierno, come se si trattasse di fissarlo in una forma particolare che così lo distingua dai precedenti, mentre invece una delle sue caratteristiche è proprio quella di non essere riducibile alle forme. Avevamo già assistito a questo procedimento, con la sua qualificazione come neoliberista, ma che rimaneva una critica economica che voleva essere sintetica e obiettiva; e sulla quale è stato raggiunto un consenso intorno a quella che rimaneva una nozione vaga, per non dire di peggio. Ora, tutte le nuove qualificazioni appaiono intrise di critica morale, con pretese spettacolari, o addirittura performative. È come se tutti tirassero fuori un filo, da un gomitolo di spago, e lo scorressero senza fare alcuno sforzo di sintesi. Ma al di là della loro particolarità, ciò che li accomuna rimane il loro, implicito o esplicito,  soggettivismo declinista [*12], il quale ora ha sostituito l'oggettivismo marxista della crisi. Il vantaggio che c'è nel nostro concetto di rivoluzione del capitale, è che esso analizza il capitale nel suo movimento, e non come uno status. Almeno André Gorz, da buon dialettico, aveva dedotto, dalla sua analisi del ritorno del capitalismo alle forme di servitù, salariata o meno, che il capitalismo non superava un bel niente, dal momento che riciclava il vecchio, facendolo coesistere con il nuovo. Varoufakis cerca di fare lo stesso con il suo "tecno-feudalesimo", ma lo rende una caratteristica dogmaticamente dominante, e un processo quasi irreversibile, o da combattere o da subire.

LA POTENZA AMERICANA
Quel che è certo è che se ciò che ieri si chiamava ancora NTIC (Nouvelles Techniques d'Information et de Communication ) ha avuto un impatto sull'organizzazione non solo della produzione, ma di tutte le condizioni di vita, oggi l'intelligenza artificiale, e soprattutto il suo ramo generativo, ci fornisce una massa di potere fine a sé stesso [*13]; e il che solleva la questione se esistano, o meno, limiti e controllo sul processo. Questo potere si trova ora a essere raddoppiato dal ritorno delle grandi potenze alla ribalta della scena, oltre che anche a quello delle potenze intermedie e regionali, per le quali l'economia di mercato non è la preoccupazione primaria. Il che contrasta con il precedente periodo di "globalizzazione felice", durante il quale le multinazionali e la finanza hanno potuto dare libero sfogo alla loro natura estroversa. A differenza degli anni '70 e '80, durante i quali della globalizzazione hanno beneficiato enormemente la Germania e il Giappone (i grandi perdenti della seconda guerra mondiale), poiché il loro potere di esportazione era frutto di aziende nazionali, l'80% delle esportazioni cinesi oggi è fatto da aziende di proprietà straniera, principalmente americane. È questa è la conseguenza del ruolo degli investimenti esteri diretti (IED), un asse essenziale della globalizzazione. Quella che è la quota di un paese nei profitti globali totali, è quindi diventata un criterio più probante per valutare il potere rispetto al PIL. Léo Panitch [*14] parlava della teoria dello Stato impoverito, e lo faceva con il corollario dell'idea secondo cui, a partire dalla globalizzazione, le multinazionali sono state in grado di sfuggire allo Stato-nazione nel quale erano domiciliate. Per Panitch, l'imperialismo non è una risposta alle contraddizioni dell'accumulazione del capitale (Bukharin), o a una crisi di sbocchi (Rosa Luxemburg), né lo è al fatto che la politica del capitale finanziario porterebbe alla divisione economica del mondo, a vantaggio delle potenze imperialiste (Hilferding, e poi Lenin); esso nasce dalla volontà di potenza degli Stati. La sua teoria dell'imperialismo, è quindi più un'estensione della teoria dello Stato, piuttosto che un'altra estensione della teoria di Hilferding [*15]. Quello che ci interessa qui è che - rispetto ad Arrighi, Brenner, Hardt e Harvey - egli è l'unico teorico marxista di lingua inglese, con un profilo mediatico, che si oppone all'idea del declino americano, e concepisce un legame tra globalizzazione e politica statale. Ma non si tratta di un legame dialettico, come nella nostra esposizione della rivoluzione del capitale, con la nostra articolazione su tre livelli. Infatti, per lui, esiste solo la coesistenza dei due movimenti, perché nel capitalismo maturo ci sarebbe sempre più autonomia della sfera economica e di quella politica, mentre per noi l'unità delle due sfere è, al contrario, più importante nel processo di totalizzazione del capitale. I teorici della globalizzazione credono che i proprietari delle multinazionali siano sparsi in tutto il mondo, formando così una classe capitalista transnazionale. Questo non è sbagliato, ma tuttavia non impedisce che ci sia un aumento e un'estensione globale della proprietà americana delle aziende più importanti. I capitalisti statunitensi possiedono in media l'81% delle società transnazionali statunitensi (dati del 2021) e il 46% delle azioni in circolazione delle 500 maggiori società del mondo, mentre solo il 35% di esse è domiciliato negli Stati Uniti. Infatti, finché queste imprese transnazionali opereranno su un modello di crescita basato sull'export (Cina, Giappone, Germania, Arabia Saudita, ecc.), i loro paesi di origine saranno strutturalmente obbligati a dare denaro gratuito agli Stati Uniti, e gli Stati Uniti sono, di fatto, certi che il dollaro rimarrà la valuta delle transazioni internazionali. Mentre le banche centrali accumulano dollari intascati dagli esportatori dei loro paesi, devono depositare questi dollari nel bene rifugio per eccellenza, i titoli del Tesoro degli Stati Uniti; e così facendo, iniettano dollari negli Stati Uniti gratuitamente.

CONTRO UNA LETTURA ATTUALISTA DELLA POLITICA AMERICANA
La stampa e l'ambito intellettuale sono per principio talmente orientati in senso anti-Trump che a volte tendono perfino a farlo sembrare un pazzo. Ma Varoufakis [*16] non è però di questa opinione, dal momento che gli concede una certa logica, e gli concede un piano. Tuttavia, i livelli di razionalità non vanno confusi. Il fatto che il piano di Trump possa avere una sua logica, se vista dal punto di vista di alcune frazioni di capitale, e che egli vi aggiunga a questo un decisionismo politico autoritario, ciò non significa che il suo piano sia razionale... e a prescindere da questo punto di vista, che esso sia razionale nel senso corrente del termine. Di questo dubita Thomas Piketty, il cui ultimo articolo, “Il nazional-capitalismo trumpista ama mostrare i muscoli, ma esso in realtà è fragile e in difficoltà” (Le Monde, 15 febbraio 2025), fa uso di termini alla moda, tipo “estrattivismo”, come se quest'ultimo caratterizzasse in modo particolare il capitalismo, quando il “socialismo realmente esistente” era almeno altrettanto “estrattivista” del capitalismo occidentale, e persino più distruttivo dell'ambiente. Ne consegue che il capitalismo non viene più percepito come se fosse il primo modo di produzione basato sulla creazione, sulla trasformazione e sull'innovazione, ma che è stato fin dall'inizio un regime di saccheggio, con prima la schiavitù e poi la colonizzazione a giocare un ruolo preponderante nell'accumulazione primitiva, mentre il marxismo riteneva che quest'ultima fosse avvenuta principalmente attraverso l'agricoltura. Pertanto, dalla colonizzazione fino ai giorni nostri, avremmo avuto a che fare con nient'altro che un sistema parassitario e decadente basato esclusivamente sulla conquista della ricchezza; in breve, con un regime di predazione. Lungi da noi pensare che non ci sia stato dominio e sfruttamento, nell'accumulazione del capitale, ma questa visione elimina ogni possibilità di riconoscere un aspetto progressivo nel capitale e nei suoi rapporti sociali di produzione, i quali hanno tuttavia permesso di porre, storicamente, questioni sociali e societarie in termini di rivoluzione ed emancipazione. Da questo punto di vista, non sorprende che questi saggisti siano pronti a raccogliere, senza fare storie, il nuovo trito cliché del termine “oligarca”, usato per descrivere tanto Musk quanto uno dei quattordici oligarchi russi misteriosamente scomparsi nel 2022, o anche Bao Fan, in Cina, che, a quanto si apprende, deve rendere conto al Partito Comunista Cinese. Resta un mistero, relativo all'uso del vocabolario ideologico, il fatto che i boss russi in esilio, che criticano i nuovi canali di finanziamento russi per aggirare i blocchi, siano stati definiti “uomini d'affari” dal quotidiano Le Monde il 4 marzo 2025, sfuggendo così all'infamante etichetta di “oligarca”. Varianti di tale atteggiamento intellettuale si ritrovano sia tra i sostenitori del passato di una plutocrazia mai veramente definita, sia tra i post-moderni della cosiddetta “broligarchia [*17]. Questo uso indeterminato del termine, soprattutto a sinistra, porta all'omogeneizzazione del gruppo che si muove intorno a Trump e alla fabbricazione di questo "piano del capitale" che in assenza di una vera analisi della trasformazione del capitalismo e delle contraddizioni interne di questi gruppi, serve loro da mantra. Il metodo è sempre lo stesso: si individua un trend, e si pronuncia, anticipandolo, una sorta di completamento del trend. Ciò non sorprende, dal momento che tutti loro hanno abbandonato la dialettica a favore di un pensiero in bianco e nero. Perché si possa lanciare l'allarme, il 31 gennaio 2025, sulla possibile manipolazione di tutti i tassi (interessi e cambi), e per definire la guerra commerciale di Trump  come «la più stupida della storia», ci vuole il Wall Street Journal. Andrew Wilson, vice segretario generale della Camera di commercio internazionale, che rappresenta migliaia di aziende in 130 paesi, avverte: «La nostra profonda preoccupazione è che tutto ciò possa essere l'inizio di una spirale distruttiva che ci riporterebbe alla guerra commerciale degli anni '30» (su Le Monde, 11 marzo 2025). Sullo stesso genere, si può leggere un editoriale su "Les Echos" del 10 marzo che menziona un dirigente di uno dei più grandi gruppi del CAC40 che ha appena dichiarato: «Ci piacciono le politiche pro-business, ma ciò che ci piace ancora di più è lo stato di diritto e la stabilità giuridica». Dall'inizio di aprile, non si contano più i lanciatori di allarme di un tipo piuttosto particolare che danno di "temerario" a Trump, e la cui lettura immediatista/attualista risulta essere in errore.

LOTTE TRA FRAZIONI DEL CAPITALE E DECISIONISMO POLITICO
Se pensiamo che non ci sia alcun piano per il capitale [*18], ciò tuttavia non significa che in Trump e nei suoi consiglieri non ci sia un'idea di "governance"; e un metodo. Così uno degli influencer di questo clan, il blogger Curtis Yarvin, può affermare che Trump deve diventare dittatore allo stesso modo in cui lo fu F.D. Roosevelt, in modo da poter così attuare il suo programma. In ogni caso, il suo gruppo di cervelli non dovrebbe essere amministrativo-tecnocratico, come ai vecchi tempi, ma tecnofilo, con al timone degli smanettoni che trasformino lo Stato in una start-up. Yarvin, in primo luogo, qui ignora le profonde differenze con una situazione di grave crisi economica all'epoca degli anni '30, che oggi non ha corrispondenti; così come una Corte Suprema, che non sembra pronta a mettere i bastoni tra le ruote. E quindi non c'è bisogno di forzare la questione. Perciò, i controlli e gli equilibri non sono gli stessi; qui non è la Corte Suprema ad opporsi al presidente, quanto piuttosto una Wall Street a dir poco diffidente, se non ostile, e che sta all'erta in modo da poter reagire rapidamente in caso di necessità, cosa che sta iniziando a fare in seguito al crollo dei prezzi di borsa; così come non c'è un Warren Buffet seduto su un enorme forziere di guerra e che non ha paura della tassazione fiscale, ma piuttosto degli effetti delle misure di Trump sulla politica monetaria e delle ripercussioni sul mercato azionario; infine, abbiamo una Fed più indipendente, rispetto agli anni '30 quando era una creazione recente, di fatto guidata dalla banca Morgan e altri, al fine di stabilizzare l'inizio del panico degli anni '20 trovando di conseguenza un prestatore di ultima istanza reso istituzionale, per migliori garanzie. Senza dimenticare che al vertice di Davos del gennaio 2025 il fondo finanziario più grande, Blackrock, ha sostenuto l'idea dell' Unità europea, un' Unità attaccata sia da Trump che dai nazionalisti europei i quali la vedono come un'opportunità per un'alleanza tattica. Siamo quindi lontani da un'unità del "grande capitale", visto che ci sono ancora molti venti contrari. Varoufakis, così come altri (Piketty), non sembra tener conto dei vantaggi che gli Stati Uniti traggono dalla divisione internazionale del lavoro. Sembra che prendano per oro colato ciò che si dice sui disavanzi commerciali, senza tener alcun conto degli scambi all'interno di uno stesso gruppo, dell'aspetto multinazionale delle grandi imprese, dei legami di subappalto, ecc. Inoltre, il disavanzo commerciale americano non è sorprendente, dato l'enorme peso dei servizi in relazione all'industria. Questo deficit americano sancisce - così come avviene con il dollaro in quanto moneta di transazione e di riserva - l'eccezionalità della tesi americana, la quale consiste nel trasformare una debolezza in un punto di forza, catturando parte della ricchezza mondiale senza dover aver bisogno di passare attraverso l'imperialismo. Tuttavia, la malafede di Trump e del suo entourage non dovrebbe farci dimenticare che a livello di capitalismo ai vertici esistono contropartite all'acquisizione e alla negoziazione; sia all'epoca del Piano Marshall sia nel contesto del finanziamento della difesa del "campo" occidentale nel quadro della NATO. È questo ciò che è stato teorizzato come una "strategia di egemonia" dal politologo Mickael Mandelbaum [*19]. È predominante dal 1991, e rappresenta il tentativo di stabilire un nuovo ordine mondiale che subentri al vecchio imperialismo.Trump ha abbandonato questa strategia egemonica a favore di una strategia della sfera di influenza, la quale era già stata quella dei suoi modelli presidenziali (William MacKinley e Theodor Roosevelt). La Groenlandia, il Canada, Panama sarebbero nella sfera di influenza americana, mentre l'Ucraina e la maggior parte dell'area slava in quella della Russia e di Taiwan sarebbero nella sfera cinese. Gli Stati Uniti sono invece molto dipendenti dai flussi finanziari che permettono loro sia di finanziare il Tesoro, che di mantenere il valore del dollaro, ma per il momento li assorbono senza problemi. Da questo punto di vista, il capitalismo mondiale non è ancora uscito da un certo equilibrio di funzionamento, come ho cercato di sviluppare teoricamente con la mia idea di "riproduzione rimpicciolita" [*20], che in certi punti si sovrappone all'ambigua nozione di finitezza di Orain. Per dirla in modo meno teorico, la globalizzazione, e in particolare la nuova divisione internazionale del lavoro (DIT), e la globalizzazione del commercio, hanno reso possibile la coesistenza di squilibri all'interno di ciascuna delle tre principali zone economiche. La Cina risparmia troppo e non consuma abbastanza, permettendo così agli Stati Uniti di consumare più di quanto risparmiano. L'UE, da parte sua, indirizza molti dei suoi risparmi all'estero, in contraddizione con il suo obiettivo di un'industria forte. A essere paradossale è che, a suo modo, la politica di Trump non si discosta da questa prospettiva di riduzione della riproduzione. Prima di tutto, perché da buon malthusiano, Trump non pensa che la torta della ricchezza possa aumentare, e quindi ritiene che non ci possa essere, a livello di commercio mondiale, un rapporto in cui guadagnano tutti; in secondo luogo, da buon pragmatico, sta scommettendo su un livello di recessione americana inferiore a quello cinese. Sta puntando a un nuovo equilibrio, non ottimale, a suo favore. Nel suo articolo, Piketty ritiene che gli Stati Uniti siano in grave difficoltà. Non voglio dare un giudizio anticipato, dal momento che in dieci anni la quota degli Stati Uniti nella capitalizzazione mondiale è passata dalla metà del totale a due terzi. Negli Stati Uniti, la capitalizzazione di mercato (cioè la valutazione dei titoli) rappresenta il 190% del PIL, rispetto al 50% dell'UE e il rapporto valutazione/profitto è di 27 contro 14, il che consente, attraverso questo capitale fittizio presente nella valutazione di mercato, di valutare meglio sia l'investimento che la remunerazione degli azionisti (tecnicamente la Q [*21] di Tobin). È quindi del tutto logico, a parità di altre condizioni, che il tasso di investimento americano sia superiore a quello europeo (14 contro 11,4 [*22]). Ma sebbene efficiente, questa teoria è datata (1969), e non tiene conto della globalizzazione finanziaria e del nuovo ruolo della capitalizzazione. Infatti, nel processo complessivo, attribuisce sempre grande importanza all'accumulazione e alla produzione. Tuttavia, oggi, la pratica delle fusioni e acquisizioni è diventata una soluzione facile, per non dire di moda, anche quando Q è maggiore di 1. Gli Stati Uniti realizzano quindi un numero di fusioni e acquisizioni più che doppio rispetto agli europei, pur avendo un tasso di investimento migliore. Questo potere è amplificato dal ruolo dei fondi pensione (155% del PIL rispetto al 22% dell'UE), che sono principalmente orientati (60%) verso investimenti azionari. Abbiamo quindi l'impressione che a essere in fibrillazione siano i vari esperti e i media, i quali ora lodano ciò che ieri hanno invece denunciato, perché reagiscono alla rottura trumpiana con una reazione riparatrice. Così, Trump sta attaccando le agenzie governative federali, e "Le Monde" dell'11 febbraio 2025 si è preoccupato... per il destino della CIA e della DARPA per l'innovazione elettronica e militare, quando noi non sapevamo che questo giornale era così favorevole al "complesso militare-industriale"! Allo stesso modo, Davos, un tempo club dei ricchi (per "Le Monde diplomatique" si tratterebbe della «riunione dei nuovi padroni del mondo» e del'«areopago delle élite»), ora sarebbero diventati dei capitalisti gentili, nel momento in cui è Steve Bannon ad attaccare "il partito di Davos", riprendendo lo schema cospirativo originariamente proveniente dai sovranisti di sinistra. Lo stesso vale per l'improvvisa difesa delle grandi università private americane, anche se esse producono e riproducono le maggiori disuguaglianze sociali (vedi anche nota *26).

LE CONTRADDIZIONI DELLA RISTRUTTURAZIONE IN RETE DEL CAPITALE
L'accresciuta presenza di attori non statali e di diverse reti e think tank sulla scena internazionale, ha sconvolto i consueti interventi istituzionalizzati e gerarchici a favore di forme informali di potere. Questa configurazione offusca così le vecchie separazioni tra le attività economiche e quelle politiche, tra quelle private e quelle pubbliche e tra le relazioni tra i livelli locale, regionale, nazionale e globale. Questa messa in rete di diverse posizioni di potere, indica tanto un'integrazione quanto una frammentazione di tutte queste forme, il cui esito è incerto; da un lato, il Forum Mondiale, almeno come progetto, potrebbe costituire una sorta di internazionale del capitale. Non si tratta, quindi, così com'è, di una società segreta, per esempio, del tipo della Massoneria. Si viene per respirare lo spirito dei tempi più che per progettare il futuro; ma d'altra parte, nuovi guru dell'economia come l'influencer Curtis Yarvin stanno sviluppando quella che è una prospettiva di un mondo di Stati corporativi, un mosaico di corporazioni, ognuna governata da una sorta di società per azioni. La politica del clan Trump rompe con il metodo di organizzazioni informali, come il World Forum, che hanno un desiderio di equilibrio, ad esempio integrando nelle regole dell'OMC alcune particolarità favorevoli ai paesi in via di sviluppo per ottenere una relativa stabilizzazione della globalizzazione. E a sinistra c'è un grande sconcerto, poiché alcuni rimpiangono la stessa OMC che ora è riconosciuta per aver svolto un ruolo importante nella nascita dei paesi "emergenti" e nella riduzione della povertà nel mondo [*23]. Trump e Musk vogliono staccarsi dal Forum, e la loro distanza dal Forum ne è un chiaro segno. Alphabet, Meta e Open AI hanno seguito l'esempio. Per dirla semplicemente, poiché questi clan e campi non sono strettamente omogenei, il rapporto tra il clan Trump e il clan Davos, da una parte, e il campo di Wall Street dall'altra, è emblematico di ciò che abbiamo cercato di descrivere nel nostro articolo "Frazioni di capitale e lotte di potere" (nel n. 21 di "Temps critiques", 2022). Contrariamente a quanto possiamo leggere e sentire, c'è stata effettivamente una mescolanza di élite ed è ovviamente nel paese più potente con la più alta mobilità sociale che questo ha avuto luogo. L'accelerazionismo prodotto dalla rivoluzione del capitale, è alla base dell'avvento di questo nuovo mondo nel quale l'innovazione, i nuovi comportamenti ai margini, se non marginali [*24], vengono a competere con le posizioni acquisite e con la rispettabilità. Ad esempio, l'accelerazione reazionaria teorizzata da Lorenzo Castellani [*25] trova una formula politica: non più l'influenza dei "giganti della tecnologia" sul governo, ma l'esercizio diretto del potere da parte dei leader del business digitale; cosa che Musk sta in parte realizzando oggi come consigliere di Trump. Unendosi all'autoritarismo di Trump contro il libertarismo originale, questi tecnofili individualisti stanno sviluppando un retro-futurismo. Per loro, il capitalismo opera nello spazio illimitato della propria universalità, ed è proprio per questo che tutto ciò che facciamo si trova in esso. Promuovono l'intensificazione illimitata di un capitalismo americano che è finalmente riuscito a respingere le frontiere (cfr. nota *7). L'idea è quella di creare una singolarità tecnologica iniziata e poi promossa dai GAFA, da Musk, dai transumanisti; quella che potremmo chiamare la frazione tecnologica della rivoluzione del capitale. Pur dipendendo da esso, ora il capitalismo tende a sovraccaricare la sua frazione finanziaria, anche se quest'ultima può occasionalmente richiamarlo all'ordine, come si può vedere con la reazione dei mercati azionari all'aumento dei dazi doganali. Nella nuova scala statutaria, la ricchezza occupa un posto preponderante, perché è in linea con i nuovi indicatori di potere che sono tutt'altro che patrimoniali, ciò nonostante i discorsi attuali sul dominio del capitalismo patrimoniale. A differenza del capitalismo dell'accumulazione/produzione ed estrazione, che si basava sul lungo termine - ed è questo ciò che pone un problema per le "terre rare" -  il capitalismo dei flussi finanziari e informatici è a breve termine, quello della capitalizzazione. L'unica cosa che potrebbe essere chiarita e modificata in relazione a questo articolo di Castellani, è che ciò che abbiamo sviluppato a partire dall'evoluzione della sfera finanziaria del capitale, dagli anni '80 e 2000, è stato rinnovato e rafforzato dalla crescita e dalle acquisizioni della sfera tecnologica (e immobiliare), i cui membri hanno più un'origine esterna che di appartenenza all'establishment del periodo precedente, piuttosto di estrazione bushiana o clintoniano [*26]. Una caratteristica che permette un'alleanza, seppur congiunturale, tra "anti-sistemi" in alto e "anti-sistemi" in basso. Attraverso il loro cesarismo politico [*27] e l'idea che il fine giustifica i mezzi, i primi danno ai secondi l'impressione che saranno in grado di sfuggire alla fatalità della globalizzazione, e alla catastrofe planetaria prevista dagli esperti. È una vittoria dell'ideologia di certe fazioni di potere e di credo (compreso il credo religioso), di coloro che si sentono declassati o abbandonati. I media possono iniziare, quanto voglio,  tutte le loro informative, o le loro diatribe, con «il miliardario Trump», ma la cosa non funziona. Da quel momento in poi, la sfacciataggine può dilagare e Trump può parlare a ruota libera, come ha fatto nel suo ultimo post: «Questo sarebbe il momento perfetto per il presidente della Fed Jerome Powell per tagliare i tassi di interesse. È ancora in ritardo, ma ora potrebbe cambiare la sua immagine, e in fretta. Abbassa i tassi di interesse, Jerome, e smettila di fare politica!» [*28] ; ma da perfetto tecnocrate del capitale, "Jerome" non si è lasciato condizionare: «Sebbene sia molto probabile che i dazi generino almeno un aumento temporaneo dell'inflazione, è anche possibile che gli effetti siano più persistenti». … e che in prospettiva dovremo alzare i tassi di interesse, e far precipitare il Paese (o il mondo?) nella stagflazione.

ADDIO ALL'OCCIDENTE?
Se interpretiamo a modo nostro il libro di Samuel P. Huntington "The Clash of Civilizations and the Refoundation of the World Order" (Odile Jacob, 1996), emerge che: 1) la modernizzazione capitalistica non è riducibile a un'occidentalizzazione del mondo; 2) La politica al livello dell'ipercapitalismo al vertice è multilaterale e "multiculturale"; 3) L'equilibrio del potere sta cambiando a scapito del potere occidentale; 4) Gli occidentali devono ammettere che la loro civiltà è unica ma non universale. Di conseguenza, devono unirsi per rinvigorirla contro le sfide poste dalle società non occidentali, e anche gli Stati Uniti devono riconoscere la loro appartenenza a questo mondo occidentale. Non possono isolarsi in quella che sarebbe la loro specificità, vale a dire un paese senza una civiltà comune, vale a dire, una civiltà multiciviltà. Lungi dall'essere un'interpretazione politica che a volte è stata fatta in senso semplificativo, al fine di contrapporre due mondi, quello occidentale e quello islamico, Huntington elenca otto civiltà, e la sua conclusione è l'opposto dell'ipotesi di una bipolarizzazione, perché per lui il mondo è diventato multipolare e multiciviltà. Ancorati alle "civiltà", i conflitti che lo animano sono inerenti a identità sedimentate di lunga data. Peter Thiel, uno dei pensatori della "Trump-sfera", è consapevole di questi problemi quando dichiara: «L'Occidente moderno ha perso la fiducia in sé stesso. Durante l'Illuminismo e il post-Illuminismo, questa perdita di fiducia ha scatenato enormi forze commerciali e creative. Allo stesso tempo, questa perdita ha reso l'Occidente vulnerabile. C'è un modo per fortificare l'Occidente moderno senza distruggerlo completamente, un modo per non buttare via il bambino con l'acqua sporca?» [*29] Per Thiel, la crisi dell'autoconservazione è anche il momento dello stato di eccezione, allorché, in un certo senso, tutto verrà rivelato. Per il momento, e senza pregiudicare il futuro della politica di Trump, quello che possiamo dire è che nella sua opposizione all'Europa, e alla sua storia politica, sociale e culturale, questa corrente si sta staccando dalle sue origini, dalla filosofia dell'Illuminismo e dal suo universalismo. L'«illumunismo dark» rivendicato dal nuovo profeta Curtis Yarvin, ce ne offre l'espressione più eclatante. Non importerebbe se questi "illuministi" originali non fossero anche sistematicamente attaccati dai decostruzionisti di sinistra, entrambi accomunati da un relativismo quantomeno intemperante.

- Jacques Wajnsztejn,  pubblicato 17 aprile 2025 -

NOTE:

[1]  –  M. Onfray, "Decadenza", Ponte alle Grazie.
[2]  – Jean-François Lyotard, "Petite mise en perspective de la décadence et de quelques combats minoritaires à y mène", in Politiques de la philosophie, testi raccolti da Dominique Grisoni, Grasset, 1976, p. 123 e segg.
[3]  – «... Per quanto riguarda lo "scopo dell'umanità", sono profondamente e categoricamente pessimista. L'umanità, per me, è una grandezza zoologica. Non vedo alcun progresso, nessuna meta, nessuna via di umanità, tranne che nei cervelli degli Homais progressisti dell'Occidente». Spengler, "Pessimismo", in Écrits historiques et philosophiques, Pensées, Copernicus, 1980, p. 39.
[4] – Cfr. Victor Serge e la critica dello stalinismo nel 1939, in "S'il est minuit dans le siècle", Grasset, coll. "Les Cahiers rouges", 1939.
[5] – Sarebbe uno Stato nello Stato che deterrebbe il vero potere decisionale. L'espressione è apparsa negli anni '90 in Turchia, poi in Italia, per parlare di collusione tra politici, polizia e mafia. Questa espressione è stata ritrovata dopo l'elezione di Donald Trump: il canale Fox News e il sito Breitbart l'hanno usata per sostenere il presidente, che è stato oggetto di una procedura di impeachment.
[6] – Cfr. L'evoluzione del giornale Libération.
[7] – Frederick Jackson Turner, "The Frontier in the History of the United States", PUF, 1963: «l'Occidente è più una forma di società che una regione geografica» (p. 178). E ancora: «L'Occidente è un processo di organizzazione sociale. La nozione di confine, per la sua stessa estensibilità, è un confine, per definizione, sempre in movimento, mai predefinito. Gli Stati Uniti sono stati costruiti e definiti su un confine sfuggente: un confine che va solo avanti, che esiste solo come un'incessante autotrascendenza, un'inesauribile frontiera autocostruita come diceva Carnegie. Il confine e lo spostamento verso l'Occidente funzionano come un cambiamento di scenario e una de-europeizzazione – "spoglia" l'uomo "germanico" dei "vari attributi della civiltà per fargli indossare mocassini e abiti da caccia" – all'interno del quale, secondo uno schema abbastanza vicino a quello della selezione darwiniana, si devono "accettare le sue condizioni o perire"». (op. cit., pp. 3-4).
[8] – Olena Leipnick, Donald Trump in the Frontier Mythology, Rootledge, 2023: «Trump è arrivato in politica con un passato controverso, ma l'inserimento della sua immagine presidenziale nella logica del mito ha trasformato questa ambiguità morale in prova di autenticità propria di una versione completa dell'eroe della frontiera.», citato in Le Monde, Valentine Faure: "In che modo Donald Trump sta facendo rivivere il mito americano del 'confine'?"
[9] – Cfr. Braudel, L'identité de la France, vol. II, Arthaud-Flammarion, 1986, p. 227.
[10] – Secondo il censimento effettuato da due economisti americani, Henry Kaufman (Stern School of Business, New York University) e Robert Wright (Augustana University, South Dakota).
[11] – Per Smith, è nell'interesse di ogni paese specializzarsi in una produzione i cui costi di produzione sono inferiori a quelli di altri paesi. La produzione sarebbe ottimale in teoria (globalizzazione felice), ma in realtà è diseguale. È stato rapidamente soppiantato dalla teoria del vantaggio comparato di Ricardo, con la specializzazione che ha luogo dove il vantaggio è maggiore o il vantaggio più grande. meno svantaggi. L'estrema divisione internazionale del lavoro nella globalizzazione ha tuttavia aggiornato la teoria di Smith, ma i suoi limiti si sono visti al tempo della crisi sanitaria.
[12] – Le fonti recenti di questo declinismo sono, naturalmente, le tesi del Club di Roma e il Piano Mansholt sulla necessaria riduzione della spesa energetica all'inizio degli anni '70. Da allora sono stati rilanciati, prima dalle teorie della diminuzione delle correnti, poi dalla congiunzione delle azioni degli esperti (IPCC) e degli attivisti per il clima.
[13] – Da qui anche la tendenza a voler diventare sempre più grandi (cfr. il progetto Stargate), mentre l'esempio cinese di DeepSeek, che è finanziato da venture capital (la società di gestione patrimoniale cinese Hygh Flyer) mostra la diversità delle opzioni per l'IA.
[14] – Insegnante canadese di scienze politiche e collaboratore della New Left Review.
[15] – Leo Panitch e Sam Gindin: "Sovrintendere al capitale globale", citato e introdotto, in modo piuttosto confuso, da Razmig Keucheyan in Hémisphère gauche, Zones, La Découverte, 2010. Per le seguenti statistiche, si veda l'intervista a Sean Starrs, lui stesso un ex allievo di Panitch: "Il declino economico degli Stati Uniti è stato notevolmente esagerato", in jacobin.com, 21 febbraio 2025.
[16] – https://unherd.com.fr/2025/03/le donald-trump-master-economic-plan
[17] – parola "portmanteau" che associa "bro" (contrazione di fratelli) e arkhia (comando). Si riferisce a una modalità di leadership composta da una manciata di uomini che si considerano migliori amici – che si aiutano a vicenda, cooptano, litigano e banchettano tra di loro in club selezionati, sul modello dei fratboys, i membri delle confraternite studentesche americane. Apparso negli anni 2010 negli Stati Uniti, questo neologismo si è diffuso sulla stampa americana e poi internazionale in seguito a un articolo del quotidiano britannico The Guardian intitolato "I broligarchi tecnologici si stanno allineando per corteggiare Trump".
[18] – Cfr. il mio articolo sulle frazioni di capitale nel numero 21 di Temps critiques.
[19] – "Nel caso di Golia. Come gli Stati Uniti agiscono come governo mondiale nel 21° secolo", 18 Public affairs, 2006, citato da Michael Lind in Le Monde, 26 marzo 2025. La posizione nazionalista di Trump rompe con questa strategia e ricorda invece la fine del sistema monetario internazionale di Bretton Woods di Nixon nel 1971 e riecheggia le parole di John Connally, ex segretario al Tesoro: "Gli stranieri sono qui per fotterci. È nostro compito scoparli per primi" (ibid.).
[20] – Si veda "Capitalizzazione e riduzione della riproduzione", Temps critiques, n. 19, 2018, https://www.tempscritiques.net/spip.php?article383
[21] – Questa teoria definisce un rapporto Q tra la capitalizzazione di mercato (valutazione) e il costo di sostituzione delle immobilizzazioni (capitale fisso). Un Q maggiore di 1 significa che l'azienda in questione ha interesse ad aumentare il proprio stock di capitale fisso e quindi sceglie la crescita organica investendo; un Q inferiore a 1 può viceversa portare a una scelta di crescita esterna attraverso il processo di fusione/acquisizione.
[22] – Fonte; P. Arthus, Les Echos, 3 marzo 2025.
[23] – Cfr. L'intervista del direttore dell'ONG Max Havelaar al quotidiano Le Monde, 18 febbraio 2025.
[24] – cfr. l'articolo di Nastasia Hadjadji: "LSD, ketamina... perché Elon Musk, Peter Thiel e la destra tecno-americana stanno inciampando con gli psichedelici", in Libération, 7 aprile 2025.
[25] – L. Castellani: "Con Trump, l'era dell'accelerazione reazionaria", in Le grand continent, 8 novembre 2024.
[26] – Nel suo romanzo biografico Hillbilly Elegie (Paperback, 2016), J. D. Vance, l'attuale vicepresidente, racconta il suo sgomento quando è arrivato a Yale nel 2010; Un'università privata d'élite in cui il 95% degli studenti proviene dalla classe medio-alta. Secondo lui, nonostante la sua alta statura, la pelle bianca e l'eterosessualità, era la prima volta che si sentiva fuori posto (p. 259 e segg.).
[27] – Da Empoli, op. cit. cit., cita César Borgia e parla di un "momento machiavellico".
[28] – Citato in Le Monde, 6-7 aprile 2025.
[29] – Peter Thiel, "Il momento straussiano", in Studi su violenza, mimesi e cultura: 27, Politica e apocalisse, a cura di Robert Hamerton-Kelly (Michigan State University Press, 2007), 207; citato da Huk-Hui, "Sulla ricorrenza dei neoreazionari", Lundi matin, n. 463.

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