«Tutto ciò che lo riguardava, poteva sempre avere un doppio significato, poteva essere vero e falso allo stesso tempo. Era come un personaggio di Shakespeare: un ambivalente e un inaffidabile. Un traditore, probabilmente, nel senso che un doppiogiochista non può non essere un traditore. Forse era questa la vera modernità del suo personaggio» (Alan Pauls)
Malgrado il perentorio verdetto sulla ciarlataneria, emesso nelle relazioni ufficiali dagli uomini di scienza a proposito degli intermediari tra il mondo dei vivi e quello dei morti, lo Spiritismo, fino al primo decennio del XX secolo, ha avuto degli adepti, e persino l'appoggio della stampa. Leskov, lo ha sempre visto come se esso fosse solo una fra le tante forme di misticismo. Dev'essergli molto piaciuto quel passo di William Shakespeare, nell'Enrico IV, in cui due personaggi dialogano tra di loro: « - "Io posso invocare gli spiriti dell'abisso". - "E anch'io posso farlo, chiunque può farlo, l'unica questione è se verranno."» Così, "Lo spirito della signora Genlis" - un racconto pubblicato da Nikolai Leskov nel 1882 - reca come epigrafe una frase di Antoine Augustin Calmet: «A volte, è più facile invocare uno spirito, che liberarsene». La frase è abbastanza appropriata al tono ironico della narrazione, la quale ha come sottotitolo: "un caso di spiritismo". Il narratore ci informa che la storia si svolge in un inverno del 1860, al culmine di quella che viene ricordata come la "febbre dei tavoli rotanti" e di altri fenomeni simili. A questo punto, possiamo ricordare anche la citazione relativa a quel che dice Kittler circa il rapporto che Balzac e Poe avevano con la fotografia; la quale, proprio in quello stesso periodo, stava attraversando un forte rinnovamento, e veniva pertanto messa al centro della curiosità relativa al soprannaturale: «Balzac, con le sue tendenze mistiche, non poteva non immaginare l'essere umano come se fosse un essere costituito da molti strati ottici - come una cipolla - da quali ogni fotografia rimuoveva e archiviava lo strato superiore, staccandolo così dalla persona fotografata». È possibile ricordare anche Mesmer, insieme a tutte le possibili relazioni tra Mesmer, Freud e Charcot. Ma l'elemento che conferisce eccezionalità al racconto di Leskov, consisteva nel fatto che lo spirito della signora Genlis (personaggio storico: scrittrice ed educatrice francese nata nel 1746 e morta nel 1830) si manifestasse attraverso i suoi libri (non metaforicamente, ma materialmente: lo spirito risiedeva proprio in quei "libretti blu" che la principessa russa, con la quale il narratore di Leskov entra in contatto, conserva nella propria libreria. Ed è proprio la principessa che, tra le altre cose, spiega che: «sono convinta che il delicato fluido di Félicité, abbia scelto per sé un posticino ameno, proprio sotto il marocchino felice che abbraccia le foglie su cui i suoi pensieri hanno dormito, e se non siete totalmente increduli, spero che allora riuscirete a capirlo». (da Leskov: "Um pequeno engano e outras histórias", trad. Noé Polli, Ed. 34, 2024, p. 9).
Sempre nel "caso di spiritismo" di Leskov, ciò che attira subito l'attenzione è che si tratta di una narrazione incentrata proprio sull'attività della lettura: la principessa, ogni volta che ha bisogno di una risposta, o di una direzione per la vita, fa ricorso alle opere della signora Genlis; azione che lei consiglia anche ad altri, come, ad esempio, fa col narratore (ed è proprio a questo punto specifico - quello in cui il futuro della vita viene cercato nella lettura di un frammento testuale scelto a caso - che Leskov trova un'eco latinoamericana in "Prigione perpetua", di Ricardo Piglia, dove vediamo un personaggio che consulta l'I-Ching per sapere se egli ha bisogno di consultare l'I-Ching). La procedura viene messa in atto e funziona un paio di volte: quel che avviene è che, quando un personaggio va verso i libri, ne prende uno e lo apre a caso, ecco che viene fuori una frase la quale, con un bel po' di buona volontà, finisce per servire alla situazione. Il punto centrale del racconto, però, risiede invece proprio nel momento in cui la procedura non funziona: la figlia della principessa, una cosiddetta innocente, sempre molto protetta e tenuta in casa, viene chiamata a dimostrare l'affidabilità della procedura. Il passaggio che le capita, però, non è affatto innocente: si tratta di un estratto dalle memorie della signora Genlis, nel quale lei descrive il suo incontro con uno storico (1737-1794), noto per la sua grassezza:
«Gibbon è piccolo di statura, straordinariamente grasso e ha un viso molto ammirevole. In questo non mi è stato possibile distinguere alcuna traccia. Non si vedeva un naso, non si vedevano gli occhi, non si vedeva la bocca; Due guance unte, grasse, simili a chissà che cosa diavolo, assorbivano tutto... Erano talmente gonfi da essersi allontanati da qualsiasi senso di proporzionalità minimamente dignitosa nei confronti delle guance più grandi del mondo; Chiunque le abbia viste dovrebbe chiedersi: perché questa cosa non è stata messa al suo posto? Se potessi, caratterizzerei il volto di Gibbon con una sola parola, se solo potessi dirla, una parola del genere. Il duca di Losanna, che era intimo di Gibbon, una volta lo condusse a casa di Madame Dudeffand. La signora era già cieca e aveva l'abitudine di palpeggiare con le mani i volti dei personaggi illustri che le venivano presentati. In questo modo, ella acquisiva un'idea molto fedele dei tratti della nuova conoscenza. Volle applicare lo stesso metodo tattile a Gibbon, e questa fu una vergogna. L'inglese si avvicinò alla poltrona e con tutta bontà offrì il suo viso ammirevole al tocco della padrona di casa. La signora Dudeffand gli tese le mani e passò le dita su quel viso sferico. Stava cercando intensamente qualcosa su cui fermarsi, ma non era possibile. Allora il viso della signora cieca espresse prima stupore, poi rabbia, e infine, ritirando bruscamente le mani per il disgusto, gridò: "Che scherzo infame!"» (pagg. 21-22)
Così, il momento in cui l'anziana cieca percorre con le mani il viso di Gibbon, diventa il culmine del racconto di Leskov: il momento delle risate e dell'umorismo (indubbiamente, una dimensione di quella "incontinenza" meticolosamente pensata da Leskov: le risate si scatenarono allo stesso modo in cui potrebbe fare la merda su un viso che sembra un ano) e, inoltre, costituisce anche il momento in cui la credenza nel soprannaturale da parte della principessa crolla: la signora Genlis ha fallito, non le è stato offerto quell'oracolo che avrebbe voluto. Tutta la scena è allo stesso tempo anche una lezione di umiltà; simile a quella che Montaigne traccia nel suo saggio sull'esperienza, e anch'essa articolata intorno a un riferimento alla merda e al culo, allorché scrive che, anche sul trono più alto, ci troviamo sempre seduti sul nostro culo («Et au plus eslevé throne du monde si ne sommes assis que sus nostre cul»). E questo diventa anche una riflessione su in che cosa consistano i più bassi piaceri, oltre che sull'onnipresenza dell'escatologico nei nostri processi psicologici; come Freud mostrerà qualche decennio dopo la pubblicazione del racconto di Leskov: dalla "Psicopatologia del quotidiano" alla "dreckologia" (o anche, la "merdologia" di cui parla Freud nelle sue lettere a Fliess) egli precede addirittura "l'Interpretazione dei sogni", visto che il testo risale al 1897. La scena di Leskov, in cui un volto si trasforma in uno stronzo, può essere vista anche come una sorta di anticipazione artistica (lo stesso Freud non diceva forse che era nei poeti del passato che potevamo trovare la dottrina psicoanalitica?!??) e anche di quella che poi sarà la critica alle procedure di controllo e standardizzazione dei corpi e dei volti; fatte soprattutto a scopo di operazioni di polizia: non solo la fisiognomica di Lavater (e anche di Goethe), ma anche le impronte digitali di Francis Galton (o persino la frenologia di Cesare Lombroso; ed esse sono tutte assolutamente contemporanee, dal momento che Leskov è nato nel 1931 e Lombroso, nel 1935). Ecco allora che tutto questo viene evidentemente legato narrativamente da Carlo Ginzburg ((Carlo Ginzburg, “Radici di un paradigma indiziario”, in “Miti, emblemi, spie” Einaudi).
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