Da dove arrivano i "Millennial"
- di Jia Tolentino -
Immagino - cosa che faccio spesso - che il nostro mondo finisca domani, e che dei ricercatori alieni, fra molti anni nel futuro, siano stati incaricati di ricostruire la scomparsa della nostra civiltà a partire dalle notizie. Qualora dovessero approfondire il tipo di approccio espresso dal nostro presidente [N.d.T.: Trump], non tarderebbero ad identificare come sospetta la curiosa figura del millenial. Ne emergerebbe l'immagine composita di un parassita dipendente dal telefono che si nutre delle nostre amate istituzioni americane allo stesso modo in cui il tonchio si nutre del raccolto. I Millenial, secondo i più recenti titoli dei giornali, stanno uccidendo gli alberghi, i grandi magazzini, le catene di ristoranti, l'industria automobilistica, l'industria dei diamanti, l'industria della fabbricazione di tovaglioli, la proprietà immobiliare, il matrimonio, i campanelli, le motociclette, le fabbriche di ammorbidenti, i programmi di fedeltà alberghiera, i casinò, la Goldman Sachs, Serendipity e i McWrap della McDonald.
L'idea secondo cui i millenial stiano capricciosamente distruggendo il panorama del consumo americano, assegna un bel po' di potenza ad un gruppo che si situa ancora in una fascia di età assai giovane. Nati negli anni 1980 e 1990, i millenial si trovano ora ad avere fra i trenta ed i vent'anni. Ma l'immagine popolare di questa generazione - il cui nome è stato loro dato, nel 1987, da William Strauss e Neil Howe - è stata a lungo collegata con il concetto di distruzione dell'interesse personale. Nell'ultimo decennio, una simile connessione è stata codificata da Jean Twenge, un'insegnante di psicologia all'Università di Stato di San Diego, che a proposito di questi ragazzi più giovani di lei ha scritto con aria di pragmatica imparziale serietà e con un sottofondo di allarme morale. (È diventato virale un suo articolo, che era un adattamento del suo ultimo libro, "iGen", che parlava della generazione successiva a quella dei millenial, e che è stato pubblicato sul numero di settembre di "The Atlantic" col titolo "Gli Smartphone hanno distrutto una generazione?"). Nel 2006, la Twenge ha pubblicato "Generation Me: Why Today’s Young Americans Are More Confident, Assertive, Entitled—and More Miserable Than Ever Before." La copertina del libro, reca il titolo inciso sull'ombelico di una pancia nuda, inserito fra un piercing ed una cintura su un paio di jeans a vita bassa.
Secondo la Twenge, i millenial sono "tolleranti, fiduciosi, aperti, ed ambiziosi, ma sono anche disimpegnati, narcisisti, diffidenti ed ansiosi." Fornisce una raffica di statistiche come supporto a questa sua valutazione, insieme a testimonianze aneddotiche e ad esempi pop-culturali che confermano perfettamente le tendenze da lei identificate. (Una versione riveduta e corretta, pubblicata nel 2014, cita lo show televisivo "Girl" per ben sei volte). La Twenge ammette che la generazione è diventata maggiorenne trovandosi in una situazione di «una stretta economica creata dalla disoccupazione e dall'aumento dei prezzi», ma pe lo più spiega le caratteristiche dei Millennial in termini di cultura e di scelte. I genitori hanno enfatizzato la loro auto autostima e la loro felicità, mentre i bambini traevano spunto da un'epoca caratterizzata dalla diversità delle iniziative, dalla decentralizzazione dell'autorità, dagli avatar online, e dai reality in tv. Come conseguenza, i Millenial sono diventati irresponsabili e fondamentalmente dei disadattati. Loro «credono che ogni lavoro sarà appagante, e perciò non riusciranno mai a trovarne uno». Bisogna che abbassino le loro aspettative e che rendano offuscate le scintillanti immagini che hanno di loro stessi, per poter diventare degli adulti funzionali.
Quest'argomentazione è un appello conservatore, si concentra sull'individuo piuttosto che sulle strutture e sulle condizioni che governano la vita di ciascuno. La Twenge si chiede, «La crescita dell'autostima dei bambini delle minoranze è un bene assoluto?» e quindi osserva, «Fare accrescere l'autostima dei bambini non risolverà i problemi legati alla povertà e alla criminalità.» È possibile arrivare a simili conclusioni moralistiche anche partendo dalla premessa economica opposta. Nel libro "The Vanishing American Adult”, pubblicato a maggio, il senatore Ben Sasse, repubblicano del Nebraska, insiste sul fatto che viviamo in un'epoca di "affluenza" generalizzata, nella quale «gran parte del nostro stress non proviene dalla privazione ma, stranamente, dal surplus.»
I Millennial hanno «troppo pochi problemi», egli sostiene. Sasse rimprovera i genitori per aver concesso ai propri figli di soccombere alle tentazioni dell'abbondanza contemporanea che erode il carattere, ed dà dei suggerimenti per trasformare la generazione ora in età scolastica in una sorta di adulti laboriosi, finanziariamente indipendente, cosa che i millennial non sono ancora diventati.
L'immagine dei Millennial si è offuscata da quando Strauss ed Howe hanno fatto loro le pulci: nel loro libro del 2000, "Millennials Rising", avevano affermato che i membri di questa generazione emergente sono tutti seri, industriosi e positivi. Ma il declino di una tale reputazione non sorprende affatto. A partire dagli anni 1960, la più parte delle analisi generazionali ha ruotato intorno all'idea rivoluzionaria che i giovani sono egoisti. Il titolo del libro della Twenge, relativo ai Millennial, non fa altro che ribaltarne uno più vecchio, il "me generation", preso dalla copertina di un articolo di Tom Wolfe sul New York, relativo ai baby boomers. (Il volubile Wolfe, nato nel 1930, è un membro della generazione silenziosa). Wolf sosteneva che i trent'anni di crescita economica del dopoguerra avevano prodotto una mania per il «rifare, rimodellare, innalzare, e ripulire il proprio sé... e osservare, studiare, e procurarsene uno.» La paura di un egoismo crescente, nei quarant'anni successivi, è solo aumentata.
Questa paura è radicata in quelli che sono cambiamenti concreti: la storia dell'interesse personale americano è una storia continua che tuttavia contiene importanti cambiamenti istituzionali ed economici. Adattarsi a questi cambiamenti tende a produrre alcuni effetti. Sono nata e sono stata schiaffata nel bel mezzo di una categoria definita Millennio, e la descrizione che dà la Twenge della personalità della mia generazione mi colpisce per la sua accuratezza. Ultimamente, i sogni dei Millennial tendono meno alla fama globale e più ad una assicurazione sanitaria a prezzi accessibili, ma lei ha ragione quando dice che la mia generazione è cresciuta sotto l'influsso di nuovi e potenti incentivi a focalizzarsi su sé stessi. Se per i baby-boomer, l'auto-realizzazione era un progetto consapevole, e se per la Generazione-X - nata nei '60 e nei '70 - era una missione che doveva fallire, per i Millennial si tratta invece più fi una condizione atmosferica: ineluttabile, ordinaria, e, forse, sempre più tossica. Una generazione che ha ereditato un mondo senza poterci vivere. Com'è successo questo? E perché ci sono così tante persone che insistono a biasimarli per questo?
“Kids These Days: Human Capital and the Making of Millennials”, di Malcolm Harris (Little, Brown), è il primo saggio sulla generazione dei Millennial scritto da qualcuno che ne fa parte. Harris ha ventotto anni - la copertina ne annuncia la sua data di nascita mettendola accanto ad una sardonica riproduzione di uno sticker delle scuole elementari - e ha già fatto tutta la gavetta basilare del giovane, scrittore sui media della sinistra: è uno scrittore e redattore per la rivista online "The New Inquiry"; ha scritto su "Jacobin" e su “n+1.” Durante Occupy Wall Street, ha avuto il suo primo bagno di notorietà: subito dopo che gli attivisti si erano stabiliti a Zuccotti Park, scrisse un post su Jacobin in cui affermava di aver «sentito notizie non confermate che i Radiohead avevano intenzione questa settimana di fare un concerto per l'occupazione.» Aveva creato un account e-mail usando il nome del manager della band e aveva scritto agli organizzatori di Occupy, esprimendo interesse per l'esibizione della band. Più tardi, in un pezzo per "Gawker", intitolato “I’m the Jerk Who Pranked Occupy Wall Street", spiegava che il suo obiettivo era quello di cercare di portare più persone possibili alla protesta, ed aveva espresso sdegno per il modo in cui avevano risposto gli organizzatori. (Ingannati dalla sua e-mail, avevano tenuto una conferenza stampa ed avevano confermato che la band avrebbe suonato.)
Harris comincia ad anatomizzare i suoi coetanei a partire dagli adesivi a stelle e strisce che, insieme ai trofei di partecipazione alle scuole elementari, così tanto affascinano Sasse, Twenge, e gli altri scrittori a proposito di tendenze generazionali. «Fai schifo, continui a conservare i tuoi trofei», è questo il modo in cui lo dice Twenge, descrivendo la costante della contemporaneità come se fosse un infinita cerimonia di premiazione. Harris da parte sua, considera la scuola elementare come se fosse un campo di addestramento capitalista, nel quale i bambini svolgono lavori non pagati, imparando l'importanza di dover crescere anno dopo anni attraverso test standardizzati, ed abituandosi alla costante, quantificata, di un lavoro sempre più efficiente. Le due descrizioni non sono poi così distanti l'una dall'altra come si potrebbe pensare: assicurano ai bambini che loro sono super-speciali - e dicono loro, come fa Sasse, che hanno il dovere di migliorare sé stessi attraverso un costante arricchimento - è un buon modo per convincerli ad aderire ad un cultura del lavoro 24 ore su 24. E vengono condizionati a cercare ricompense sotto forma di feedback positivi - stelle e trofei, cuori e "mi piace" - è un ottimo modo per portarli a fare gratis quel lavoro.
I miei ricordi di infanzia - in un quartiere suburbano nella parte ovest di Houston, aperto come fosse campagna - sono diversi, allegri, caldi e pieni di luce. Ho frequentato, in gran parte grazie ad una borsa di studio, una scuola della Chiesa Battista del Sud, collegata ad una delle più grandi mega-chiese d'America, e la scuola elementare sembrava essere il prezzo naturale da pagare per essere ammessi ad avere amici, feste di compleanno, e lunghe estati piene di grida, e di giochi senza controllo. (I giovanissimi non hanno molto a che fare con le tecniche di indottrinamento; anche l'agit-prop religioso viene sentito abbastanza in maniera naturale.) Ma un certo tipo di training ha preso il sopravvento all'incirca quando sono entrata al liceo, quando ho cominciato a passare 14 ore al giorno in un campus, con la consapevolezza che avevo bisogno di guadagnarmi una borsa di studio per un un buon college. Il college, naturalmente, è il luogo dove i millennial vanno in giro su lussureggianti quadrati verdi, spendendo i soldi di qualcun altro, dove pretendono degli "spazi sicuri", come viene scritto a chiare lettere sul curriculum etero-normativo della scuola, e dove si dichiara guerra ai professori se si riceve un voto inferiore ad "A". Ho fatto le prime due di queste cose, grazie alla Jefferson Scholars Foundation della University of Virginia. Ho anche frequentato sei lezioni a semestre, ho lavorato part time ed ho riempito i miei programmi di club e di comitati - e in mezzo a questo ho fatto sonnellini pomeridiani sul quad ed ho bevuto birre con gli amici sul divano ed ho fatto lunghe sessioni meditative immaginando che tipo di persona stavo diventando.
La maggior parte degli studenti non ha un'esperienza così lussuosa e senza debiti. La maggioranza degli studenti dei college americani non ha mai vissuto in un campus; circa un terzo di loro va in un college statale. Il genere di millennial cui si riferisce gran parte dei media - bianco, ricco, per lo più spensierato - è largamente non rappresentativo di quel che in realtà è, di fatto, un gruppo variegato e assai spesso socialmente mobile verso il basso. (I millennial sono la prima generazione ad avere solo il 50% di probabilità di vivere economicamente meglio dei loro genitori.) Molti millennial sono scresciuti in povertà, sono andate in scuole scadenti, e sono stati indirizzati ad un college che opera per un profitto e a causa di lavori a salario minimo, se addirittura non si è trattato del sistema carcerario. (I college che operano per un profitto, che servono in maniera sproporzionata studenti a basso reddito, rappresentano all'incirca un decimo della popolazione studentesca, e più di un terzo degli studenti che sono insolventi riguardo al loro debito.) Il debito medio degli studenti, all'interno di questa generazione si è raddoppiato, passando da circa 18.000 dollari per laurea della classe del 2003 ai 37.000 dollari della classe 2016. (A causa del piano fiscale, recentemente votato dai repubblicani alla Camera, la situazione è peggiorata per gli studenti che hanno un mutuo, e per le loro famiglie: la legge ha eliminato la deduzione degli interessi sul prestito ed annulla l'esenzione delle tasse scolastiche per i sussidi.)
Un giovane laureato, dopo aver seguito fedelmente la strada americana fatta di duro lavoro e di successo, alla fine potrebbe trovarsi in una posizione assai simile a quella di un proprietario di casa: in possesso di un bene che vale assai meno di quello per cui si è indebitato. In queste condizioni, il concetto di interesse personale comincia ad andare in pezzi. Per i giovani, ho il sospetto, l'idea di specializzarsi assomiglia ad una ricompensa, ma dopo tutto finisce per svolgere la funzione di una punizione, insinuando in noi l'idea che che non esiste un modo in grado di generare continuamente rendimenti.
Harris ed io siamo nati lo stesso anno, e siamo andati al college quando, nel 2008, la crisi finanziaria ha colpito. Nel momento in cui mi avvicinavo alla laurea, guardavo filmati di notizie in cui si vedevano famiglie che portavano fuori gli scatoloni dalle loro case appena pignorate, seguiti da immagini di professionisti che indossavano costosi vestiti e che passeggiavano mentre andavano a lavorare nelle loro banche che erano state appena salvate. Ho fatto parte dei Corpi per la Pace, e mi hanno assegnata al Kirghizistan. Subito dopo essere tornata negli Stati Uniti, nel 2011, ha iniziato a fiorire lo sgangherato, amorfo movimento di Occupy; i manifestanti avevano cominciato con l'inveire contro l'impunita dell'«uno per cento», a Houston, così come in dozzine di altre città in tutto il paese. Sospesa nell'ambra della mia temporanea sottoccupazione, trascorrevo lunghi pomeriggi ciondolando per Hermann Square, in centro, scambiando quattro chiacchiere con avvocati libertari, con pan-attivisti in bandana e sandali da trekking, e con un bel po' dei miei millennial demografici che entravano nel loro scontento politico.
In quel settembre, Occupy aveva allestito il suo campeggio improvvisato a Lower Manhattan. Il primo giorno di ottobre, circa 700 manifestanti erano stati arrestati ed accusati di aver provocato dei tumulti per aver marciato sulla strada che porta al Ponte di Brooklyn, bloccando il traffico.
Harris era uno di loro. Egli sosteneva, insieme a molti altri, che la polizia aveva indirizzato il gruppo verso il ponte, e poi li aveva arrestati. Nel 2012, mentre la causa stava andando avanti, il suo archivio di post su Twitter era stato portato in giudizio. Twitter aveva fatto resistenza all'ordinanza del Tribunale, ma alla fine aveva ceduto ed aveva fornito i tweet, i quali avevano reso evidente che Harris aveva sentito la polizia che avvertiva i manifestanti di non invadere la carreggiata. («Hanno cercato di fermarci», aveva twittato.) Venne condannato a sei giorni di servizio alla comunità. Queste storie di Occupy non ci sono dentro il libro "Kids These Days" - Harris ha del tutto lasciato fuori la sua esperienza personale, focalizzandosi sull'analisi strutturale piuttosto che sugli aneddoti. Tuttavia, in una discussione sui social media, osserva che «la Coca-Cola ha un buon sapore anche se hai visto quello che riesce a fare ad un chiodo arrugginito.» Continua a fare spesso uso di Twitter.
Quando la Twenge ha pubblicato per la prima volta il suo "Generation Me", i social media non erano ancora diventati onnipresenti. Facebook era limitato ai college e alle scuole superiori, Twitter formalmente non era ancora stato lanciato, ed Instagram ancora non esisteva. Ma la narrazione Millennial stava già assumendo la sua forma matura, e i social media si adattavano perfettamente ad una narrazione del genere: il narcisismo degli "aggiornamenti di stato", la superficialità, l'incapacità a star fermi. Si potrebbe quindi concludere che la storia dell'egocentrismo generazionale è talmente flessibile da non avere alcuna definizione reale - può coprire qualsiasi cosa, stirandosi appena un po'. Ma forse c'è un'altra possibilità; quella che i social media si nutrono delle stesse condizioni che hanno reso i Millennial quello che sono.
«Negli ultimi dieci anni, l'ansia, come motivo più comune per cui gli studenti si rivolgono a dei servizi di consulenza, ha sorpassato la depressione», osservava ad ottobre il Times Magazine. L'ansia, sostiene Harris, non è solo lo sfortunato sottoprodotto di un'epoca in cui i salari sono bassi e la sicurezza lavorativa è scarsa. Essa è utile: uno stato costante di agitazione adrenalizzata può servire a rendere difficile smettere di lavorare e incoraggia a pensare ad altri aspetti della propria vita - salute, tempo libero, interazione online - rispetto al lavoro. I social media riescono, allo stesso tempo, sia ad alleviare immediatamente tale ansietà che a ricostituirla, di modo che gli utenti continuino a ritornare. Molti di quei lavori che consentono ai millennial di compiere balzi improvvisi nella sicurezza finanziaria - nella tecnologia, nello sport, nella musica, nei film, nel "influenzare l'opinione pubblica", e, occasionalmente, nel giornalismo - sono mercuriali e si basano sull'identità, dove i profitti più alti e le maggior opportunità vanno a coloro che hanno sviluppato un seguito online. Inoltre, coltivare un "marchio personale" è diventata una questione di prudenza oltre che un'ambizione: c'è un forte incentivo ad essere pubblicamente "simpatico" nel momento in cui gli estranei si valutano stancamente e si recensiscono l'un l'altro riguardo le transazioni di minore importanza - "cat-sitting", assemblaggio mobili ikea, condividere un viaggio in auto o una camera d'hotel per risparmiare - e le persone sono costrette alla raccolta di fondi [crowdsource] per pagare le loro spese mediche.
I giovani si sono aggrovigliati attorno alla propria situazione economica «come la vite su un graticcio», come ha detto Harris. E, quando gli esseri umani imparano a pensare a sé stessi come ad un bene che compete su un mercato imprevedibile e punitivo, ecco allora che i Millennial - in tutto il loro ansioso, nervoso, telefono-dipendente splendore - sono esattamente quello che si dovrebbe aspettare. Il disprezzo che così tante persone nutrono nei confronti di quella che è la mia generazione, e quella di Harris, riflette la loro avversione nei confronti delle forze di deregolamentazione, globalizzazione, ed accelerazione tecnologica che stanno trasformando la vita di ciascuno. (Non sembra che sia una coincidenza il fatto che i giovani vengono criticati per il fatto che viene loro riconosciuto un diritto nel momento in cui le persone vengono private dei loro diritti.) I Millennial, in altre parole, si sono adattati troppo bene al mondo in cui sono cresciuti; la loro perfetta sincronizzazione con le perturbazioni economiche e culturali è stata presa per la causa stessa della rottura verificatasi.
In qualche modo, quest'idea corre parallelamente alle valutazioni della Twenge e di Sasse, e di altri commentatori conservatori. Ma le conclusioni cui arriva Harris sono esattamente l'opposto della loro conclusione: anziché arrendersi ancora di più alla situazione, egli sostiene chi bambini dovrebbero ribellarsi. «O seguiamo la tendenza che ci è stata data e realizziamo il brutto futuro, oppure lo rifiutiamo e tagliamo il nodo delle linee di tendenza che definiscono la nostra collettività. O diventiamo fascisti o diventiamo rivoluzionari, o l'uno o l'altro.» È una visione quasi apocalittica. Ma la polarizzazione che permea la politica americana - derivante, in parte, dal giudizio secondo il quale sono necessarie delle misure estreme per poter rendere vivibile il nostro mondo - è evidente soprattutto proprio fra i Millennial, dei quali alcuni costituiscono una parte insoddisfatta di coloro che formano la destra razzista, mentre una larga parte di loro ha adottato la politica di sinistra condivisa da Harris. Nel 2016. alle primarie presidenziali, Bernie Sanders ha ottenuto più voti giovani di quanti ne abbiano ottenuto Hillari Clinton e Donald Trump insieme.
«La ritrovata popolarità del socialismo, fra i millennial, è una tendenza allarmante», scrive Sasse su "The Vanishing American Adult". Egli fornisce una programma che allontani le persone da un tale pensiero, e li spinga ad un età adulta intellettualmente matura, e vi include doverosamente "Il Manifesto Comunista", di modo che gli ipotetici allievi di un simile libro possano comprendere correttamente cosa ci sia di sbagliato in esso. Mi sembra assai più probabile che un giovane che abbia aperto "Il Manifesto Comunista", sottolineerebbe quella parte che parla di come il valore personale venga ridotto a valore di scambio, e poi andrebbe ad unirsi ai Democratic Socialists of America, i quali nell'ultimo anno sono cresciuti di cinque volte. Uno dei membri di questo partito, un veterano del corpo dei marine che di nome fa Lee Carter, a novembre è stato eletto alla Camera dei Delegati della Virginia. Lee Carter è nato nel 1987. «Qualcuno una volta ha detto che è più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo», come ha scritto 14 anni fa il critico e teorico Fredric Jameson. In questi giorni, i bambini trovano che sia abbastanza facile immaginare entrambe le cose.
- Jia Tolentino - Pubblicato il 4/12/2017 su The New Yorker -
Nessun commento:
Posta un commento