Samuel Beckett è stato a lungo conosciuto, e venerato, anche per la sua aura, dovuta all'aspetto fisico, all'inaccessibilità e al singolare dono per cui certe sue battute – scritte o recitate che fossero – entravano subito nella leggenda e nell'uso quotidiano. Ma soprattutto colpiva, intorno a lui, una zona di silenzio, che era in primo luogo una cifra stilistica. Così, di fronte alle sue lettere straripanti torna in mente il celeberrimo slogan inventato dai produttori di Ninotchka per la Garbo: Beckett parla! Sì, perché nelle sue lettere Beckett parla, moltissimo, e di tutto: del suo primo datore di lavoro, «Mr Joyce»; delle regioni più impervie della psiche, che esplorava con l’aiuto di Wilfred Bion; delle numerose lingue che abitava, e da cui spesso si sentiva posseduto; della miseria in cui era costretto a vivere; della stupefacente quantità di rifiuti editoriali accumulati dal suo primo romanzo, Murphy; e dei suoi viaggi in Europa, su cui spicca una straordinaria esplorazione della Germania di Hitler, in cui Beckett si addentra con il proposito di vedere quadri degli antichi maestri ma anche dei moderni, esattamente quelli che i nazisti, ritenendoli degenerati, avevano appena tolto dalla circolazione. A tratti, le pièce che il giovane viaggiatore avrebbe scritto dopo la guerra sembrano ispirate a fatti realmente accaduti e il «Fallire ancora, fallire meglio» appare qualcosa di più che un programma estetico. E, a libro chiuso, si ha la sensazione rara che, con Beckett, le sorprese siano appena cominciate.
(dal risvolto di copertina di: Samuel Beckett, "Lettere. 1929-1940". Adelphi.)
“Non passerò la vita a scrivere libri che nessuno legge”
- di Paolo Bertinetti -
È appena arrivato in libreria il primo volume delle Lettere di Samuel Beckett, quelle scritte tra il 1929 e il 1940, cioè quando Beckett non era ancora Beckett. O quasi. Quasi perché non aveva ancora dato alle stampe, Malone muore, Aspettando Godot, Finale di partita e gli altri capolavori a cui è legata la sua fama. Ma aveva già scritto il volume di racconti Più pene che pane, che in Irlanda fu vietato per «oscenità» fino al 1953. E aveva già fatto pubblicare un delizioso romanzo, quel Murphy che era passato quasi del tutto inosservato.
Nelle lettere Beckett non dice molto del libro di racconti, contento, come si legge in una lettera dell’ottobre 1932, per l’anticipo sui diritti d’autore, 25 sterline, che l’editore gli aveva fatto avere. Assai di più dice del suo primo romanzo, Murphy, rifiutato da una mezza dozzina di editori. Beckett, seppure amareggiato, il 17 luglio 1936 scrive diplomaticamente all’editore Chatto: «Mi creda, capisco benissimo la sua posizione». Poi, finalmente, gli arriva il telegramma con cui il suo grande amico George Reavey gli annuncia che il libro è stato accettato dall’editore Routledge: «Niente giubilo, ma bien content quand même», scrive Beckett il 10 dicembre 1937.
Le bozze di Murphy gli furono portate all’ospedale dove era stato ricoverato dopo essere stato accoltellato per strada da un balordo. Le corresse a letto, ma poi, come leggiamo alla fine di una serie di brevi lettere, le fece ancora rivedere da un amico. In ospedale andò a trovarlo un’occasionale compagna di partite a tennis, Suzanne Deschevaux-Dumesnil: fu l’inizio di un rapporto che durò tutta la vita. Nelle lettere Beckett non parlò di lei fino al 1939, quando in aprile scrisse a Tom McGreevey: «C’è anche una ragazza francese a cui voglio bene, senza passione, e che è molto buona con me. La puntata non avrà rilancio. Dato che tutti e due sappiamo che finirà, non si sa quanto può durare». Eccesso di prudenza. In ogni caso, questo è l’unico riferimento alla relazione con Suzanne presente nel volume. Il fatto è che delle 15.000 lettere raccolte dai curatori, Beckett autorizzò la pubblicazione soltanto di quelle che «avessero attinenza» con il suo lavoro. Ragion per cui i riferimenti alla sua vita sentimentale si colgono solo indirettamente all’interno delle lettere di argomento professionale.
La lettera con cui si apre il volume, datata 23 marzo 1929, è diretta a James Joyce e si conclude con un formale saluto. «Mi ricordi a Mrs Joyce, a Giorgio e a Lucia». Lucia, la figlia di Joyce, si era innamorata di Beckett, che non sapeva bene come gestire la situazione. C’è una lettera dei primi di maggio del 1930, in cui Beckett scrive, «Lucia viene a prendere il tè. Che Dio ci assista». L’imbarazzo era accentuato dal fatto che l’equilibrio mentale della giovane donna era alquanto precario; ma era comunque profondo l’affetto che Beckett provava per lei. Nel gennaio 1931 scriveva all’amico Tom di avere ricevuto «una lettera assai tranquilla da Lucia che mi consiglia di accettare il mondo e di andare alle feste». Da una lettera di James Joyce sappiamo che nel febbraio del 1935 Lucia si trovava a Londra e che si era vista qualche volta con Beckett: «hanno cenato insieme». Ma all’interno di una lunga lettera di pochi giorni dopo, del 10 marzo, anche questa diretta a Tom, leggiamo che «la brace di Lucia ha avvampato e si è spenta con un sibilo». L’anno dopo la salute mentale di Lucia peggiorò drasticamente; fu ricoverata in una maison de santé a Ivry , dove, come sappiamo da una testimonianza del 1939, le uniche due persone che vedeva erano il padre e Beckett.
Molto positiva, e passionale, fu invece la relazione con Peggy Guggenheim, «esplosa» nella notte di Santo Stefano del 1937 e seguita poco dopo da una settimana di sesso non-stop. Ma della relazione nel volume non c’è traccia, sebbene numerose siano le citazioni relative alle mostre da lei promosse e in cui Beckett era in qualche modo coinvolto.
Dalle lettere «attinenti al lavoro di scrittore» emerge la figura di un giovane uomo dalla cultura enciclopedica e dagli interessi vastissimi, alla ricerca di una sua collocazione artistica. «Non ho voglia», dichiara in una lettera del luglio 1936, «di passare il resto della mia vita a scrivere libri che nessuno legge». Tant’è vero che un paio di mesi prima aveva mandato una lettera a Ejzenstejn chiedendogli di essere ammesso alla Scuola di cinema di Mosca. L’incertezza aveva a che fare con la riuscita assai modesta del libro di racconti e con il fatto che Murphy non trovava un editore. Ma contava anche la difficoltà con cui affrontava uno stato di inquietante depressione. Nel 1934 Beckett era entrato in analisi: nelle lettere conta le sedute («questa è la centotrentatreesima volta»), teme che l’analisi «si rivelerà un fallimento», non vede come l’analisi possa «giungere al termine». Nel 1935 scrive a Tom McGreevy che ci sono sintomi di miglioramento; ma è soltanto nel maggio del 1937, dopo che l’analisi è finita, che può scrivergli di avere «superato la necessità di tornare a vomitare».
Beckett, come evidenziano le lettere, passa intere giornate davanti ai quadri delle pinacoteche di mezza Europa. E divora libri su libri, lanciandosi in giudizi di fulminante intensità, spesso sprezzanti nei confronti dei contemporanei: D’Annunzio scrive parole in libertà, l’ultimo lavoro di Huxley non merita nemmeno di essere citato, dello stesso Proust gli danno fastidio certe sbrodolature. Ma La nausea di Sartre è un libro «straordinario». In compenso ha grande ammirazione non solo per i classici ma anche per Jane Austen, per Henry Fielding, per Il mulino sulla Floss di George Eliot. E’ soprattutto qui che si scatena la brillantezza della scrittura di Beckett (resa benissimo in traduzione da Massimo Bocchiola e Leonardo Pignataro), che rende questo volume di Lettere una sorta di Ritratto dell’artista da giovane che non ha bisogno, come invece nel caso di Joyce, del filtro della forma romanzesca.
L’ultima lettera è del 10 giugno 1940, quattro giorni prima che Parigi fosse occupata dai tedeschi. Nell’aprile del 1939 aveva scritto: «Se ci sarà una guerra, come temo che succederà presto, mi metterò a disposizione di questo paese». Così fece, unendosi al gruppo della Resistenza che faceva capo al suo amico Alfred Peron.
- Paolo Bertinetti - Pubblicato sulla Stampa del 20/1/2018 -
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