Romanzi a chiave che svelano gli intrighi di corte, opere troppo fiacche quanto a faziosità socialista, storie d'amore in bengali da cui traspare l'odio per la dominazione inglese, e poi censori ormai insofferenti del loro lavoro, poliziotti sulle tracce di testi proibiti e appassionati bibliotecari indiani: sono solo alcuni dei protagonisti, di carta e in carne e ossa, di un libro dagli obiettivi non meno semplici che audaci – ripensare l’idea stessa di censura. Attraverso approfondite ricerche d'archivio, Darnton ricostruisce, negli aspetti teorici e nell'applicazione pratica, i meccanismi di controllo messi in atto da tre diversi sistemi autoritari: la Francia borbonica del XVIII secolo, dove il libro era un privilegio per pochi e la sanzione regia valeva non solo a reprimere, ma anche a certificare la qualità del prodotto, mentre il censore era al tempo stesso critico letterario e revisore editoriale; il Raj britannico, osservato nel momento in cui, dopo la rivolta del 1857, l'esigenza di tenere d'occhio la produzione letteraria indigena si tradusse in una curiosa mania etnografico-classificatoria; e la Germania dell'Est, dove la censura era parte di un vasto piano di ingegneria sociale e gli apparatčik svolgevano nell'ombra il ruolo di agenti-editori, negoziando permessi di pubblicazione, discutendo le bozze e lavorando per riportare nei ranghi i potenziali dissidenti. Sono prassi censorie distanti nello spazio e nel tempo, eppure capaci – se indagate con la maestria di Darnton e il suo inconfondibile gusto per il racconto – di riportare alla luce «un sistema di controllo che permea le istituzioni, colora i rapporti umani e penetra nei meccanismi più intimi dell'anima». E di farci riflettere sui problemi che oggi pone la convergenza di due tipi di potere, «quello dello Stato, che va sempre più estendendo le proprie attribuzioni, e quello della comunicazione, sempre più forte e diffuso con lo sviluppo di nuove tecnologie».
(dal risvolto di copertina di: Robert Darnton, I censori all’opera. Adelphi.)
Come censurare la Storia
- Intervista a Robert Darnton -
La chiusura di un account Facebook o Twitter per contenuti impropri. Un voto a uno studente. L'utilizzo del maschile al posto del femminile. Non presentarsi nudi a un colloquio di lavoro. Non pubblicare un libro. Il politically correct. Siamo abituati a chiamare — o a pensare come — censura qualsiasi limitazione all'espressione dell'io. Ma che cosa sia la censura lo rivela Robert Darnton, professore a Harvard e lì direttore della biblioteca, in un saggio intitolato I censori all'opera. Darnton analizza i modi e i tempi della censura nell'India britannica, nella Francia dei Borboni e nella Germania Est comunista e, speleologo di archivi storici, racconta con la precisione appassionata dello studioso, il senso della prosa del romanziere e la tenacia del tenente Colombo durante un'indagine, quanto la nostra idea della censura sia ombelicale e quanto l'immagine che abbiamo dei censori sia infantile. Darnton spiega perché la censura non è la mera opposizione di creatività e repressione ma, nei regimi analizzati, dal punto di vista dei censori, quasi coincide con la letteratura. Robert Darnton, senza minimizzare lo scoramento, lo scetticismo e la disaffezione sotto i regimi autoritari, e senza dismettere l'ardore verso il Primo emendamento della Costituzione americana, riconosce al censore un ruolo tra i tanti (autori, stampatori, redattori, lettori) che concorreva a produrre letteratura.
Chiara Valerio: Il sottotitolo del suo saggio è "Come gli Stati hanno plasmato la letteratura". Che cos'è la letteratura?
DARNTON: « Come alcuni studiosi, tra cui Alvin Kerman, penso che la letteratura sia un particolare fenomeno storico che si è sviluppato nel XIX secolo insieme al diritto d'autore, a un più ampio mercato editoriale, a una letterarietà più evidente, e a un culto del genio tra gli scrittori che hanno cominciato a vivere del loro lavoro. Prima di tutto ciò, le "lettere" implicavano diversi elementi, in particolar modo il mecenatismo. Il potere statale ha permeato entrambi i sistemi per quanto in modo diverso. Lo ha fatto anche prima? Certo, perfino Omero cantava davanti ai suoi mecenati. Come Pierre Bourdieu, considero la letteratura nel modo più ampio possibile. Per quel che mi riguarda, non ha solo a che vedere con la creatività della lingua, ma ha luogo in un sistema di relazioni di potere e di norme espresse all'interno di un ambito socialmente determinato. Avrei potuto applicare questo approccio ad altri sistemi, ma ho deciso di limitare la mia ricerca a tre, in tre paesi e secoli diversi, per i quali era disponibile una documentazione sufficientemente corposa».
VALERIO: Perché la Francia dei Borboni, l'India britannica e la Germania Est comunista?
DARNTON: «Ho cercato di dimostrare come, in questi tre sistemi autoritari, la censura sia da ricondurre ad aspetti fondamentali della società: il privilegio nella Francia del XVIII secolo, la sorveglianza nell'India del XIX secolo, la pianificazione nella Germania Est del XX secolo. Questi fenomeni connotavano il mondo in cui i censori esercitavano la propria azione a un livello quotidiano, e lo estendevano anche a tutta la società».
VALERIO: Nel libro si aggirano cameriere, menestrelli, poliziotti, scrittori, faccendieri, figuri di ogni risma. Se dovesse scegliere una figura in questa Commedia umana della censura, chi sarebbe?
DARNTON: « Mi sono imbattuto in un numero talmente grande di personaggi affascinanti che è difficile dire quale sia il mio preferito. Ma, se proprio dovessi scegliere, sceglierei M.lle Bonafon, femme de chambre a Versailles che scrisse un roman à clé sul proprio amore per Luigi XV. Il suo romanzo, Tanastés, non è un'opera d'arte. Ma il rapporto sul suo interrogatorio alla Bastiglia mostra uno spirito nobile che contrasta le domande del capo della polizia. La donna cercò di evitare che incriminassero gli altri servitori che l'avevano aiutata a pubblicare il libro, con astuzia evitò le trappole preparate per lei in quella raffica di domande, e ribadì senza mezzi termini il fatto di essere l'autrice. Un autore che era al contempo una donna e una servitrice? Il tenente generale di polizia non riusciva a crederci. Ho trovato questa storia illuminante… La Comédie humaine di Balzac è stata per me di grande ispirazione. Nel loro piccolo, gli storici imitano Balzac, perché provano a ricreare mondi che sono esistiti nel passato, compulsando gli archivi».
VALERIO: Leo Strauss, profugo dalla Germania nazista e importante filosofo e studioso di letteratura, sostiene che i censori sono stupidi, perché incapaci di "leggere tra le righe", di cogliere il significato nascosto. Lei qui dimostra il contrario, i suoi censori sono talmente abili da comprendere quali temi e quali parole faranno eco nel pubblico…
DARNTON: «Per quanto io rispetti l'opera di Leo Strauss, credo che si sia sbagliato sulla censura. Ritiene i censori incapaci di comprendere i significati nascosti tra le righe di opere filosofiche e letterarie. I censori che ho preso in considerazione invece sapevano molto bene come individuarli. Quanti ho intervistato in Germania Est subito dopo la caduta del Muro mi hanno raccontato di aver apprezzato e perfino ammirato il modo in cui scrittori come Volker Braun giocavano con l'ironia e sfidavano il pubblico a leggere tra le righe. Riconoscevano la nozione di spazio di significato (Spielraum), ma cercavano di limitarlo. I limiti erano imposti dalla linea del partito come indicato dal dipartimento Cultura in seno al Comitato centrale del Partito comunista. I censori ammettevano che esistesse questo monopolio nel potere, e non se ne vergognavano, perché — spiegavano — la letteratura doveva essere pianificata come ogni altra cosa nel sistema socialista. Peraltro, sostenevano che il mercato funziona come una forma di censura negli Stati Uniti. Capivo l'argomentazione, che aveva una sua forza, ma ritenevo cruciale il fatto che la Ddr avesse una propria versione dei gulag e che nella Germania Est non fosse possibile pubblicare nulla senza il visto della censura. Noi viviamo in un mondo pieno di vincoli ma penso che confondere i vincoli con la censura significhi banalizzare il concetto di censura».
VALERIO: Ci sono vincoli nel suo lavoro?
DARNTON: «Penso agli storici che più ammiro, come Marc Bloch, Jacob Burckhardt e Johan Huizinga. Hanno lavorato sottoposti a dei vincoli? Assolutamente. Bloch fu messo a tacere e ucciso dai nazisti, e Huizinga si oppose ai nazisti dalla sua posizione di docente e rettore dell'Università di Leiden. La censura può assumere forme meno drammatiche e più insidiose. Richiede una vigilanza continua. Un'autorità pubblica in Texas approva libri di storia venduti all'utenza delle scuole e delle università, e gli editori talvolta rendono più moderati alcuni passaggi, specialmente su temi come il darwinismo, per fare in modo che vengano adottati in quello stato».
VALERIO: Quali sono i tempi, i modi e le insidie della censura nell'America del governo Trump?
DARNTON: «Mentre tutti proclamano la propria distanza da Trump, pare che non facciano altro che mordersi la lingua per paura di provocarlo. Col mio libro spero di aver dimostrato che l'autocensura è il tipo di censura più insidiosa ed efficace. Questo speciale filtro interiore esiste ovunque e certamente è molto diffuso negli Stati Uniti dell'amministrazione Trump. La cosa curiosa, però, è che Trump non sembra capace di censurarsi. Si direbbe che smani dalla voglia di twittare, e non sia in grado di controllare i suoi commenti dettati dall'impulso, o di renderli più incisivi. Il compito principale del nuovo capo del suo staff, John F. Kelly, sembra essere quello di imporre una qualche forma di controllo sulle caotiche relazioni della Casa Bianca, censurando le informazioni che arrivano al presidente e cercando di tenere lo stesso Trump sotto controllo. Il risultato di tutto questo è stato che di recente Trump lo ha investito con urla e insulti, i peggiori che si sia mai trovato ad affrontare in trentacinque anni di servizio».
VALERIO: Come reagisce la stampa americana a questi comportamenti di Trump?
DARNTON: « Sono tempi bui per il dibattito politico negli Stati Uniti. Mi consola il pensiero che le fake news sono sempre esistite. Ho studiato la loro storia nel mio recente libro The Devil in the Holy Water. Uno dei più grandi maestri delle fake news è il vostro indomito Pietro Aretino. Per quel che mi riguarda, preferisco le "pasquinate" a Fox News. Torno sempre su Pasquino quando sono a Roma, e mi chiedo cosa avrebbe detto di Trump».
- Intervista di Chiara Valerio - Pubblicata su Repubblica del 17/7/2017 -
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