sabato 6 gennaio 2018

Nomi

SU_Cimatti_FilosofieDelLinguaggio_COVER.indd

Il linguaggio è il fatto più complesso della vita umana. Per comprenderlo occorre una molteplicità di prospettive, tutte necessarie, nessuna autosufficiente. Oggigiorno il suo studio è affidato a linguisti, neurologi, biologi e studiosi dell’evoluzione. Finalmente – si dice – il linguaggio è esaminato in modo scientifico. Eppure, quando uno scienziato lo definisce, ad esempio, come “un sistema di comunicazione”, in realtà si basa su un presupposto filosofico implicito di cui forse non si rende conto. Per comprendere l’oggetto “linguaggio” è allora necessario sia uno studio scientifico sia una riflessione filosofica sulla storia delle idee di linguaggio. Filosofia del linguaggio e storia della filosofia del linguaggio non possono essere separate, perché altrimenti la tradizione, impensata e nascosta, parlerà per noi, come troppe volte accade. Intento del libro è mostrare la storia dei tanti modi, e sono davvero tanti, attraverso i quali il pensiero filosofico occidentale ha provato a pensare il linguaggio.

(dal risvolto di copertina di: Felice Cimatti e Francesca Piazza (a cura di), Filosofie del linguaggio, Carocci, pp. 414, euro 29)

La Torre di Babele che dà i nomi alle cose
- di Alberto Giovanni Biuso -

«‘Sono sempre stato affezionato a quest’altura’ non è la stessa cosa di ‘sempre caro mi fu quest’ermo colle’». Lo riferisce Emanuele Fadda, in un saggio contenuto nel volume Filosofie del linguaggio, a cura di Felice Cimatti e Francesca Piazza, (Carocci, pp. 414, euro 29). Perché non è la stessa cosa? L’enigma del linguaggio sta anche in questa differenza. Il linguaggio è infatti in sé differenza. E questo in senso sia storico sia sostanziale.
In senso storico perché una lingua è viva in quanto e sino a quando è capace di mutare, di diversificarsi, di trasformare le proprie strutture, di abbandonare molte parole per generarne altre, anche allo scopo di comprendere e dire il mondo che incessantemente diviene. In senso sostanziale perché il parlare umano esiste dove ci sono differenze tra le cose, anche allo scopo di rendere conto di queste differenze.
La varietà non è quindi un ostacolo al linguaggio ma rappresenta una delle sue ragioni d’esistenza. Il racconto della Torre di Babele è un mito linguistico fondativo perché coglie in modo drammatico e chiaro l’inevitabilità della differenza affinché linguaggio ci sia. Questa è la ragione più profonda che dovrebbe indurre a respingere ogni monoteismo linguistico, come ad esempio quello che si tenta oggi di imporre con l’inglese.
Parlare significa anche articolare suoni con alcune parti del corpo. Il rapporto del linguaggio con la biologia è chiaro in Darwin, che spiega in maniera assai sensata la questione dell’innato e dell’appreso. Come spiegano Cimatti e Fadda, se infatti «è innata la facoltà del linguaggio, non sono innate le diverse lingue che gli esseri umani possono parlare».
Su questa base si può affrontare anche la questione del linguaggio animale, che certamente esiste sia nella sua continuità con quello umano sia nella sua differenza e soprattutto nella sua molteplicità. Non può infatti esserci un linguaggio animale per il semplice fatto che non esiste l’animale, categoria di comodo all’interno della quale si comprimono, si nascondono, si cancellano le enormi differenze tra gli animali.
Differenze che riguardano anche uno dei nodi più intricati delle teorie e delle filosofie del linguaggio: il rapporto tra pensiero e parola. L’ingenuità della concezione secondo cui un essere umano completamente solo non avrebbe bisogno di comunicare con nessuno ma avrebbe ugualmente intatte e complete le facoltà linguistiche cominciò a essere abbandonata con Leibniz e Wolff, fu mostrata in tutta la sua astrattezza da Vico ed è oggi decisamente respinta.
Pensiero e linguaggio sono infatti inseparabili sia sul versante della costante conversazione che intratteniamo con noi stessi sia su quello della comunicazione con gli altri. Inseparabile dal corpo e dal pensiero, il linguaggio è legato anche al tempo, essendo qualcosa che muta di continuo rimanendo però sempre ben riconoscibile. La complessità e la ricchezza di rapporti che il linguaggio intrattiene con il corpo, la biologia, l’animalità, il pensiero, il tempo, mostrano la sua centralità per ciò che definiamo «civiltà».
Tra i molti temi esposti e discussi dal libro tre sembrano tuttora fecondi e riassuntivi dell’intero percorso: la distinzione posta da Morris tra la sintattica (che studia le relazioni tra i segni), la semantica (che studia le relazioni tra i segni e gli oggetti a cui si riferiscono) e la pragmatica (che studia le relazioni tra i segni e i loro utilizzatori).
La centralità del significato così come venne individuato dagli Stoici con il termine lektòn, un’entità immateriale distinta sia dal suono della parola sia dall’oggetto fisico che la parola indica; l’ermeneutica come scienza del linguaggio e della comunicazione, fondata sullo splendore polisemico delle parole, sulla molteplicità dei loro significati e delle interpretazioni.
La fecondità dell’ermeneutica consiste anche nella sua dimensione infinita, aperta, capace di andare al di là di ogni acquisizione qui e ora per conoscere mondi sempre nuovi che sono in primo luogo mondi costruiti dal linguaggio.

- Alberto Giovanni Biuso - Pubblicato sul Manifesto del 15/6/2017 -

Nessun commento: