Un celebre adagio (di volta in volta attribuito a Slavoj Žižek o a Fredric Jameson) recita che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Lo slogan There Is No Alternative tanto caro a Margaret Thatcher è stato infine adottato anche dalla sinistra liberale, e nemmeno la crisi del 2008 è riuscita a scalfire la generalizzata convinzione che, fuori dal capitalismo, sia impossibile ipotizzare strade altre. Ma qual è l’effetto di questo «realismo capitalista» sul nostro immaginario? E qual è il suo ruolo nel diffuso sentimento di rassegnazione e infelicità che permea le nostre vite?
In questo breve ma fondamentale testo che ha avuto un impatto enorme sugli ambienti culturali in primo luogo anglofoni, il critico e teorico Mark Fisher ragiona su come il realismo capitalista abbia occupato ogni area della nostra esperienza quotidiana, e si interroga su come sia possibile combatterlo. E lo fa attraverso esempi presi non solo dalla politica, ma anche dai film e dalla narrativa di fantascienza, dalla musica pop e dalla televisione.
Con Realismo capitalista, Fisher ha firmato una delle più penetranti, illuminanti e dolorose analisi del mondo in cui viviamo. Ma Realismo capitalista è anche un testo che apre all’idea di possibilità, e che ribadisce che un’alternativa c’è. Leggerlo, per dirla con lo scrittore e poeta Alex Niven, è come «tornare a respirare dopo tanto, troppo tempo trascorso sott’acqua».
(dal risvolto di copertina di: Mark Fisher, "Realismo capitalista", Nero Edizioni. 156 pagine. € 13.)
Il capitalismo ci manda in depressione? Affidiamoci a un (geniale) buono a nulla
- di Christian Raimo -
Insegno in un liceo, e un paio di anni fa dovetti portare i miei studenti ad assistere a un sedicente esperto che li avrebbe introdotti alle tecniche di memorizzazione veloce per «essere più performativi». Un ragazzo del mio quinto di allora, bravo, intelligente, simpatico, sempre un po’ polemico, a un certo si alzò e interruppe l’incontro: «Posso dire una cosa? Per me essere performativi è una merda». Mi scaldò il cuore. E oggi mi è tornato in mente mentre leggevo l’edizione italiana – finalmente! - di Realismo capitalista di Mark Fisher, appena pubblicato dalla neonata Nero, casa editrice diretta da Corrado Melluso e Valerio Mattioli, il quale cura anche la traduzione e scrive una prefazione gioiello. Se dovete leggere un saggio solo quest’anno, leggete questo. O se dovete leggere un solo autore quest’anno, leggete questo e la traduzione di The weird and the eerie , sempre Mark Fisher, che uscirà fra qualche mese per minimum fax.
Nella sua prefazione Mattioli parla della «funzione Fisher», ossia dello strumentario enorme che questo studioso e attivista inglese, nato nel 1968 e morto suicida nel gennaio dello scorso anno, è riuscito a elaborare, attraverso il suo blog K-Punk, attraverso i suoi libri e i suoi interventi pubblici. Per questo colpisce come questo libro sia così adatto ai nostri tempi e al nostro mondo, nonostante Fisher appunto sia morto, nonostante sia stato pubblicato in Gran Bretagna nel 2009 e parli ovviamente di un contesto politico situato.
Quello di cui scrive Fisher non è il disastro del socialismo europeo o la crisi della politica tout-court nell’era delle fake news e della fine dell’intermediazione. RC è un libro che racconta il prepolitico ancora più della dimensione politica. Ci svela che siamo immersi dentro un’ideologia che è così pervasiva che non soltanto non riusciamo nemmeno a riconoscerla come tale, ma che addirittura crediamo che il mondo sia ormai stato liberato dalle ideologie; e che quindi qualunque nostra scelta, persino qualunque nostro pensiero, non potrà più immaginare qualcosa di diverso dalla realtà come è adesso. È più difficile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, recita una celebre provocazione attribuita a Fredric Jameson o Slavoj Žižek: il neoliberismo ha prodotto nei suoi quasi quarant’anni di dominio una trasformazione delle coscienze. Il «there’s no alternative» che era la risposta thatcheriana alle proteste contro la sua politica è la condizione genetica con cui viviamo da animali sociali. L’esempio tangibile? La depressione come malattia di massa. Questo l’avevano profetizzato Deleuze e Guattari quando scrivevano Capitalismo e schizofrenia. Frank Furedi quando nel Nuovo conformismo raccontava di quando agli operai che accettavano i licenziamenti sotto la Thatcher venisse offerto un anno di terapia psicologica. Paolo Virno quando parla di sfruttamento del tempo libero da parte del capitalismo cognitivo. Bifo anche nel suo ultimo libro Heroes quando parla del suicidi collettivi e degli attentati come esito di una patologia determinata dalla ferocia del capitalismo. Christian Marazzi quando parla di bipolarismo – ansia maniacale e disforia – data dal meccanismo altalenante e allucinato dell’economia ridotta al rischio finanziario. Alain Ehrenberg nella Fatica di essere sé stessi nel descrivere l’ansia come prestazionale come modello di formazione nella società contemporanea. Pierre Dardot e Christian Laval quando nell’ultima parte dell’Unica ragione del mondo descrivono di come la malattia psichica sia funzionale al meccanismo neoliberale. Francesca Coin in un bellissimo ricordo di Fisher che si trova su Effimera o in suoi recenti sulla depressione dell’accademia. E molti altri.
Ma leggere Fisher ha un valore in più: dona un senso di conforto strano, nonostante lui si sia tolto la vita; perché il suo stile è personale ed è così amabile la sua voce, così intimo il suo modo di ragionare e confessarsi, che nel momento in cui ci svela che questa riflessione nasce dall’essersi sentito inefficace, non performativo, «buono a nulla», come racconta in un suo bellissimo scritto, Good for nothing. («Anche quando sono stato ricoverato in un reparto psichiatrico, mi dicevo che non ero veramente depresso – stavo solo fingendo di esserlo per evitare il lavoro, o nella logica infernale e paradossale della depressione, nascondevo il fatto di non essere in grado di lavorare, e che per me non c’era alcun posto nella società»), ci siamo sentiti affratellati a lui, come davvero capita raramente. Alla sua diagnosi impietosa, che fa strame di tutte le difese che ci costruiamo per difenderci dalla luce nera della depressione collettiva del realismo capitalista – l’ironia, il cinismo, l’amore per l’apocalissi, il conformismo, l’euforia tossica dei social network – Fisher gioca l’azzardo che invece si può immaginare un orizzonte incommensurabile con l’attuale, che si possono costruire nuove forme di coinvolgimento politico, e che persino questo piccolo libro può essere un messaggio d’affetto da parte di chi non c’è più.
- Christian Raimo - Pubblicato sulla Stampa del 20/1/2018 -
Nessun commento:
Posta un commento