La Russia dei primi anni del Novecento rappresenta una delle poche, meravigliose congiunture della storia in cui un numero stupefacente di grandi artisti si trova a convivere e a farsi intensa, febbrile comunità. Nelle parole di uno dei protagonisti di quegli anni, il poeta Vladislav Chodasevič, «tutte le strade erano aperte, con un solo obbligo: andare quanto più possibile veloce e lontano». Sono gli anni di Bulgakov e di Majakovskij, di Pasternak e Mandel’štam, di Šostakovič, Ėjzenštejn e di tanti altri, donne e uomini che la sorte gettò nella tempesta della Rivoluzione e del nascente regime sovietico. Cent’anni dopo, Tzvetan Todorov ha deciso di rievocare l’avventura di una generazione che dopo aver spesso accompagnato con entusiasmo i primi slanci antizaristi e libertari, si trovò di fronte a un potere progressivamente sempre più cieco e ottuso, ed elaborò strategie ora di opposizione, ora di compromesso, ora di drammatica resa: il suicidio, l’esilio, più spesso il silenzio. Todorov racconta questa miriade di traiettorie avventurose, laceranti, a volte semplicemente grottesche con la sua enorme cultura e la sua prosa avvincente, soffermandosi a lungo sulla figura complessa e per questo esemplare del grande pittore Kasimir Malevič. Ma nelle sue pagine risuonano anche gli echi della vicenda personale che portò nel 1963 l’autore a fuggire la cappa di piombo della natia Bulgaria e a rifugiarsi in Occidente. Anche per questo L’arte nella tempesta, pubblicato in Francia a un mese dalla scomparsa, resterà come il degno testamento di un grande maestro di studi e di libertà, una delle ultime grandi figure esemplari della cultura europea.
(dal risvolto di copertina di: Tzvetan Todorov, L’arte nella tempesta, Garzanti)
I creativi della rivoluzione.
- di Tzevetan Todorov -
Il rapporto fra i creatori e la rivoluzione russa si instaura in due tempi. Il primo è anteriore all’ottobre 1917 e riguarda l’atteggiamento che adottano verso l’idea di rivoluzione prima che sia messa in atto. Il loro ruolo in questo caso è attivo: costruiscono un’immagine che a sua volta influenzerà la nascente rivoluzione. Il secondo tempo riguarda il rapporto che si instaura fra i creatori e i rappresentanti del potere una volta che la rivoluzione è avvenuta. Ma prima è il caso di spendere qualche parola sul primo tempo e l’influenza che gli artisti esercitano sulla rivoluzione prima ancora che scoppi.
I rivoluzionari non sempre riconoscono l’azione che la letteratura o le altre arti esercitano su di loro. Ma questa relazione diretta tra opere e atti non è indispensabile per constatare un certo legame di causa-effetto. Le opere degli artisti creatori agiscono, congiuntamente, su quello che talvolta viene definito lo spirito del tempo o di un’epoca, lo Zeitgeist, frutto di molteplici contributi. I romanzieri, i pittori e gli altri artisti portano una certa responsabilità per il colore di questo spirito, poiché a sua volta motiverà il comportamento di uomini d’azione (che un giorno fanno la rivoluzione).
L’interazione può avvenire anche a un livello più profondo, non cosciente, indipendente dalle intenzioni e dai gusti personali. E in questo caso ciò che contribuiscono a promuovere non sono certe forme artistiche, ma le loro premesse filosofiche o politiche, in particolare l’idea – tanto cara agli artisti che si richiamano all’avanguardia – della sovranità del creatore, che non deve tener conto di nessun limite e nessuna tradizione. Sbarazzandosi di tutto il peso del passato, affermando di voler praticare l’arte letteraria o pittorica o musicale in modo interamente nuovo, i creatori si comportano alla maniera del dio onnipotente che nei primi giorni della Creazione segue soltanto le direttive che gli impartisce la sua stessa volontà. I dirigenti politici non hanno bisogno di amare le opere di questo o quell’artista per subire l’influenza di quelle scelte di avanguardia che segnano in profondità la società. Gli uni e gli altri si vedono come demiurghi, dei-creatori.
I concetti ereditati da Nietzsche sembrano i più appropriati per descrivere l’ideologia latente dei rivoluzionari, sia quelli impegnati nell’azione politica sia quelli impegnati nella creazione artistica. È un’affermazione che può sorprendere: in epoca sovietica, il nome di Nietzsche è associato alle dottrine fasciste e naziste, che non esitano a rivendicarlo esplicitamente, e ogni accostamento con le pratiche derivate dalla Rivoluzione d’Ottobre è vietato, da una parte e dall’altra. La situazione è rovesciata dopo la seconda guerra mondiale: non è più l’evocazione di Nietzsche a essere compromettente per gli adoratori di Stalin, è quella di Stalin che è rigettata con indignazione dagli ammiratori di Nietzsche. Va precisato subito che non si tratta in nessuno dei due casi di un’esegesi attenta alle sfumature: al pari dei fascisti e dei nazisti, i comunisti si ispirano a un’immagine popolare delle idee nietzschiane, che non ricerca la fedeltà al dettaglio e ne occulta l’origine. Lenin e Stalin probabilmente non hanno mai letto gli scritti del filosofo tedesco: ma i loro confratelli più interessati al dibattito delle idee – Gorkij, Lunaciarskij, Bogdanov, Trockij, Bucharin – lo hanno fatto, e gli uni e gli altri hanno vissuto nella Russia e nell’Europa di inizio XX secolo, quando le idee nietzschiane, ridotte a formule o espressioni ad effetto, forgiate dal loro creatore stesso, completamente avulse dal contesto, conoscono un successo immenso e danno luogo a numerose reinterpretazioni.
I bolscevichi, come gli artisti d’avanguardia, privilegiano l’azione della volontà a discapito delle leggi della natura o della storia. Il ruolo centrale accordato da Nietzsche alla «volontà di potenza» ha influenzato particolarmente gli spiriti attratti dalla rivoluzione. A Nietzsche è associato il concetto di superuomo, l’essere presso cui questa volontà si incarna in maniera esemplare. Per esercitare il suo potere, il superuomo è pronto a combattere infaticabilmente tutti gli ostacoli, tutti i nemici che gli si oppongono. Poiché la volontà e la forza sono la giustificazione ultima dei nostri atti, qualsiasi riferimento a una verità oggettiva, a dei tratti inamovibili di una morale assoluta, si rivela illusorio: non esistono fatti e nemmeno verità eterne, ma soltanto interpretazioni, imposte più o meno con la forza. L’arte si ritrova proiettata al vertice della gerarchia dei valori, con la bellezza preferibile alla verità (illusoria); e il creatore appare come il rappresentante più compiuto dell’umanità.
Lenin è percepito dai suoi contemporanei come una perfetta incarnazione della volontà di potenza. È proprio questa ossessione, la necessità di impadronirsi del potere politico il più rapidamente possibile, che lo distingue dagli altri dirigenti bolscevichi. Dal momento del suo ritorno in Russia, nell’aprile del 1917, è pronto ad argomentare contro tutti i suoi compagni di lotta per trascinarli alla conquista del potere, nell’ottobre dello stesso anno. Per raggiungere questo scopo, è disposto a utilizzare tutti i mezzi necessari, nessun freno morale lo trattiene. Il partito è il superuomo (collettivo) di Lenin, ha sempre ragione, è destinato a imporre la sua volontà non solo agli avversari, ma anche alle masse popolari, proletari o contadini.
Una volta compiuta la rivoluzione, le masse diventano per lui una «materia umana» che bisogna trasformare, modellare attraverso l’azione di guide illuminate. Il conflitto, la guerra rivelano la verità profonda dell’esistenza, che si presenta come una serie di scelte inevitabili e drastiche tra amici e nemici. Lenin si colloca pienamente all’interno della tradizione occidentale prometeica, pensa che qualsiasi progetto sociale possa essere realizzato se si mettono insieme volontà politica e capacità tecnologiche (i soviet e l’elettrificazione): gli uomini devono diventare efficaci come le macchine. Dopo la sua morte, sotto l’impulso di Stalin, ma anche in sintonia con un’immagine diffusa nella nuova società sovietica, Lenin stesso viene descritto come un superuomo, un uomo-dio, da cui la decisione di imbalsamare il suo corpo, preservarlo per l’eternità (come un faraone).
L’azione di Stalin, che domina la realtà sovietica a partire dal 1929, conferma e rafforza l’ispirazione nietzschiana del potere sovietico. Contro il parere degli esperti di economia, la nuova guida del Paese impone la trasformazione in profondità della società: un Paese arretrato deve diventare una potenza industriale di primo rango, nel quadro di un piano quinquennale; e nello stesso tempo bisogna collettivizzare l’agricoltura, rimpiazzare lo sfruttamento individuale della terra con imprese statali o cooperative, indipendentemente dalla resistenza che potrebbero opporre i contadini interessati. L’economia pianificata si contrappone all’economia lasciata all’arbitrio del mercato, come il controllo della storia e della natura si contrappone al caso. Il prezzo di queste trasformazioni, milioni e milioni di contadini morti di fame, è pesante, ma non impressiona in alcun modo Stalin, che si è dato come obbiettivo di trasformare non soltanto l’ordine sociale, ma anche gli individui stessi. La volontà di ferro di Stalin si esprime in formule che diventano slogan, ripetuti senza posa: «Nessuna fortezza può resistere ai bolscevichi», «La tecnologia decide tutto», «L’estensione illimitata del possibile». Lui stesso viene definito da uno dei suoi adulatori «l’architetto della società sovietica», assimilando il controllo sulla popolazione a quello che lo specialista esercita sulla materia inanimata.
Un altro aspetto del nietzschianesimo inconfessato di Stalin consiste nel prendere alla lettera la formula «Non esistono fatti, solo interpretazioni». Il discorso sovietico ufficiale descrive progressivamente la realtà del Paese in termini che non corrispondono all’esperienza comune, come se le parole potessero creare le cose. Un mondo fabbricato dal verbo deve imporsi alla coscienza degli abitanti del Paese, al posto del mondo che osservano con i loro occhi: l’esigenza di verità non gioca più alcun ruolo. E non solamente per il presente, ma anche per il passato, in particolare per ciò che riguarda la storia recente del Paese, e soprattutto quella del partito comunista al potere: man mano che si succedono le purghe ai danni dei vecchi dirigenti bolscevichi, diventa necessario riscrivere la storia delle lotte passate, per cancellare i nomi di chi vi aveva preso parte e aggiungere i nomi di chi era assente.
Questa codificazione della pratica di contraffazione potrebbe essere letta come un elogio dell’artista creatore, con la differenza che il ruolo del fabbricante di illusioni è riservato alla guida politica stessa, mentre gli artisti di professione devono accontentarsi di essere semplici esecutori.
- Tzevetan Todorov - dall'introduzione a "L'arte nella Tempesta" -
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