« Nel 1935, Raimondo Lanza di Trabia, poco più che ventenne, insignito del titolo di principe e di diversi altri titoli nobiliari, era il fiore all'occhiello della giovane aristocrazia palermitana. Unico punto nero, in tanto brillore, Raimondo e il fratello minore Galvano, per quanto figli del principe Lanza di Trabia, per quanto nessuno si sognasse di chiamarli in modo diverso, non avevano, legalmente, il diritto di portare quel cognome. n quanto nati quando la madre, poi maritata col principe, era ancora la moglie del conte Papadopoli di Venezia. Quindi, Raimondo Lanza nei salotti, ma Raimondo Papadopoli all'anagrafe. La faccenda di quei due cognomi, uno burocraticamente legittimo, l'altro mondanamente abusivo, era estremamente seccante per Raimondo e per Galvano. Tanto che il primo, il quale, pur essendo amicissimo di Galeazzo Ciano, non gli aveva mai chiesto il benché minimo favore, si decise a rivolgersi al genero di Mussolini.
Galeazzo si prese a cuore la causa dell'amico e, appena ne ebbe l'occasione, ne parlò al duce. «Mi hai detto che il tuo amico Raimondo non è uno dei soliti nobili gagà, ma un giovanotto di fegato» rispose Mussolini alle rinnovate pressioni di Galeazzo. «Bene! Fra poco, come sai, cominceremo a reclutare i volontari da mandare a Franco. Digli di andare in Spagna e di farsi onore. Al suo ritorno, cambierà cognome! ».
Fu destinato a Saragozza, nella zona settentrionale del fronte, e siccome conosceva abbastanza bene lo spagnolo, oltre al francese e all'inglese, fu destinato a eventuali incursioni in territorio nemico. Raimondo era un ardimentoso. L'idea di una spedizione avventurosa, sia pure rischiosa, nel misterioso mondo dei «rossi» era piuttosto eccitante. Specialmente quando fu aggregato al «servizio speciale» un tenente bassetto, biondiccio, dai baffetti sottili, gli occhi di un gelido azzurro, il monocolo incastrato nell'orbita destra, una rivoltella Colt 45 e un «kriss» indiano ficcati nel cinturone, il quale con spiccato accento fiorentino, si presentò: «Tonito el Pistolero. La va o la spacca!».
Si trattava, in realtà, del conte Gastone de Larderel, il cui bisnonno, Francesco Giacomo, venuto in Italia dalla natìa Francia, nel 1818 iniziò l'estrazione dell'acido borico dai lagoni di Montecerboli, in provincia di Pisa, fondando il paese di Larderello. Ma subito dopo la presentazione si riconobbero. Perché s'erano già incontrati parecchie volte, a Roma, a Firenze, a Venezia e anche a Palermo, nel giro della crème. Si abbracciarono. Rievocarono con foga certe edizioni delle Mille Miglia e del Giro delle Madonie, le belle dame avute in condominio, i cornuti più proverbiali, le beffe più atroci alle spalle dei rompiballe, le «feste» dove nelle zuccheriere, al posto dello zucchero, c'era la «roba». La streppa.
«A proposito!», fece Gastone. «Qua ho già capito che l'unica polvere che c'è è quella da sparo. Ma dice che dalla parte dei rossi la Merk zero zero gira a chilate. Dice che ne passano addirittura due grammi al giorno a quelli in prima linea, per tenerli su di morale!».
Pochi giorni dopo, ai primi d'agosto, il generale Bergonzoli, detto «Barba Elettrica», diede ai due amici l'occasione di sincerarsi se fra i repubblicani circolasse davvero tanta «roba».
L'indomani, a mezzanotte, presero per il greto sassoso del torrente Gallego, in basco e giubbotto di pelle. Dopo tre ore, coi piedi doloranti, arrivarono alle casupole di Lecineda. Da dove il seminarista Moreno, in tuta da meccanico, li rimorchiò, zoppicanti, fino alle bicocche di Ferdienta.
L'indomani restarono quasi sempre sdraiati per rimettere in sesto i piedi fiaccati, soprattutto, dalle pietre del torrente Gallego. Frugando in una cavità del vecchio muro, secondo le istruzioni del seminarista Moreno, trovarono vino, pane e companatico. La sera, qualche minuto prima delle 22, qualcuno bussò alla porta nel modo convenuto.
«Padre Marianetti» disse Raimondo e andò ad aprire.
Era il frate. Ma non era solo. Lo accompagnavano quattro miliziani, con la stella rossa sul berretto, armati di mitragliatori Parabellum, di fabbricazione sovietica, comandati da un ufficiale magrissimo e altissimo. Due miliziani davanti, due di dietro, loro in mezzo col francescano, l'ufficiale di fianco, si avviarono verso il villaggio. «È un segreto militare» intervenne Raimondo «o potete dirci dove ci portate?».
«Niente in contrario! Il frate, qui, va direttamente al fresco. Voi due, invece, vi portiamo dal compagno colonnello Vagliacof, all'ufficio controspionaggio di Lèrida. Un par d'ore di camionetta da qui».
Arrivarono a Lèrida verso le tre del mattino. Preceduti dal tenente empolese, Raimondo e Gastone vennero introdotti nell'ufficio del colonnello Vagliacof. Un tipo massiccio, fra i cinquanta e i sessanta, dal colorito acceso, la calvizie incorniciata da due ciuffi di capelli crespi e grigi, il quale, appena ebbe davanti i prigionieri, si alzò di scatto ed emise una specie di gorgoglio, fissando Raimondo con palese stupefazione. Poi, rivolto agli uomini della scorta, strillò: «Uscite tutti! Lasciatemi solo con questi due luridi lacchè del capitalismo! Me li voglio cucinare a modo mio!».
Appena la porta si chiuse alle spalle del tenente di Empoli, il colonnello allargò le braccia, flautando: «Raimondino, picciotteddu mio, che minchia ci fai qui in Spagna!».
«Venni per abbracciarti, zù Federico!».
E i due si strinsero in un abbraccio quasi spasmodico, mentre Gastone, due passi in là, li guardava a bocca aperta. Quindi, Raimondo passò alle presentazioni.
«Gastone, ti presento il barone Federico Vagliasindi di Niscemi. Giocai sulle sue ginocchia da bambino! Per questo lo chiamo zio!».
«Porci! Vigliacchi! Vermi! Nemici del popolo lavoratore! Tutto quello che sapete, dovete sputare! Altrimenti a pezzi vi faccio! Con le ossa fuori della pelle vi riduco!». Poi, a bassa voce, il barone spiegò: «Quelli, là fuori, debbono credere che vi sto strapazzando. Parlando di cose serie, avete cenato?».
Dopo aver sbraitato nuovamente insulti e minacce, aprì un armadio, pieno zeppo di provviste d'ogni genere. Tirò fuori un grosso fornello a spirito di rame, un pacco di spaghetti («Tre casse me ne portai!» mormorò, strizzando un occhio), un barattolo d'acciughe sotto sale e un vasetto con la scritta «Ail en poudre». Da un altro ripostiglio cavò una rispettabile pentola di coccio. La empì d'acqua nel bagno attiguo all'ufficio, la mise sulla fiamma della spiritiera, aspettando il bollore pulì le acciughe, preparò l'aglio, il pepe e una dose di peperoncino tritato.
«Vi assicuro che un piatto di spaghetti come quello non l'ho mai mangiato!» raccontava, anni dopo, Gastone de Larderel, all'«high-life» fiorentina stravaccata al «Doney» di via Tornabuoni. «E quel Vagliasindi, oltre a essere un gran cuoco, era un vero chevalier de cape e d'épée! Riuscì a ospitarci una settimana da gran signori, pipotti compresi, facendo finta di starci addosso per spremerci informazioni 'top secret'. Finché una sera ci consegnò a una pattuglia di miliziani, con l'ordine di portarci al durissimo carcere politico di Teruel. Ci portarono al greto del torrente Gallego, dove ci lasciarono dicendo: "Conoscete la strada, eccellenze!". E l'indomani ci presentammo a "Barba Elettrica", al quale raccontammo, più o meno, le medesime cose, di torture, di massacri e di orrori, che in precedenza avevamo letto sui giornali. Ma la pasta fritta di Vagliasindi, per poterla riassaggiare, varrebbe la pena di rifare da capo la guerra di Spagna!» »
- da "La spaghettata strategica del colonnello Vagliacof", di Giancarlo Fusco -
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