lunedì 20 giugno 2016

Ciak, obbedisco!

cinema

Frutto di un'attenta ricerca di storia culturale, condotta su fonti d'archivio in parte inedite, il volume - realizzato grazie anche al contributo della Fondazione Cesare e Doris Zipelli - analizza l'importante ruolo svolto dal Cinema e dalla Televisione nel costruire e diffondere, attraverso film e sceneggiati di argomento storico, nel più ampio processo di Nation-building e State-formation otto-novecentesco, varie interpretazioni dei concetti di Madre-Patria e di identità nazionale. Filtrando la storia risorgimentale attraverso le suggestioni di alcuni dei maggiori romanzieri e poeti del canone letterario italiano, ma anche tedesco come nel caso di Schiller, si individuano alcuni sistemi simbolici e allegorici originali, funzionali sia all'elaborazione di una «estetica della politica» finalizzata alla nazionalizzazione delle masse nell'ottica crispina della «rivoluzione cinta dal diadema», sia alla decostruzione critica del percorso storico da cui era scaturita l'unificazione nazionale.

(dal risvolto di copertina di: Tullia Giardina, "Schermi multipli e plurime visioni. La grande Madre. L’Italia", Marsilio, pp. 278, euro 28)

cinema libro

L’amor di patria salvato da cinema e tivù
- I film di Blasetti e Martone e le ossessioni di Visconti: un saggio sulla Grande Madre Italia rivela come il Risorgimento, tra grande e piccolo schermo, abbia costruito la nostra identità -
di Roberto Coaloa

Marsilio ha pubblicato della studiosa del cinema Tullia Giardina il volume Schermi multipli e plurime visioni. La grande Madre. L’Italia (pp. 278, euro 28), esito felice di un’accurata ricerca di storia culturale condotta su fonti d’archivio. È pure l’occasione per riscoprire capolavori assoluti del cinema italiano, come 1860 di Alessandro Blasetti, film del 1934, che ha ispirato la copertina del bellissimo volume. Partendo dalle recenti riflessioni dello storico del Risorgimento Alberto Mario Banti, la studiosa analizza l’importante ruolo svolto dal cinema e dalla televisione nel costruire e diffondere la storia del Risorgimento, attraverso film e sceneggiati, nel più ampio processo di Nation-building e State-formation otto-novecentesco, e ripercorre le varie interpretazioni dei concetti di MadrePatria e d’identità nazionale, il carattere o i caratteri presunti del popolo italiano offerti dal mondo di celluloide.

Il tema risorgimentale corre attraverso tutta la storia novecentesca del cinema italiano, fino a lambire il primo quindicennio del XXI secolo. Nel suo esordio, infatti, avvenuto nel 1905 con il film La presa di Roma di Filoteo Albertini, costruisce un’immagine mitologica dello Stato. Dopo più di un secolo, nel 2010, un altro film, Noi credevamo di Mario Martone, incrina quel mito risorgimentale, frutto di una visione oleografica e pacificante del Risorgimento. Costruzione di una memoria condivisa, nel primo caso. Restituzione di una memoria divisa e lacerata, nel secondo. Fra questi due estremi cronologici, 1905-2010, più di cinquanta film che, nel presentare una narrativa per immagini della lunga e complessa storia ottocentesca del Belpaese, hanno finito per oscillare dalla semplificazione e dalla retorica celebrativa all’assunzione di paradigmi storiografici forti e polarizzanti, quali a esempio quello gramsciano, non adeguato a una lettura complessa della realtà del Mezzogiorno, prima e dopo l’Unità. In questo discorso è entrato prepotentemente il regista Luchino Visconti, che in due occasioni, con Senso e Il Gattopardo, ha riscritto la storia del Risorgimento. È interessante notare lo sforzo della studiosa Giardina: distinguere un angolo visuale per leggere la storia di quella complessa epoca. I film del suo canone sono ambientati nella Sicilia del 1860. Ciò che più colpisce è anche la storia di questa narrazione: al cinema, Garibaldi è il personaggio che più aleggia sullo schermo, anche quando è assente; in televisione, soprattutto dalla seconda metà degli anni Ottanta, in un clima di rinnovata attenzione alla figura e al pensiero di Garibaldi da parte di alcune forze politiche, quali il Partito socialista e il Partito repubblicano, l’Eroe dei due Mondi fu arruolato di peso per essere protagonista di un telefilm di Luigi Magni, in quattro puntate della durata di circa 100 minuti ciascuna.

Giardina, però, prima di arrivare a questo recupero di Garibaldi, nota la modernità di un racconto, mai retorico, offerto in alcuni fortunati momenti dal cinema italiano durante il fascismo. È il caso del ricordato 1860, dove il regista Blasetti pone attenzione alla frammentazione linguistica della Penisola e al ruolo delle varie parti popolari e ideologiche della spedizione dei Mille, lasciando in secondo piano l’Eroe. Gli altri film del Ventennio cercano di creare un’estetica della politica funzionale alla nazionalizzazione delle masse. Per avere Garibaldi si deve aspettare Rossellini, che grazie a una formidabile documentazione lo presentò, addirittura, in pantofole e camicia da notte, tormentato dalla gotta e dall’artrite reumatoide. Nel telefilm di Magni si nota poi lo stesso sguardo, mesto e amichevole, su Garibaldi, ripreso di spalle nel momento in cui l’Eroe si congeda da Re Vittorio Emanuele II e da Cavour senza stringere loro la mano, uscendo dalla scena nella consapevolezza di essere stato usato.

- Roberto Coaloa - 3 giugno 2016 -

domenica 19 giugno 2016

Sguardi

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È possibile un'azione politica a partire dalla teoria critica del valore-lavoro?

Con l'espressione azione politica mi riferisco alla possibilità di far germinare nella popolazione una critica della società del lavoro e delle merci che sia in grado di portare a forme di organizzazione e di partecipazione politica antagonista (movimenti sociali, gruppi di azione diretta, ecc.). Evito di considerare fra le forme di organizzazione politica, quella dei partiti, anche nelle circostanze della falsa dicotomia che viene oggi stabilita fra "vecchio" e "nuovo", dal momento che in entrambi i casi la gerarchizzazione e l'aspirazione a governare rendono impossibile che dal loro seno emerga una critica radicale.

Perciò, la questione è sapere se siamo pronti a superare il feticismo della merce e a sovvertire l'idea di lavoro in quanto asse organizzativo della società, del tempo e della vita.

Sono tre le domande che riassumono tale questione:

- Le attuali condizioni di crisi del capitalismo facilitano la diffusione e lo sviluppo delle idee della teoria critica del valore-lavoro?
- Come superare la psicologizzazione che il feticismo delle merci comporta?
- Siamo in grado di immaginare altre forme di relazione sociale, di disegnare anche solo mentalmente delle società post-capitaliste senza il dominino del lavoro astratto e delle merci?

Riguardo la prima domanda, credo che la crisi del capitalismo non abbia portato con sé condizioni più favorevoli alla diffusione e all'assimilazione della critica radicale che la teoria del valore-lavoro comporta. Come abbiamo visto nei testi di diversi autori, la reazione più generalizzata alla crisi del capitale (o alla sua agonia nella forma del turbocapitalismo) è stata quella di fare appello ale keynesismo. Si è deciso di richiamarsi al ruolo dello Stato in quanto regolatore economico e sociale, come se questo non fosse un elemento del capitalismo nella sua forma attuale, ignorando il fatto che è uno degli strumenti, o uno dei sotterfugi, più usati dai neoliberisti. E appare sempre più evidente che il capitalismo di Stato è solo un'altro dei tanti volti della società delle merci.

Ancor meno, la crisi del capitale ha generato le condizioni necessarie ad una "sospensione del giudizio" riguardo al concetto di lavoro. La precarizzazione delle condizioni lavorative e la precarizzazione del tempo di vita (tempo di vita che destiniamo all'acquisto di merci o ad ottimizzarlo in quanto merce) sembrano essere piuttosto uno stimolo nella corsa frenetica per arrivare a raggiungere posizioni migliori nel mondo del capitale. Siamo precari nel lavoro, perciò possiamo star certi che prima o poi la nostra situazione potrà o dovrà migliorare (come una sorta di promessa religiosa).

Dall'altro lato, i disoccupati, i disabili, gli emarginati (tossicodipendenti, detenuti, malati mentali), nel loro essere messi nella condizione di quasi-soggetti (in quanto non possono relazionarsi con la merce e come merce, non hanno posto nella nostra società), non sono nelle condizioni di poter attuare una critica del lavoro.

In questo modo, l'incantesimo continua a funzionare, e gli uni e gli altri aspirano solamente a salire un altro gradino nella società delle merci: i disoccupati a trovare un lavoro, per quanto precario possa essere, per poter sopravvivere; i salariati a migliorare le loro condizioni lavorative, la loro capacità di acquisto e forse arrivare a far parte del gruppo ambito degli "imprenditori". Se aggiungiamo a questo la pozione magica del debito ecco che abbiamo tutte le componenti per la mancanza di un'azione politica.

Ci aspettiamo allora una trasformazione che parta dall'individuo?

Questo porta alla seconda domanda: come superare la psicologizzazione che comporta la teoria del feticismo delle merci. Mentre la società delle merci si basa su un tipo particolare di relazioni sociali (le relazioni dei produttori assumono la forma di una relazione sociale fra i prodotti del lavoro), è anche vero che questo corrisponde ad un modo soggettivo, culturale o introiettato, di concepire la realtà. Ossia, il mio sguardo, per quanto critico, proviene da un soggetto che nasce e cresce nella società delle merci. Che scelta ho allora per reagire contro questa forma di società? Diventare un "Flâneur" nella città o isolarmi come un eremita in campagna? Come fare a non sospettare sempre di me stesso, dal momento che sono un prodotto della società capitalista?

Da questo sospetto ne consegue che il lavoro di immaginare una società post-merce non può essere "fantapolitica". Consola sapere che il capitalismo non è una forma immanente o astorica, ma concepire uscite collettive dalla società delle merci diventa difficile. Si deve cominciare con una fuga individuale o di gruppo, in avanti o di lato? Approfittare degli eventi per innescarne altri, in una catena, che mettano in pericolo o in discussione la società delle merci ("eventi" nel senso di Badiou o di Lazzarato)? È possibile trovare forme di azione polita che non finiscano per essere sottomesse e disattivate dalla macchina capitalista?

La critica radicale rappresentata dalla teoria critica del valore-lavoro non può essere fagocitata dal sistema capitalista, perciò il suo sviluppo teorico unito all'incorporazione dei nuovi antagonismi risulta indispensabile per poter passare dalla fantapolitica ad una azione-politica contro il lavoro e la valorizzazione del valore.

V.C. - 18 giugno 2016 -

fonte: Capital Y Crisis - Teoría crítica del valor-trabajo -

venerdì 17 giugno 2016

L’ora della verità

copertoni

L'ora della verità
- di Robert Kurz -

Un ordine sociale non muore mai prima di aver consumato le ultime riserve di ottimismo ufficiale. Anche se ora la crisi viene generalmente considerata "storica", continua ad esser vista come una mera crisi ciclica, che in breve potrà essere superata. È questo scenario quello che ci viene presentato anche dalla Banca Centrale Europea, la quale si aspetta un recupero a partire dalla metà del 2010, sebbene Trichet, presidente della BCE, abbia sottolineato che non si dovrebbe "insistere sulle previsioni". L'ottimismo, di fatto, ha i piedi d'argilla: si basa unicamente sulla speranza che i programmi nazionali di sostegno alla congiuntura inneschino una nuova crescita auto-sostenuta. Ma è assai più probabile che la reazione a catena globale della crisi sia cominciata solo adesso. Soprattutto la fine del circuito del deficit del Pacifico, fra gli Stati Uniti e l'Asia, non si è ancora riprodotta appieno sull'economia mondiale.  Se i programmi nazionali di sostegno alla congiuntura non daranno inizio a nulla, ma riusciranno solo a tappare buchi sempre più grossi e per un tempo indeterminato, allora tanto più amaro sarà il momento della verità. Sarà ancora finanziabile il capitalismo? O diverrà possibile il paradossale fallimento di questa società a partire dai suoi stessi criteri.

Anche nella migliore delle ipotesi - quella del passaggio dal crollo alla stagnazione nel giro di un anno - le conseguenze sociali dovranno essere elaborate e pagate. Tutti sanno che le statistiche sulla disoccupazione sono manipolate. Attualmente, rimangono fuori dalle statistiche sulla disoccupazione in Germania tutti coloro che, in quanto disoccupati, sono stati oggetto di misure di appoggio alla riconversione professionale, sia quelli accompagnati da agenzie di mediazione commerciale, che quelli che semplicemente sono stati registrati come ammalati. I 3,4 milioni di disoccupati registrati statisticamente in realtà ammontano a cinque o sei milioni. E anche se il crollo della congiuntura non si aggraverà ulteriormente, ci si aspetta almeno cinque milioni di disoccupati a metà del 2010, secondo gli attuali metodi di conteggio, ossia, in termini reali, più di sette milioni. Allo stesso modo in cui non si può pettinare un calvo, anche qui non c'è manipolazione possibile. Un aumento della disoccupazione così tanto rapido scuote le basi già martoriate della previdenza sociale. Il calo delle entrate ai fini dei sussidi di disoccupazione, delle pensioni e dell'assistenza sanitaria minaccia, nei prossimi mesi, di far esplodere tutti i limiti del deficit. Anche questo è "storico".

Se i vari pacchetti di salvataggio ed operazioni di soccorso, così come i programmi di sostegno alla congiuntura, probabilmente ancora insufficienti, si ripercuono di già in maniera negativa sui conti, il calo delle entrate nelle casse della previdenza sociale trascinerà il deficit come in una valanga, le cui dimensioni supereranno di gran lunga i costi, amcora non pagati, della riunificazione tedesca. In contrasto con questi tempi della congiuntura delle bolle finanziarie, ora la diminuzione delle entrate fiscali accade simultaneamente all'esplosione dei costi della crisi; anche questa è in gran parte ancora da venire. Il "freno all'indebitamento" ancorato alla Legge Fondamentale, che a breve verrà approvata dalla Camera alta del Parlamento federale, è solo una fantasia finanziaria, che presuppone ingenuamente il successo delle attuali misure di amministrazione della crisi. Ma è anche un segnale della prossima progressione della catastrofe. Nella classe politica persiste nel tempo un'unità intorno al fatto che l'emissione monetaria possa essere applicata solamente nella misura in cui sia in qualche modo possibile, senza rottura sistemica, dominare l'inflazione, come conseguenza inevitabile della statalizzazione della crisi. Pertanto, è stato programmato un drammatico aggravamento dell'amministrazione sociale di emergenza, per ritardare il collasso delle finanze pubbliche. L'ora della verità, però, suonera solo dopo le elezioni di autunno; e fino a quel momento è tutta una corsa contro il tempo dei sondaggi elettorali.

Il programma di emergenza che ne deriverà verrà certamente rattoppato dalle burocrazie ministeriali sotto il sigillo di "top secret". I contorni sono facili da indovinare. Basta fare una proiezione delle misure fin qui adottate rispetto alla nuova dimensione della crisi. Il primo scenario potrebbe consistere in un aumento drastico dell'IVA, senza eccezioni; forse in un'azione concertata di tutti i governi, su scala europea. Questo è il metodo meno rumoroso di una pressione sui redditi più bassi, sebbene solo attraverso questo le finanze non siano sanabili e la congiuntura interna rimanga paralizzata. Ma si tratta solo di tattiche per guadagnare tempo e che devono muoversi in contraddizione. Il secondo scenario potrebbe consistere in un drastico taglio di tutti i trasferimenti sociali, per alleviare la situazione delle casse della previdenza sociale e mantenere i sussidi statali in un quadro che possa in qualche modo essere gestito. Ossia, riduzione delle pensioni, del sussidio di disoccupazione, del reddito minimo e (molto più drasticamente di quanto è avvenuto finora) del servizio pubblico di sanità.
Attraverso entrambi gli scenari, che sono complementari, verrà ridefinito al ribasso il minimo della sussistenza, ad un grado mai prima immaginabile.

La protesta prevista non potrà essere soffocata soltanto per mezzo dell'apparato di violenza, nonostante questo sia pronto, come ultima risorsa. C'è la necessità di una legittimazione ideologica, con il cui aiuto possano essere tracciate nuove linee di differenziazione sociale a seguito dell'orgia di tagli, quanto meno per mantenere in equilibrio la classe media impoverita. Così si può pensare, in funzione di un "imperativo della differenza", a ridurre un po' meno il sussidio di disoccupazione rispetto al reddito minimo e, simultaneamente, prolungarlo per qualche tempo. Allo stesso modo, le pensioni, che a causa della riduzione dovessero cadere al di sotto di un dato importo minimo potrebbero essere dislocate sul reddito minimo, a sua volta rivisto al ribasso. Dopo la fusione del sussidio di disoccupazione con il reddito minimo, questo sarebbe l'ultimo passo per creare uno strato unificato di paria, come categoria sociale più bassa, che verrà collocata al livello dei senzatetto, visto che tali condizioni precarie sono già a metà la strada che dev'essere percorsa per continuare a mantenere ragionevolmente gestibile la situazione.

Il nuovo "socialismo finanziario" potrebbe quindi legarsi nel modo migliore ad un nuovo socialismo da mensa dei poveri, che impedisca ai paria che non posseggono nulla di morire di fame e che, per tutto il resto, verrebbero affidati alle cure non remunerate delle brave persone ancora rimaste. Il programma di emergenza verrà probabilmente venduto attraverso campagne professionali, sotto l'aspetto di una sorta di solidarietà sociale a fronte delle catastrofi di natura sociale. Assumere tali condizioni come se fossero fatalità accettabili del destino, tuttavia, presuppone la concorrenza fra la povertà e la miseria. Chi per ora è diventato soltanto povero deve dire a sé stesso, guardando alla nuova categoria dei Lazzari: "Le cose per me non stanno ancora poi così tanto male, né arriveranno mai fino a quel punto". La questione è quella di sapere se il programma di emergenza del prossimo governo abbia ancora un margine sufficiente a cavalcare la crisi delle finanze pubbliche che, nel migliore dei casi. è inevitabile, e aspettare tempi migliori. Questo vale anche per una parte della classe media impoverita, che spera di poter continuare a tirare avanti per qualche tempo con il risparmio e l'ereditarietà. Ma se la crisi è realmente più profonda di quanto finora si è voluto credere, queste riserve in breve tempo si esauriranno.
La seconda grande questione, naturalmente, è quella di sapere fino a che grado il masochismo sociale degli indigenti oggetti dell'amministrazione di emergenza, in Germania ed in Europa, farà sì che si lascino andare fino all'esaurimento senza una massiccia resistenza.
Anche rispetto a questo, il prossimo anno sarà l'ora della verità.

- Robert Kurz - Pubblicato su Freitag, 12.06.2009 -

fonte: EXIT!

mercoledì 15 giugno 2016

Un soffio che svapora dell'aria

agamennone

Uomo di potere, abituato a decidere le sorti della sua gente, orgoglioso, superbo, duro, Agamennone è solo nel buio della notte mentre, oltre la prua, scruta l'orizzonte. E ricorda i dieci anni di una guerra sanguinosa che ha visto cadere sul campo di battaglia uomini valorosi e forti, sprezzanti del nemico e del destino. Con uno sguardo meno affascinante di quello di Ulisse e Achille ma piú complesso e obiettivo, il re di Micene ci porta dritti al centro del mondo omerico: i suoi eroi, i suoi valori, il suo senso della gloria e della vendetta, dell'amore e della morte. Spinto dal gusto e dal piacere del racconto, e guidato dal rigore filologico, Guidorizzi, attraverso una forma saggistica di tipo narrativo, ricostruisce la storia di una società tribale, in cui ogni uomo agisce dietro l'impulso di una sfida continua con le grandi forze dell'esistere e ci restituisce, dall'interno, il fascino di una cultura che parla a noi di noi.

«Ma chi sono gli eroi? Molte delle loro vite sono finite nella pianura di Troia; i loro corpi sbranati da cani e avvoltoi. Da allora non hanno piú abbandonato la memoria della nostra civiltà. Erano comandati da un uomo che regnava su una città difesa da mura gigantesche, Micene, un nido d'aquila in cui avvennero crudeli vicende. Nessun altro portò a Troia tante navi come lui, tanti soldati e carri da guerra. Cento navi piene dei guerrieri piú forti, scelti dalle sue molte città; che Agamennone guidava combattendo, avvolto nella sua armatura di bronzo rilucente nel sole. I cantori ricordano ciò che è accaduto, il bello e il brutto insieme. E ricordano il re Agamennone».

(dal risvolto di copertina di: Giulio Guidorizzi, Io, Agamennone. Gli eroi di Omero , Einaudi, Torino, pagg. 201, € 11,90)


Sfidare Apollo, splendida follia
- di Piero Boitani -

Quando arrivai sotto le mura di Micene, cinquant'anni fa, il cielo era nero e solcato da lampi. La Porta dei Leoni si apriva bassa e squadrata tra enormi pietre grigie. Il vento soffiava furibondo e faceva freddo. Immaginavo le fiaccole accese che, da Troia, di monte in monte, avevano segnalato la partenza del Re per il ritorno. Mi domandavo dove si fosse fermato il carro che portava Cassandra dopo che lui ne era sceso per camminare verso casa sul tappeto purpureo.

Qualche giorno prima, ad Atene, avevo contemplato a lungo la maschera funebre sbalzata in oro: dopo averla ritrovata, Schliemann aveva telegrafato al re di Grecia: «Ho visto il volto di Agamennone». Mostra un «un uomo dal naso sottile, con una piega altezzosa sulle labbra, un viso che esprime fierezza, disdegno, regalità». Sì, doveva essere proprio Agamennone, quello lì: anche se era impossibile che lo fosse. Schliemann sapeva benissimo che il mito è molto più forte dell'evidenza materiale, che l'Iliade e l' Orestea vinceranno sempre l'archeologia e la storia.

Lo sa anche Giulio Guidorizzi, che pure è grecista serio e agguerrito, il quale s'è occupato a fondo del mito greco (ha curato sull'argomento due splendidi Meridiani), di Edipo, di sogno nella Grecia classica, di magia nell'antichità, e che sta traducendo proprio l'Iliade, e dirigendo una squadra internazionale di studiosi per l'edizione Valla in sei volumi del poema. A tale chiara manifestazione di follia (del resto, ha studiato anche questa in un bel libro di qualche anno fa) Giulio Guidorizzi ne aggiunge ora un'altra: quella, in sostanza, di riscrivere l'Iliade, con qualche frammento di Eschilo e dell'Odissea per sfidare Apollo e le Muse sino in fondo.

Ogni anno, da almeno dieci, tengo ben due serie di lezioni sull'Iliade e l'Odissea. Perciò, ho cominciato a leggere il libro con qualche scetticismo: per esser passato anch'io tra questi furori, per l'oggettiva difficoltà di gareggiare con Omero, per scarsa considerazione nei confronti di Agamennone. Ma come, pensavo, proprio quell'antipatico, insopportabile borioso che ruba Briseide ad Achille e si considera a tutti superiore non si sa bene perché? Ma "Io, Agamennone" vale come la Cassandra di Christa Wolf. Dopo due pagine, il tempo di passare dal Prologo al primo capitolo, Mýthos, non riuscivo più a metterlo giù. Perché Guidorizzi sa raccontare bene: come Ulisse, al quale Alcinoo dice che narra con sapienza e con arte, come un aedo. E sa, al momento giusto inserire nel discorso i concetti fondamentali che lo guidano e danno il titolo a ciascuno dei suoi capitoli: mýthos, appunto, e poi timé (l'onore), eros, dóra (dono), dólos (l'inganno), pólemos (guerra), psyché (anima), móira (fato), nóstos (ritorno). Quando, nel primo capitolo, narra la vicenda di Enomao, Ippodamia e Pelope – gli antenati di Agamennone – rende la storia così avvincente che sino alla sua consumazione il lettore non riesce a distaccarsene. Ma al tempo stesso quel lettore viene messo nella posizione di cogliere le complicazioni intricate e le sfumature del mito, le sue diramazioni e i suoi salti improvvisi: insomma di capire cosa significhino la memoria e il canto per una civiltà giovane.

L'Iliade consiste per buona parte di battaglie e duelli: lunghi e lenti, in Omero. Ma se si comprende che combattere per l'onore e la gloria significa, nell'ethos greco di tremila anni fa, scegliere tra il lasciare una sia pur minima traccia di sé e affondare irrimediabilmente nel nulla, allora si capisce l'estrema urgenza personale che sta dietro agli scontri infiniti del poema. L'Iliade è tutta “agonistica”, diceva l'anonimo del Sublime: è il poema della forza, scriveva Simone Weil. È polemos, lotta, lance spade scudi elmi frecce, cavalli e carri, sangue, vittorie e sconfitte. Soltanto leggendo Io, Agamennone mi sono reso conto di quanto avesse ragione William Golding, l'autore de Il Signore delle mosche, quando, molti anni fa, mi disse che il carattere “virile” del poema – per lui, una delle sue virtù supreme – sta nel suo essere una guerra di ciascuno contro la moira, pur nella coscienza che contro di essa non si può nulla.

Quando Guidorizzi si tuffa nella mischia e racconta l'avanzata dei Troiani – l'incursione di Diomede e Ulisse, e poi, in crescendo di ritmo, l'attacco e la ritirata di Agamennone, Diomede ferito, Ettore che comincia ad appiccare il fuoco alle navi e sfonda il muro greco, Aiace che si ritira, Patroclo che, rivestito delle armi di Achille, esce sul campo di battaglia e viene ucciso da Ettore, poi il duello di quest'ultimo con Achille, lo scempio furibondo – la sequenza che costruisce è di una rapidità sconvolgente. Dominano, in essa, il thymós e l'ombra della psyché: l'uno, «l'energia sempre in movimento» degli eroi, il «groppo di impulsi ed emozioni» che li trascina; e lo stagliarsi perenne dell'altra, la psyché, «l'ultimo respiro di vita che abbandona un uomo, lasciandolo immoto tra le braccia della morte»: «Il gran lottare, amare, odiare, soffrire che accompagna la vita degli esseri umani istante dopo istante si risolve dunque in questo: un soffio che svapora dell'aria».

Tuttavia, ci sono anche nel libro l'ammaliante cintura di Afrodite e lo scambio di doni: Elena che tesse la guerra che si sta combattendo per lei e stupisce gli anziani di Troia per la sua bellezza tremenda – una di quelle pause straordinarie nelle quali, secondo Rachel Bespaloff, il divenire tumultuoso della guerra si coagula in essere –, il deflagrare dell'eros negli incontri di lei e Paride e di Zeus ed Era, l'affetto doloroso di Ettore e Andromaca, la philía tra Achille e Patroclo, l'incontro civile di Glauco e Diomede. E infine l'ingresso di Priamo nella tenda di Achille, la preghiera in nome del padre, la grande pietà dell'eroe dell'ira, la cena, lo sguardo d'ammirazione che il vecchio e il giovane si scambiano: «il gran dolore del mondo» che sempre ti prende.

Al contrario che nell'Iliade, qui la guerra termina: Achille, per amore di Polissena, si fa cogliere scoperto dalla freccia di Paride, la città è presa con l'inganno, saccheggiata, incendiata, gli uomini uccisi, le donne deportate in schiavitù dai vincitori. Agamennone parte, naviga sull'Egeo con la propria preda, la figlia di Priamo, la veggente Cassandra. Di nuovo, il ritmo si fa incalzante: Cassandra ricorda Edipo, Evadne, Tiresia, Otrioneo; Clitennestra pensa a Ifigenia e si dà a Egisto, nel quale rivive l'inimicizia del padre Tieste per il padre di Agamennone, Atreo. Le fiaccole segnalano l'arrivo di Agamennone a Micene. Cassandra, come in Eschilo, pre-vede tutto ciò che sta per accadere. E che, inesorabilmente, accade: Agamennone incede sotto la Porta dei Leoni, entra nel palazzo, è ucciso come un bue alla greppia. Disceso all'Ade, racconta che la moglie Clitennestra, sgozzata Cassandra, non gli ha neppure chiuso la bocca e gli occhi. Lo racconta a Ulisse: l'eroe del ragionare, del pazientare, dell'errare: del sopravvivere e del narrare.

Piero Boitani - Pubblicato su Il Sole dell'8 Maggio 2016 -

martedì 14 giugno 2016

Gli slum che ci aspettano

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Il pianeta dei superflui
- di Gerd Bedszent -

Già nel suo testo del 1991, "Die Krise die aus dem Osten kam" [La crisi che è venuta dall'Est], Robert Kurz indica come causa della crescente miseria delle masse a livello mondiale «l'assoluta incapacità da parte della moderna società capitalista di riuscire ad incorporare nel suo processo di riproduzione la stragrande maggioranza dell'umanità globale». E conclude: «Già adesso le masse sradicate del mondo diventano una minaccia per le isole di normalità e di benessere dell'Occidente, che stanno diminuendo.» (in Helmut, orgs., "Der Krieg der Köpfe" Horlemann Verlag, 1991, p. 150 sg.).
È più che dubbio che al sociologo urbano statunitense, Mike Davis, sia capitato mai di leggere questo testo. In ogni caso, Davis descrive, nel suo libro "Il pianeta degli slum" [Ed. italiana Feltrinelli], pubblicato per la prima volta nel 2006 e rieditato in un'edizione ampliata, la miseria della popolazione in crescita permanente alla periferia delle grandi città come Mumbai, Kinshasa o Città del Messico. L'autore si pone nella tradizione dei reportage e delle ricerche di critica sociale svolte sul terreno, come ad esempio l'analisi pioneristica di Friedrich Engels, "La situazione della classe operaia in Inghilterra, del 1845, cui anche Davis occasionalmente fa riferimento.

Va chiarito da subito anche il fatto che da parte Davis non c'è quasi alcun approccio alla critica del valore. Tuttavia l'autore si posiziona in maniera chiara contro i punti di vista neo-malthusiani che attribuiscono alla crescita sfrenata della popolazione, la responsabilità per l'aumento esplosivo della povertà urbana, nella maggior parte delle regioni del mondo, degli ultimi decenni. Soltanto una volta, all'inizio del suo libro, Davis si riferisce alla relazione, "dal tono dichiaratamente malthusiano", su "I limiti della crescita" del 1972. Per Davis sono in primo luogo le "brutali distorsioni attuate dalla globalizzazione neoliberista" che hanno fatto crescere sempre più la miseria a livello mondiale ed insieme ad essa i quartieri della miseria situati sul bordo delle metropoli traboccanti. Altrove scrive: «La mercificazione delle abitazioni e del suolo urbano (...) è la ricetta sicura proprio per il circolo vizioso dei redditi alti e del sovraffollamento.» Tuttavia l'ascesa del neoliberismo non viene tematizzata da Davis in quanto strategia di crisi per la creazione capitalistica del valore; egli dà la colpa di tutto questo soprattutto alla mancanza "di uno Stato interventista che si senta seriamente obbligato a costruire abitazioni sociali e a creare posti di lavoro". Davis si colloca in questo modo nella posizione della sinistra socialdemocratica classica; tuttavia non idealizza a posteriori i regimi di modernizzazione falliti dell'Est e del Sud.

Nelle sue descrizioni delle distorsioni sociali che in ultima analisi hanno portato all'attuale situazione di disastro, Davis evidenzia innanzitutto il neoliberismo. Come egli scrive, la disuguaglianza sociale a livello mondiale ha raggiunto il massimo negli anni 1980. Ad esempio, la povertà urbana si è duplicata rapidamente negli anni 1987/1988 in Costa d'Avorio, un paese africano considerato finora dall'Occidente come un ottimo allievo. Anche in Sudan, a causa dei "tagli" nei servizi pubblici, si sono impoveriti fino ad una punta massima di un milione di persone. Simultaneamente in India, con il boom dell'industria high-tech il paese "ha guadagnato" più di 56 milioni di poveri. Davis documenta una crescita massiccia della prostituzione, del traffico di organi e del lavoro minorile predatorio, insieme a molte rivolte della fame - oggi generalmente scomparse dalla memoria dell'umanità - con le quali la popolazione delle regioni periferiche ha accompagnato le terribili riforme strutturali neoliberiste. Davis non condivide i sogni di una rivolta immediatamente imminente della popolazione urbana povera, che ancora perseguitano, ad esempio, i resti falliti dell'operaismo. I residenti nelle baraccopoli reagiscono in maniera estremamente differente all'abbandono e all'isolamento strutturale. Ci sono di fatto rivolte contro le situazioni percepite come insopportabili, ma questo viene frequentemente espresso sotto forma di violenza religiosa o razzista. Interi gruppi di popolazione sono caduti nelle braccia di movimenti insurrezionali fondamentalisti, milizie etniche, gang di banditi di strada e cartelli della droga. Circa un terzo di Rio de Janeiro, per esempio, si trova sotto il contro dei cartelli della droga e dei loro agenti criminali. È a partire almeno dal disastro dei militari nordamericano nella capitale somala Mogadiscio, nel 1993, che gli "strati popolari esclusi" vengono percepiti dall'occidente come una minaccia per la parte intatta della metropoli; gli slum diventano così il futuro "campo di battaglia del XXI secolo".

La maggior parte del libro tratta i problemi della sociologia urbana globale. Qui, il pretesto è il momento allora immediatamente imminente (nel 2006) nel quale la popolazione urbana sorpassa la popolazione rurale, e si inverte così la relazione numerica fra l'una e l'altra. Tale inversione, tuttavia, orami appartiene da tempo al passato, ovviamente; anche parte dei dati numerici nel frattempo sono diventati superati a causa dello sviluppo. Rimane attualmente la progressione dimostrata da Davis della crescita della povertà urbana a livello urbano con al simultanea riduzione della popolazione rurale. Le cause delle dislocazioni delle popolazioni verificatesi in questo contesto, però, vengono affrontate solo di passaggio; il tema del libro non è innanzi tutto lo sviluppo delle forze produttive, ma semmai i suoi effetti sul modo di vita della popolazione urbana.

Eppure, Davis descrive il modo in cui la deregolazione delle economie africane, promossa dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, ha portato in forma brutale all'esodo della popolazione agraria "eccedente" verso le baraccopoli urbane. La conseguenza della scomparsa della rete di previdenza statale nazionale, così come la cessazione delle limitazioni al dislocamento verso le città, è stato una crescente "dissoluzione del modo di vita contadino". Un altro fattore che menziona, è la serie di guerre civili, che non vogliono avere fine, negli Stati periferici, non di rado alimentate dagli "aggiustamenti strutturali imposti e dalle imprese straniere predatrici". Il processo di esodo rurale forzato ha continuato anche dopo che l'industria è entrata in un processo di contrazione, e le città africane non potevano più continuare a funzionare come "macchine per l'occupazione". Le metropoli urbane della periferia funzionano, pertanto, sempre più come bacini di ritenzione di un'inutilizzabile ed assortita "popolazione eccedente di forza lavoro senza qualifiche, sottopagata e senza garanzie, nel commercio e nei servizi informali".

Davis descrive, in una forma estremamente espressiva, le relazioni sociali nei quartieri miserabili che raggiungono proporzioni gigantesche nelle periferie delle città dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina, così come descrive l'implacabile lotta per la sopravvivenza delle persone che vivono lì intrappolate senza alcuna speranza. L'autore si basa in particolare sulla relazione "The Challenge of Slum", del 2003, un inventario globale della povertà urbana pubblicato dal programma per le abitazioni ed il ripopolamento, delle Nazioni Unite. «
Viene considerata Baraccopoli [favela, slum], secondo una definizione approvata dall'ONU nel 2002, un alloggio sovraffollato, povero ed informale, senza un'adeguata connessione di acqua potabile né di scarico, e con un incerto potere di disposizione rispetto al suolo».
Secondo tale relazione, nel 2003 vivevano nelle baraccopoli 193,8 milioni di abitanti della Cina, 158,4 milioni dell'India, 51,7 milioni del Brasile, 41,6 milioni della Nigeria... con una tendenza chiaramente crescente. In un altro punto del suo libro, Davis fa notare che solo una parte della povertà urbana vive in baraccopoli ed inoltre neppure tutti gli abitanti delle baraccopoli sono del tutto poveri.

Secondo i dati numerici che vengono presentati, la relazione fra la popolazione dei territori sviluppati, come le città, e gli abitanti delle baraccopoli urbane si rivela molto diversificata. Ad esempio, nel 2003 in Etiopia era il 99,4% della popolazione urbana viveva negli slum, ma a Città del Messico erano soltanto il 19,6% degli abitanti. Davis descrive come le baraccopoli si sono sviluppate in maniera estremamente rapida nella Federazione Russa e in altre repubbliche dell'ex Unione Sovietica. Le città, insieme ai siti industriali chiusi, si sono ridotte drasticamente in un lasso di tempo vertiginosamente breve. Ma i quartieri della povertà più terribile si trovano nella periferia delle città africane ed indiane. Il vecchio potere coloniale britannico, ai suoi tempi, si rifiutò assolutamente di fornire i quartieri della popolazione locali con le più elementari infrastrutture, situazione che si mantiene ancora oggi.

L'autore cita una serie di studi di sociologia urbana: nei quartieri della miseria della città indiana di Calcutta vivono mediamente 13,4 persone per abitazione. Negli slum di Lima, 85 persone condividono la stessa conduttura d'acqua e 93 usano la medesima latrina. E queste persone hanno quanto meno ancora un tetto: nella grande città indiana di Mumbai, negli anni 1990, circa un milione di persone vivevano per strada; anche nella metropoli degli Stati Uniti d'America, a Los Angeles, ci sono centomila senza tetto. I megaslum alla periferia di Nairobi e di Port-au-Prince raggiungono una densità abitativa tale da "poter essere confrontata con quella di uno stabile". La megalopoli africana di Kinshasa non dispone di rete fognaria. In nove delle ventidue baraccopoli indiane studiate non c'è nessuna latrina; in tutto, circa 700 milioni di indiani sono costretti a "fare i loro bisogni all'aria aperta". E in una relazione sulle regioni periferiche della grande città di Rangun, nel Myanmar, si dice: "Locali per la vendita di bevande alcoliche, rifiuti, acqua stagnante e fango contaminato dai liquami delle fogne circondano la maggior parte delle case." Davis menziona vari esempi di baraccopoli nate nei cimiteri, in vecchie discariche ed in prossimità di aree industriali contaminate, così come descrive le conseguenze d questo sulla salute dei residenti. Altre localizzazioni si trovano su pendii soggetti al rischio di franare oppure in zone soggette ad inondazioni. "Tali siti sono nicchie di povertà nell'ecologia della città, e le persone molto povere non hanno altra scelta se non quella di vivere con la catastrofe."

Gran parte delle informazioni raccolte da Davis possono anche essere di fatto rilevate specificamente in altri luoghi. In generale, tali informazioni isolate che parlano dell'orrore della vita quotidiana tendono a sparire velocemente dall'insalata mediatica. Nella loro forma concentrata, come avviene in questo libro, hanno un effetto orrorifico.
In quest'opera, l'autore contraddice molti luoghi comuni che si presentano ripetutamente nei media e nella letteratura a proposito delle zone di povertà urbana. Vivere nei quartieri che sono stati eretti illegalmente nella periferia delle grandi città non è affatto "gratis", in nessun modo. Davis descrive gli abitanti delle baraccopoli come parte integrante ed attori di un "complesso intreccio di reti familiari, relazioni id proprietà e di affitto". I proprietari di baracche costruite illegalmente spesso ottengono un reddito addizionale subaffittandole alle persone più povere. Ed i proprietari di terreno alla periferia delle grandi città frequentemente tollerano l'esistenza di baraccopoli costruite illegalmente per poter così esercitare pressione politica sul governo. Una volta che questo avrà installato nei quartieri finora illegali reti idriche, fogne, elettricità e comunicazioni, il valore degli immobili ne risulterà moltiplicato. Le baraccopoli urbane ed i loro abitanti sono quindi parte integrante del sistema di economia capitalista; in nessun modo ne stanno fuori.

Davis a volte argomenta in maniera disperata. Da un lato, il suo libro costituisce un'amara denuncia di quelle che sono condizioni indegne di esseri umani nelle baraccopoli della periferia, accusando la maggior parte dei governi che "da tempo hanno rinuncisto a qualsiasi serio sforzo per combattere le baraccopoli e farla finita con la marginalità urbana". Dall'altro lato, egli stesso documenta una serie di esempi nei quali programmi di urbanizzazione per la riabilitazione dei ghetti dalla miseria si scontrano con una forte resistenza da parte degli interessati. E questa resistenza ha delle cause perfettamente razionali: gli abitanti dei quartieri miserabili sanno perfettamente che una volta concluso il recupero essi semplicemente non saranno in grado di sopportare i costi delle abitazioni. Nei casi in cui i programmi di riabilitazione con l'appoggio dello Stato - spesso sotto protezione poliziesca e militare - sono stati effettivamente realizzati, il quartiere residenziale si è rapidamente trasformato in un ghetto di lusso per i membri dell'élite e/o della classe media. Pertanto, riabilitazione sarebbe uguale ad espulsione. Gli abitanti originari si sono trasferiti alla periferia della città, dove poi è sorta una nuova baraccopoli. I cui abitanti dovranno spendere una buona parte dei loro magri redditi per raggiungere i posti di lavoro nel centro della città. Le conseguenze delle distorsioni sociali non possono essere risolte in nessun modo semplicemente con i mezzi dell'edificazione urbana.

Davis dà una risposta chiaramente negativa all'idea liberale di progresso, il cui pronostico di continuazione dello sviluppo è miseramente fallito: «Di conseguenza, le città del futuro non saranno costruzioni di vetro ed acciaio, come venivano immaginate dalle precedenti generazioni di urbanisti, ma semmai saranno fatte di mattoni grossolani, di paglia, di plastica riciclata, di blocchi di cemento e di pezzi di legno. Ed invece di vivere in città di lusso, aspirando al cielo, una gran parte del mondo urbano del XXI secolo sarà sepolto nella miseria, in mezzo all'inquinamento ambientale, agli escrementi ed ai rifiuti. I mille milioni di cittadini che popoleranno le baraccopoli postmoderne allora si volgeranno possibilmente a guardare indietro, pieni di invidia, alle rovine delle case di argilla di Catal Huyuk, in Anatolia, costruite all'alba della vita urbana, novemila anni fa".

Davis libro

- Gerd Bedszent - Pubblicato su  EXIT! Krise und Kritik der Warengesellschaft, nº 13 (01/2016), pag. 181-185 -

fonte: EXIT!

lunedì 13 giugno 2016

Lo spettacolo del discorso

retorica

Lo scopo di questo libro, di questa raccolta di discorsi antichi e moderni, accompagnati da prove di analisi, è di mostrare la durata, la persistenza della retorica in quanto pratica e tecnica della comunicazione persuasiva sia nei rapporti tra le persone sia nell’azione politica e culturale. Le prove di analisi sono frutto dell’attività seminariale o semplicemente didattica svolta come professore prima incaricato di letteratura latina dal 1969, poi ordinario di retorica classica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino dal 1975 al 1997 e, dopo la cessazione dal servizio, come docente ospite di alcuni licei classici di Torino e della provincia. Esse non si contentano della ricognizione della presenza nei testi di figure di parola e di pensiero e di procedimenti dimostrativi retorici, ma perseguono il fine di riconoscerne la funzione di comunicazione e di persuasione, individuandovi le strutture nelle quali trovano forma pensieri, sentimenti ed emozioni. Per esempio la funzione cognitiva dello straniamento (studi di lingua e stile nella diatriba e nella satira senza pretesa di condurre ricerche antropologiche o di psicologia sociale), dell’inopinatum (o frustrazione dell’attesa) nella teoria della prosa di Frontone, del quale segnalare l’insoddisfazione linguistica e il bisogno del neologismo: «non sono contento delle parole solite ed usuali, ma godo più lietamente di quanto possa comunicare con il linguaggio comune la letizia del mio animo; in realtà con quali parole potrei esprimere la mia gioia? infatti non mi riesce di esprimere con parole mie l’intensità della mia gioia»; mentre Cicerone riprova con forza l’uso del neologismo nello stile oratorio: «ma nelle orazioni è proprio il difetto più grande allontanarsi dal genere popolare del discorso e dalla consuetudine del senso comune»; e di Frontone apprezzare la lode dell’amor fortuitus a confronto con l’officiosus amor; inoltre citare Taziano invece di Minucio Felice per le repentine conversioni al cristianesimo; avanzare la proposta di attribuire alla moneta una funzione di comunicazione – genericamente politica – nel mondo antico per coloro che leggevano soltanto le lettere maiuscole, come Petronio fa dire ad uno dei liberti di successo al banchetto di Trimalcione: “Io non ho studiato né geometria né critica né altre stupide balle, ma le lettere a scatola le conosco e so dividere per cento, assi o libbre o sesterzi che siano”.

(dal risvolto di copertina di: Adriano Pennacini: Discorsi eloquenti da Ulisse ad Obama e oltre con una giunta fino a papa Francesco, Edizioni dell'ORso, pp. 597, € 50)

Tutti insieme retoricamente
- Da Ulisse a Obama, l’arte oratoria attraverso i secoli in uno studio di Adriano Pennacini: le ricette per avvincere e convincere, infiammare e commuovere -
di Alberto Sinigaglia

C’è un collegamento tra Odisseo che si presenta nudo a Nausicaa e Matteo Renzi che si presenta in cravatta al Senato? C’è, sicuro. E c’è tra Pericle e Beppe Grillo, tra Demostene e il Pontefice, tra Cicerone e il presidente degli Stati Uniti. È la retorica, la tecnica della comunicazione persuasiva. «Vero impero, più vasto e più tenace di qualsiasi impero politico», dice Roland Barthes. «Ha digerito regimi, religioni, civiltà. Moribonda fin dal Rinascimento, impiega tre secoli a morire e non è certo se sia morta». Infatti non lo è, se arriva a protagonisti d’oggi l’antologia delle Edizioni dell’Orso di Alessandria, nella quale Adriano Pennacini scandaglia Discorsi eloquenti da Ulisse ad Obama e oltre con una giunta fino a papa Francesco (pp. 597, € 50).
Giusto cominciare dal re di Itaca e da Omero, che ne cantò la sagacia oratoria. Sull’isola dei Feaci è solo un naufrago «coperto di salso, orribile». Si copre i genitali con un ramo, avanza «come un leone», le «fanciulle dai bei capelli» fuggono. Solo la figlia di Alcinoo rimane. L’eroe decide di parlarle da lontano, pronuncia «un discorso dolce e accorto: «Ti abbraccio le ginocchia, signora, sei dea o mortale? (...) Sono scampato al mare color del vino ed era il ventesimo giorno da che le onde e le tempeste impetuose mi trascinavano dall’isola Ogigia; ora mi ha gettato qui un demone, perché anche qui io soffra sventure».

L’Italia «arrugginita»
Passa il tempo e il 24 febbraio 2014 a Roma il presidente del Consiglio incaricato non abbraccia le ginocchia ai senatori, ma si rivolge loro «in punta di piedi, con il rispetto profondo, non formale, che si deve a quest’Aula (...), con lo stupore di chi si rende conto di essere davanti a un pezzo di storia». Chiede la fiducia per guarire «un Paese arrugginito, un Paese impantanato, incatenato da una burocrazia asfissiante».
Stessi ingredienti: utilità, ossequio, adulazione, pietà (Odisseo per la sua sventura, Matteo per l’Italia incatenata). Ma ben altro scopre la lente di Pennacini, professore emerito dell’Università di Torino, traduttore per Einaudi delle Guerre di Giulio Cesare e dell’Istituzione oratoria di Quintiliano. Scienziato della lingua e dell’eloquenza, disseziona i testi, ne soppesa il lessico, l’esordio, l’epilogo, le tecniche seduttive.
Dall’Antigone di Sofocle sceglie il discorso ingannatore di Creonte. Dalle Storie di Erodoto, quello minaccioso di Alessandro I agli Ateniesi. Da Tucidide l’epitafio di Pericle per i caduti della guerra del Peloponneso.
Poi Lisia contro Eratostene superstite dei Trenta Tiranni, Ippocrate e l’importanza dell’educazione, Demostene sulla pace, Catone il vecchio dalla parte dei Rodiesi in Senato, Cicerone contro Gaio Verre e a favore di Milone. Non mancano Cesare, De bello gallico, con il discorso del nobile Critognato ad Alesia assediata, né Sallustio, Bellum iugurthinum, con l’orazione di Gaio Mario all’assemblea popolare.

Il «grido di dolore»
Dall’allocuzione di Attila agli Unni si può balzare al discorso breve e concreto che Napoleone rivolse in italiano ai rappresentanti della Repubblica Cisalpina. O a quello di Cavour al Parlamento Subalpino per l’abolizione del foro ecclesiastico. O al «grido di dolore» di Vittorio Emanuele II. O al proclama di Garibaldi che sta per salpare con i Mille e si rivolge agli «Italiani» perché non lascino i siciliani insorti a combattere da soli «i mercenari del Borbone, (...) quelli dell’Austria e quelli del Prete di Roma».
Grida Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, annuncia alle «camicie nere della rivoluzione» che il maresciallo Badoglio ha conquistato Addis Abeba. Prega Yitzhak Rabin firmando la Dichiarazione di principi con Arafat alla Casa Bianca nel 1993: «Lasciate che dica a voi, Palestinesi, che siamo destinati a vivere insieme sullo stesso suolo. (...) Basta col sangue e le lacrime. Basta. Non abbiamo desideri di vendetta... non nutriamo odio nei vostri confronti. Noi, come voi, siamo gente... gente che vuole costruire una casa, piantare un albero, amare, vivere al vostro fianco con dignità, in affinità, come esseri umani, come uomini liberi (...). Preghiamo che arrivi il giorno in cui tutti noi diremo addio alle armi».

Metafore e anafore
Tra lingue originali e traduzioni, connessioni e simmetrie, metafore, anafore, Pennacini scopre le trame oratorie anche di Lenin, Einaudi, Pertini, Berlusconi. Si sofferma sugli impeti grillini e sulle sfumature dei tre ultimi Papi. Decritta i segnali per avvincere e convincere, infiammare e commuovere. Provvidenziale giacimento di esempi e di note per gli studiosi, guida i comuni lettori a capire perché certi discorsi siano passati alla storia e a capirla meglio.

- Alberto Sinigaglia - Pubblicato su La Stampa del 3 giugno 2016 -

domenica 12 giugno 2016

Bandiere

bandiere

Patriottismo economico e patriottismo calcistico
- di Robert Kurz -

Quanto più avanza la globalizzazione del capitalismo di crisi, che porta con sé nuove esclusioni sociali, tanto maggiore diventa la pressione ideologica volta a rianimare sentimenti patriottici. Il nazionalismo politico-militare classico, così come era conosciuto nell'epoca delle guerre imperiali fra le grandi potenze capitaliste, ormai lo si può trovare soltanto nell'estrema destra. Nelle condizioni attuali di catene transnazionali di creazione del valore e di una polizia mondiale capitalista globale, il nuovo amor di patria si mostra principalmente come patriottismo economico. È ben nota la variante della nostalgia keynesiana, preferita dalla maggior parte del movimento anti-globalizzazione. Invocare il ritorno alla regolazione, ha di fatto, come unico serio destinatario, lo Stato nazionale. Sia ai sindacati che alla sinistra politica, piace sognare il bozzolo della protezione nazionale, contro il neoliberismo, e denunciare le multinazionali come "senza patria".

Stefan Baron, redattore capo della "Wirtschaftswoche [Settimana Economica]", mette la sinistra patriottica davanti allo specchio: "Dall'SPD internazionalista, che un tempo veniva esso stesso accusato di essere senza patria, è nato un partito che pensa secondo le categorie nazionali. Dai manager delle imprese, un tempo organizzate in società patriottiche, nascono ora, al contrario, gruppi che dipendono dall'internazionalismo... Così cambiano i tempi". In ogni caso, i propagandisti della globalizzazione sanno che in tempi di crisi il cinismo sociale può essere pericoloso. Dipende da questo il fatto che il neoliberismo ha scoperto il patriottismo come oppio dei vinti. In questa variante, però, non si tratta del fantasma del ritorno della regolazione nazionale keynesiana, ma piuttosto di una sorta di patriottismo della sofferenza sociale: è dolce e onorevole impoverirsi per la patria. A complemento, viene offerta una paradossale figura di pensiero circa la divisione sociale: anche la minoranza in ascesa all'interno della "classe globalizzata" dev'essere interpretata come classe che sfrutta la crisi "in nome della Germania". E ciascuno ne può far parte, più o meno come chiunque può, in linea di principio, vincere la lotteria. Almeno è questo che suggerisce la campagna mediatica "Tu sei la Germania".

All'inizio la cosa ha funzionato così così. Il successo è arrivato solo con il campionato mondiale di calcio "nella propria terra". Di fatto, il patriottismo calcistico appare essere l'aggancio ideale per il patriottismo economico. Secondo il parere unanime degli economisti, l'effetto dei mondiali di calcio sulla crescita reale è vicino allo zero, ma come carica emozionale l'effetto è enorme, ai fini di uno "stato di ottimismo patriottico" (Jürgen Klinsmann). La Repubblica Federale Tedesca annega in un imbandierimento popolare nero-rosso-dorato. I professionisti internazionali del calcio, noti nel gergo sportivo come "i galattici", possono versare lacrime di emozione nazionale, e le masse insieme a loro. L'ubriacatura non si farà attendere; se non quella sportiva, quanto meno quella economico-sociale. Poi, la marea di auto-soddisfazione nero-rosso-dorata, apparentemente aperta al mondo, rischia di trasformarsi in aggressione. La strada per la guerra imperiale nazionale è interrotta, ma le emozioni canalizzate nella nazione possono trasformarsi in qualsiasi momento in un amplificatore del razzismo verso l'interno. Per la critica sociale e della società, vale il fatto che dev'essere finalmente senza patria, come in realtà la socialdemocrazia non è mai stata. Va dichiarata l'opposizione al patriottismo e all'imbandierimento.

- Robert Kurz - Pubblicato su Neues Deutschland, 30.06.2006 -

fonte: EXIT!

venerdì 10 giugno 2016

Neolingue

neolingua

Sul "parlare a vanvera" manageriale come ideologia
- di Jean-Luc Debry -

Nel momento in cui il discorso dominante, portato avanti dalle istituzioni (pubbliche e private) viene riprodotto dagli individui che in esso si identificano, si arriva a convincersi che sia la descrizione del "reale", e che pretendere il contrario sarebbe solamente un miserabile tentativo volto ad invalidare la realtà, allora l'alienazione moderna diventa il cuore di ciò che ci costituisce in quanto soggetto sociale, ossia il linguaggio. La penetrazione dell'ideologia manageriale nella carne e nell'inconscio dei salariati convertiti alla "cultura d'impresa" passa, ormai, attraverso l'utilizzo di un gran numero di espressioni, di parole e di costruzioni sintattiche il cui uso conferisce loro pertinenza, imponendole come altrettante prove del fatto che non c'è più da discutere; il messaggio semplicistico veicolato da un Macron [N.d.t.: funzionario, banchiere e politico francese, Ministro dell'Economia, dell'Industria e del Digitale nel Governo Valls II dal 26 agosto 2014] ne è diventato la caricatura.

Agendo sulla funzionalità delle parole, quest'ideologia assoggetta la realtà al proprio linguaggio non solo fino a nascondere i rapporti di dominio che attraversano le sue "linee gerarchiche", ma anche fino a contaminare le relazioni fra colleghi, fra vicini e persino fra amici. Queste espressioni che proliferano con sconcertante naturalezza sulla stampa, nelle trasmissioni radiotelevisive, dalle più banali alle più "culturali" - ma anche e soprattutto durante la pausa-caffè, alla mensa, nelle riunioni di servizio, o al centro per l'impiego - parassitano tutte le conversazioni, dalle più innocue fino alle più pretenziose. Diffuso come se fosse un segno di riconoscimento (vedete come sono "moderno"), questo linguaggio del management si insinua in maniera sintomatica in tutti i settori dell'esistenza, riportando e riferendo ogni configurazione umana al primato dell'economico: gestire, performare, investire, aspettarsi un ritorno sull'investimento, vendere.

L'ideologia manageriale che imperversa oggi nell'impresa rientra, ovviamente, nell'ambito di una volontà diffusa di rinchiudere nella sua logica la totalità delle "relazioni umane". Soprattutto ed in particolare sulla bocca di quelli che si fanno i gargarismi con il "valore lavoro". Le strutture della lingua manageriale agiscono da "argomentazioni inconfutabili". Tanto più che ormai le imprese dispongono di servizi specializzati (comunicazioni, risorse umane, marketing...) assai ben forniti di giovani "talenti", adepti di questa disciplina. Una certa forma di ipocrisia - o di ingenuità -, o un po' di entrambe le cose, senza dubbio agisce come componente indispensabile di una "cultura dell'eccellenza" autoproclamatasi tale.
Per il salariato, accettare, come se fossero degli eccipienti, le sue mezze-verità o mezze-bugie cariche di banalità, è diventata condizione necessaria per la sopravvivenza, se non vuole correre il rischio di essere marginalizzato - o, peggio ancora, "passare" per uno che rifiuta di "vivere secondo il suo tempo". Pur con fortune alterne, certo, l'istinto di sopravvivenza impone di sapersi piegare a questo uso del "parlare a vanvera". In altre parole, ciò che viene definito con il termine di "manegement" vive e prende corpo in una parola ammalata dei suoi imperativi categorici. Eccellere in quest'arte di connivenza svolge in qualche modo la funzione di viatico. L'importante è che si dia prova della propria adesione ai "riti, rituali e codici" che danno alle pratiche collettive quel tono di socialità "felice". Dal momento che in materia di ideologia manageriale, ci troviamo certamente nel registro del simulacro, ma di un simulacro incarnato con una convinzione tale da essere confusa con l'entusiasmo e con il mutuo consenso.

Ciò che viene qualificato come "motivazione", categoria a partire dalla quale i comportamenti del salariato vengono "valutati" positivamente o negativamente, si conferma nella "capacità" del candidato (si tratta quindi di "capacità" e di "competenza") a maneggiare un linguaggio appropriato, trasformato in semplice segno "osservabile e misurabile". Questo linguaggio, queste espressioni convenute e ricorrenti, condizionano la sua integrazione in questa mascherata che ha peso il posto - e con quali pretese! - della socialità.

Ma, dal momento che la sopravvivenza del salariato nel suo ambiente dipende, in gran parte, dalla sua capacità di moltiplicare i segni di fedeltà, non esiste alcuna alternativa possibile a che non venga candidato all'esilio sociale, al declassamento ed alla marginalizzazione. In questo universo privo di spirito e di eleganza, i narcisisti pervertiti - che manipolano le emozioni per dominare i desideri inconsci (soprattutto il "bisogno di riconoscimento") - possono dispiegare la loro abilità e, se vogliamo, nuotare come pesci nell'acqua del bagno della buona coscienza che il discorso prevalente fornisce loro. A rischio di trasformare i loro vizi privati in pubbliche virtù.

È così che l'intento meccanico del discorso manageriale riduce il linguaggio ad una procedura operativa al servizio della "performance". Il linguaggio viene rinchiuso in una razionalità economica (in quanto, in fin dei "conti" ed alla fine, tutto quanto si riduce ad una formula semplice: "quanto costa e quanto frutta?"). E ciascuno e tutti finiscono per ammettere che, nei registri della vita professionale, ma anche della vita privata - e quindi nell'intimo -, il Bene ed il Male, il Buono ed il Giusto, la Verità, isomma, si misurano secondo quest'unico criterio.

Le norme comportamentali sono sottomesse alla categorie dell'efficienza. Nella negazione dell'inconscio, esse riducono ogni forma di desiderio all'espressione di una volontà. Quest'efficienza suppone un'investimento senza riserve del soggetto dell'enunciato in quanto "imprenditore di sé stesso". La scena sulla quale si dispiega l'ideologia manageriale, attraverso e grazie a questa forma di "neolingua", è ingombra di ambizioni egotiste. Come quella della riuscita individuale del soggetto, persuaso della sua onnipotenza - in cui in buona parte nondimeno rientra l'incantesimo per cui si "vende" lo "sviluppo personale" in quanto forma di salvezza universale. Mentre, come sottolinea Béatrice Hibou, la burocrazia liberale [*1] allontana l'agente economico - produttore e consumatore - da ogni forma di controllo a profitto di "una razionalizzazione e di una divisione dei compiti". E le cose non potranno mai andare in maniera diversa finché la "cultura del risultato" assumerà il ruolo di etica, "esorcizzando" lo spirito critico.

- Jean-Luc Debry - Pubblicato su A contretemps il 9/6/2016 -

[*1] Béatrice Hibou, La Bureaucratisation du monde à l'ère néolibérale, Paris, La Découverte, collection « Cahiers libres », 2012.

fonte: A contretemps

giovedì 9 giugno 2016

Xenologia

Xeno

Quando i migranti erano portatori di ricchezza
- di Adriano Prosperi -

Il contesto in cui viviamo è tale da mettere definitivamente fuori uso ogni residuo di idea della storia come percorso ascensionale, progressivo della cosiddetta civiltà europea. Davanti al mare che inghiotte ogni giorno vite umane e alle folle di migranti che si ammassano davanti ai muri alzati dalla paura della nostra sedicente Unione Europea, gli studiosi del passato sembrano aver poco da dire: come l’angelo di Walter Benjamin, quella che si vede della storia è l’immagine di una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine. E tuttavia dallo studio di altre migrazioni di popoli accadute nel passato emergono constatazioni che possono avere qualche interesse per le discussioni attuali: per esempio quella sui conflitti delle cosiddette “identità”.
C’è stato un tempo in cui il Mediterraneo fu già lo scenario di tragedie simili a quelle attuali: accadde esattmente all’epoca in cui la formazione delle grandi monarchie nazionali moderne avvenne al prezzo dell’intolleranza religiosa come strumento per formare una “identità”, cioè un sentimento collettivo di appartenenza. La vicenda si può far cominciare dal 1492, con la migrazione di centinaia di migliaia di ebrei dalla Spagna dove l’unificazione di popoli di culture, lingue e religioni diverse sotto un solo sovrano avvenne al prezzo dell’espulsione delle minoranze religiose. Seguì tra il 1607 e il 1614 l’espulsione della ancor più numerosa minoranza dei “moriscos”, nonostante che si fosse piegata al battesimo. Fra queste due date la frattura religiosa dell’unità cristiana aveva intanto obbligato numerose comunità europee a spostarsi verso stati dove fosse possibile praticare la loro religione diventata un’eresia per il luogo dove abitavano. Il principio che legava la religione di un popolo a quella del sovrano territoriale , sancito con la “pacificazione religiosa” di Augusta, risolse il problema di come garantire la sopravvivenza di strutture statali davanti alla diffusione inarrestabile di laceranti conflitti religiosi tra le ortodossie in lotta.
Lo studio di quel che accadde allora nel Mediterraneo e in Europa ha proposto scenari tragici ma con qualche dato a favore di chi ritiene che l’afflusso di gruppi umani in cerca di lavoro e portatori di altre culture possa essere un’occasione positiva e di crescita per le società disposte ad accoglierli.
Nel caso degli ebrei sefarditi come in quello dei “moriscos” ritroviamo molti aspetti delle tragedie attuali: navi affondate o respinte dai porti cristiani con un carico umano esposto alla fame e alla peste, uomini, donne e bambini abbandonati su coste ostili, esposti a finire sui mercati del lavoro schiavile e della prostituzione (allora molto fiorenti).

Il numero delle vittime fu altissimo. Quantificarlo è difficile, ancor più di quanto lo sia oggi quello degli annegati nel Mediterraneo.
Ma ci furono alcuni casi in cui si aprirono ai migranti possibilità di insediamento. È noto il caso del duca di Ferrara che aprì le porte del suo stato agli ebrei spagnoli e li tutelò dall’intolleranza religiosa seminata nel popolo dalla Chiesa: ne ricavò così vantaggi economici e regalò alla città e allo stato un grande arricchimento civile e culturale. E anche il granducato di Toscana aprì agli ebrei portoghesi in fuga la possibilità di insediarsi nell’area di Livorno : le leggi “Livornine” (1593) ne garantirono la sicurezza. Livorno ne ricavò uno sviluppo economico e culturale che la rese il porto maggiore del Mediterraneo e una vera capitale culturale aperta alle idee di tolleranza dell’Illuminismo.
Quanto ai“moriscos”, le ricerche storiche hanno individuato alcuni, rari casi di apertura, accanto al prevalente sfruttamento selvaggio della merce umana e a una duplice violenza religiosa che si esercitò contro chi, in quanto battezzato, era apostata per l’Islam però veniva intanto rigettato come apostata dagli stati cristiani. Ma non mancarono tentativi di attirarli per ripopolare aree da bonificare e mettere a coltura o rilanciare attività commerciali. E ci furono forme di insediamento diffuso nella grande città (Napoli) o in aree costiere dove furono pacificamente accolti dalla popolazione.
In tutti questi casi la produzione di identità collettive obbliga- torie da parte dei grandi Stati nazionali e delle rispettive Chiese dette vita a forme di intolleranza e di rifiuto preconcette che non ebbero nemmeno bisogno per alimentarsi della presenza effettiva dell’”altro” (l’ebreo,l’infedele). Invece l’immissione effettiva di immigrati di diversa cultura e/o religione, ben lungi dal creare conflitti sociali e impoverimento, si rivelò fonte di progresso economico e culturale. La regola trova conferma nei movimenti di minoranze religiose interne all’Europa: come quella delle 55 famiglie italiane di Locarno emigrate a Zurigo a metà ‘500 per fedeltà alla scelta religiosa riformata; o quella degli ugonotti francesi che nel ‘600 si spostarono a Ginevra e a Erlangen portandovi un sapere e uno spirito d’iniziativa che dette frutti (si pensi all’industria degli orologi). E ci sono tanti altri casi da prendere in esame per rileggere aspetti poco noti della moderna storia europea e fare i conti con le intolleranze “identitarie” antiche e moderne che la caratterizzano ma anche con gli esperimenti positivi degli innesti che vi furono. Tutta questa materia si offre oggi come un campo di studio per una storiografia spinta a diventare non più il sapere egoista di culture chiuse ma scienza dell’alterità, “xenologia”.

- Adriano Prosperi - pubblicato su La Repubblica del 3 giugno 2016 -

mercoledì 8 giugno 2016

In qualche altro modo

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L'avvizzimento dello Stato
- di Paul Mattick -

In questi giorni, i critici della politica elettorale possono mettersi a sedere compiaciuti e gustarsi lo spettacolo dei partiti politici allo sbando; le preoccupazioni dell'1%, che in realtà vogliono dai loro governi poco più che tasse basse, sussidi alti, pace sociale e tranquillità, e quanto basta di azione militare sufficiente a tenere il mondo al sicuro per la democrazia; e le elucubrazioni dettate dal panico degli esperti politici cercano di dare un senso a tutto questo reclamando la loro funzione ormai perduta di profeti e di interpreti. Naturalmente, quando (com'è più probabile) Bernie alla fine è stato fatto fuori dalla macchina Democratica e si sta chiedendo ai "progressisti" di tapparsi il naso - come hanno finora fatto in tutte le elezioni - per votare l'odiata Hillary e fermare così il terribile Donald, sembrerà di trovarsi solo ad un passo dal precipizio, l'apparentemente inevitabile risultato degli sforzi elettorali volti a non sacrificare il bene per l'impossibile meglio.

Ma stavolta sempre ci sia qualcosa di speciale. Per prima cosa, entrambi i contendenti più dinamici, Trump e Sanders, sono apparentemente entrati in lizza senza aspettarsi di vincere, e si sono impegnati a fare del loro meglio quando hanno scoperto un inaspettato livello di risposta da parte del pubblico votante. Questo è un altro aspetto della quasi completa assenza di contendenti credibili a parte loro due (e, certo, la Clinton, ma senza Sanders lei sarebbe stata la sola del suo schieramento). Il campo repubblicano è stato caratterizzato da una sorprendente serie di imbecilli e nullità; il fatto che Cruz - un uomo talmente detestabile politicamente e personalmente da essere ufficialmente il più odiato nel stesso ripugnante campo politico - fosse l'ultimo non-Donald rimasto la dice tutta. Ciò riflette l'assenza di qualsiasi contenuto nella politica Repubblicana, tranne l'ottusa fedeltà agli americani più ricchi combinata con le rassicurazioni di devozione nei confronti dei bisogni emotivi delle persone appartenenti alla sempre più spossessata classe dei lavoratori bianchi e alla classe medio-bassa.

I repubblicani si erano già trasformati da partito storicamente progressista ed antischiavista in un'organizzazione impegnata a combattere le politiche del New Deal in difesa del laissez-faire, fino a quando Nixon non abbandonò quel valore fondamentale con la sua dichiarazione, per cui "Noi siamo tutti keynesiani ora", e Reagan lo dimostrò triplicando il debito nazionale. Similmente, i democratici erano una volta un vero partito politico, interessato a modellare la politica nazionale. Da partito schiavista del 19° secolo si sono trasformati in una forza modernizzante, che rispondeva alla Grande Depressione mobilitando lo Stato - soprattutto per la guerra - per salvaguardare il capitalismo americano; ha fatto del suo meglio per modellare il mondo del dopoguerra in un campo di battaglia per fare avanzare l'economia americana e quindi gli interessi politici. Dagli anni 1960, i democratici si sono istituzionalizzati come il partito del "liberalismo imprenditoriale", come si diceva da parte del SDS (Students for a Democratic Society), tenendo a bada il comunismo mentre mantenevano l'ordine sociale a casa per mezzo di politiche quali rimodellare l'ambiente urbano e "combattere la povertà", mentre promuovevano le arti e le scienze umane per dimostrare che gli Stati Uniti erano degni della loro preminenza economica. Elettoralmente, si basavano su Jim Crow a sud e sulla fedeltà ai programmi di assistenza per (per lo più) i bianchi, finché il meccanismo non si è rotto sotto l'impatto del movimento per i diritti civili e della sconfitta in Vietnam. Data la sua incoerenza politica, è difficile immaginare perché il partito non avrebbe dovuto abbracciare Sanders come una sorta di trapianto della ghiandola di una scimmia politica, se voleva essere nuovamente un vero e proprio partito. Tutto cospira a suggerire che quello che ci troviamo di fronte qui non è la solita politica, ma qualcosa di nuovo. Per cominciare a capire, dobbiamo tornare a pensare alla vecchia normalità - il funzionamento dello Stato nel capitalismo moderno.

A mio avviso, la miglior guida per una comprensione di base di tutto questo si può trovare nel primo dei cinque volumi di Hal Draper sulla "Teoria della Rivoluzione di Karl Marx". Qui Draper discute la tendenza dei governi - il cui lavoro è essenzialmente quello di salvaguardare l'esistenza della società moderna assicurando il rispetto per la proprietà privata e per gli interessi particolari, nazionali ed internazionali, degli attori dominanti l'economia nazionale - quello di sviluppare una certa autonomia di azione relativa alle attività economiche dei suoi sponsor. Questa indipendenza dalle preoccupazioni immediate degli uomini d'affari, dice Draper, deriva dal fatto che "di tutte le classi dirigenti conosciute nella storia, il membro della classe capitalista è il meno adeguato, e tende ad essere il più ostile a farsi direttamente carico del funzionamento dell'apparato statale." I capitalisti vogliono far soldi, non guidare il governo (salvo, più recentemente, come hobby pensionistico). Inoltre, "nessun'altra classe dirigente è così attraversata internamente da gruppi di interesse in competizione ed in conflitto," con interessi regionali, agricoltura e industria, differenti settori industriali, e molte altre sotto-categorie di affari nazionali in lotta gli uni contro gli altri. Come risultato, sorge la necessità di politici professionali, non diversamente del bisogno di manager per le grandi imprese, "per poter avere un'ampia ed alta prospettiva del sistema che sia diverso dall'approccio del miope affarista."

Quest'autonomizzazione dello Stato si è potuta vedere chiaramente quando le maggiori economie industriali capitaliste sono emerse nel 19° secolo, quando gli imprenditori britannici hanno lasciato gran parte del funzionamento del governo ai membri della vecchia aristocrazia, e Bismarck ha supervisionato la nascita del capitalismo tedesco ed il disciplinamento con mano di ferra della classe obsoleta dei latifondisti e dei grandi proprietari terrieri. Nel 20° secolo, è diventata particolarmente visibile a fronte della crisi economica, quando lo Stato capitalista è stato consegnato a forti manager come Hitler e Roosvelt, nonostante l'avversione di molti uomini d'affari per alcuni aspetti dei loro programmi economici e politici. Negli Stati Uniti, il New Deal e, soprattutto, la seconda guerra mondiale, portando ad un vasto incremento dell'interferenza governativa sull'economia della proprietà privata, ha rafforzato la tendenza all'autonomia dello Stato durante buona parte del periodo post-bellico.

Paradossalmente, la stessa crescita del "settore pubblico" ha portato all'indebolimento della sua indipendenza. Da un lato, come osserva Draper, "una delle conseguenze della relativa autonomia dello Stato è quella di permettere ai settori dominanti all'interno della classe capitalista di assicurarsi le leve principali del potere." Negli Stati Uniti, l'esempio moderno più lampante di questo è stato visto all'inizio degli anni 1950 con il presidente Eisenhower sotto il nome di "complesso militare-industriale". Nel corso del tempo, si sono uniti ad esso il complesso carcerario-industriale ed il complesso medico-industriale, per i cui interessi il presidente Obama ed il suo partito hanno così assiduamente lavorato, insieme agli settori industriali - costruzioni, finanza, istruzione - il cui destino si è sempre più intrecciato con la generosità del governo. Uno dei risultati di tutto questo è la penetrazione negli affari di governo della concorrenza inter-settoriale delle imprese; un altro è l'evoluzione delle stesse politiche in una forma di business, che può essere vista nelle famose "porte girevoli" che legano le industrie alle loro autorità governative di regolamentazione, e che è culminata in un successo spettacolare con il cambiamento attuato da Bill Clinton che trasformava la contesa politica in cambio di valuta internazionale ed attività da faccendiere per dittatori con la mentalità di affaristi. Il fatto che l'attività centrale della politica americana sembra essere diventata la raccolta e l'erogazione di enormi quantità di denaro contante durante le elezioni - fatto che getta nella costernazione coloro che ancora si struggono per un sistema giusto e democratico - è solamente un sintomo di quest'assorbimento dello Stato da parte delle grandi imprese.

Un risultato consiste nella crescente incapacità dello Stato a gestire gli affari comuni dei suoi cittadini, nei limiti piuttosto stringenti imposti dai bisogni dell'economia aziendale. Un obiettivo come quello della legalizzazione dei matrimoni gay, che combina il miglioramento della vita di un certo numero di persone attraverso la celebrazione simbolica delle virtù neoliberiste dell'auto-definizione individuale con la scelta del consumatore può essere (almeno in parte) raggiunto. (Innanzitutto, è gratis.) Ma un aumento significativo del salario minimo - reso necessario dall'abbassamento dello scorso decennio del costo del lavoro ben al di sotto del livello di comfort della classe lavoratrice, se non addirittura della sopravvivenza - avrebbe avuto un impatto reale sui profitti, e questo è il motivo, nella maggior parte dei pochi posti dove è stato introdotto, che sarà spalmato su diversi anni, mentre i prezzi continuano a crescere ed altri costi vengono tagliati. Un sistema sanitario unico, mentre probabilmente sarebbe più a basso costo per l'intero sistema, causerebbe un grave danno alle assicurazioni e all'industria sanitaria.

Il fatto che tale questione - come quella di aumentare i salari - sia ancora in discussione dimostra che lo Stato è ancora consapevole della sua ragion d'essere, anche se i limiti della sua azione sono stretti. Similmente, i governi di tutto il mondo capiscono che il problema più immediato riguardo la razza umana è l'ondata di una moltitudine di catastrofi causate dai cambiamenti climatici indotti industrialmente. Ma sono stati capaci di non combinare assolutamente niente di significativo a fronte della grandezza degli interessi commerciale che oggi dipendono dal regime dei combustibili fossili. Ugualmente, stanno perdendo i governi che desiderano contrastare, in opposizione a quelli che vogliono utilizzare, le forze dell'Islam politico: come sottolineano ripetutamente gli esperti, la soluzione di questo "problema" richiederebbe la trasformazione della società globale in una società basata sull'equità, l'uguaglianza, e la sensibilità governativa riguardo ai bisogni umani.

Come suggerisce quest'esempio, la debolezza dello Stato - e non solo negli Stati Uniti - è in funzione non solo con la sua troppo stretta integrazione con il mondo degli affari, ma anche della mancata corrispondenza fra i suoi mezzi e la scala degli attuali problemi sociali. Un recente numero del New York Times suggerisce le dimensioni di tale mancanza di corrispondenza, così come la difficoltà a vederle da parte dei pensatori di buona volontà. La sezione "Business Day" dell'11 maggio 2016 è caratterizzata da un saggio del commentatore economico Eduardo Porter a proposito della necessità, da parte del governo degli Stati Uniti, di assumersi il compito di gestire la transizione "ad un economia post-industriale in cui ci sia poco lavoro di fabbrica". Come sottolinea, "il governo ha giocato un ruolo essenziale, a molteplici livelli, nel modellare la transizione della nazione da fattorie e piccole città a città e fabbriche" nel corso del 19° e del 20° secolo."Potrebbe farlo di nuovo", asserisce. "Ciò che lo ha fermato non è la mancanza di idee pratiche bensì bensì l'opposizione ideologica ad ogni tipo di attivismo governativo." Che tipo di idee concrete ha in mente? "Partire con investimenti riguardo alle infrastrutture fatiscenti del governo [...] Poi c'è la sanità e l'istruzione." Per realizzare tali obiettivi, il governo ha solo bisogno di "provare a ricostruire una burocrazia di qualità anziché subappaltare così tanta parte del suo lavoro a costosi consulenti e ad imprese che utilizzano i lavoratori più a buon mercato disponibili." Quello che ci blocca è "la perdita di una visione [...] di che cosa il governo può realizzare, quando gli viene consentito di fare il suo lavoro."

In cima alla pagina in cui appare l'articolo di Porter, si può leggere il titolo, "Un profeta delle sventure americane: il fallimento fiscale di Portorico arriva in molte città e Stati nei guai." L'articolo di Mary Williams Walsh spiega come a Portorico "il tasso di disoccupazione è del 45%, scuole ed ospedali stanno chiudendo, ed il debito pubblico è talmente enorme da far sembrare modesto quello di Detroit." Inoltre, sottolinea, in tutta l'America "dozzine di città, di contee e Stati potrebbero essersi infilati nella medesima tana di coniglio." Perché? Sembra che il problema non sia la "perdita di una visione" quanto l'incapacità a trattare con "costi differiti." Ai governi manca il denaro per pagare le pensioni promesse o "le obbligazioni emesse in un lontano passato" - il giorno precedente alla perdita della visione - "per costruire ponti, autostrade, ed altre progetti - anche quando i progetti potrebbero richiedere ritocchi dispendiosi." È questo il motivo per cui il governo, nonostante l'idea apparentemente sensata di Porter di rifornire di denaro college poco redditizi, ed "aiutare a finanziare pubblicamente le università ed i college statali", ogni pubblica università che conosco sta cercando di attrarre denaro privato per compensare i tagli della spesa statale e federale.

Il problema di fondo sta nel fatto che i governi nei paesi capitalisti per lo più mancano di proprie risorse economiche, e per soddisfare le loro spese devono tassare o farsi prestare i soldi dai proprietari di capitale. (Le tasse sui salari sono soltanto una forma travestita di tutto questo, dal momento che il denaro che i lavoratori non ottengono potrebbe arrivare allo Stato direttamente dai datori di lavoro). Anche se il debito nazionale ha cominciato ad esistere fin dal 18° secolo, esso ha fatto un grande balzo in avanti con l'espansione dell'attività governativa durante la seconda guerra mondiale, e da allora ha continuato sostanzialmente a crescere: nel 1930, gli Stati Uniti avevano un debito pubblico di 16 miliardi di dollari; oggi tale debito si trova vicino a 19mila miliardi. In termini di percentuale del PIL, il debito federale già nel 1970 aveva raggiunto il 37,9%; nel 2004 si trovava al 63,9%. E questo senza contare il debito locale - città e Stati. Anche se non è stato raggiunto un punto finale alla creazione del debito, di modo che il governo possa continuare a funzionare, questa risorsa non è illimitata. E tutto suggerisce che i limiti, pur sconosciuti, anche ora vengono chiaramente percepiti da coloro per i quali fare soldi è alla base del significato dell'esistenza - e da coloro che devono pagare gli interessi sotto forma di tasse.

La ragione della continua espansione del debito pubblico consiste nel fallimento dell'economia capitalista a produrre la quantità di profitto richiesto per espandere gli investimenti delle imprese sulla scala necessaria per impiegare la popolazione lavorativa in un numero e ad un tasso di retribuzione tali da assicurare il genere di vita cui ci siamo abituati a partire da dopo la seconda guerra mondiale. Ma è questa incapacità stessa dell'economia imprenditoriale ad espandersi abbastanza velocemente che rende impossibile il ripagamento del debito. L'unica alternativa sarebbe, come afferma il guru della finanza urbana Richard Ravitch, citato nell'articolo della Walsh, "la tassazione a livelli di confisca". Ma questo, naturalmente, non risolverebbe il problema dell'insufficiente redditività. Infatti, significherebbe un passo in avanti verso un'ulteriore acquisizione dell'attività imprenditoriale da parte dello Stato. E, in un mondo nel qualo Stato e Affari sono gestiti dalle stesse persone, con gli stessi interessi concreti, chi lo vuole?

Da qui l'assenza di una visione di quello che il governo può realizzare - e da qui il collasso della politica, con l'azienda che si è specializzata (secondo l'espressione di Bush 41) in "the vision thing". Parlando con Euardo Porter, il professor Lawrence F.Katz dell'università di Harvard ha descritto "l'enorme problema che c'è d'ora in avanti" come quello per cui: "ci stiamo prendendo cura degli anziani per mezzo di un pugno di lavoratori a salario minimo o per mezzo di persone con un'ottima certificazione che garantisca la migliore assistenza in cambio di una migliore retribuzione?"  In quanto membro de "gli anziani", sono d'accordo sul fatto che si tratti di un problema enorme. Il professor Katz avrebbe anche potuto chiedere in che modo ci accingiamo ad educare i giovani, inclusi i futuri lavoratori che si prenderanno cura degli anziani, con professori ben pagati come lui oppure con ausiliari con eccessive ore di lavoro, sottopagati; tolto il fatto che già conosciamo la risposta a questa domanda.

Forse attualmente Bernie Sanders - che ha diretto un governo cittadino ragionevolmente funzionante nella deliziosa Burlington, Vermont - ritiene che il suo successo locale risalente a qualche decennio fa possa essere tradotto a livello nazionale. Il carattere illusorio di tale visione emergerebbe immediatamente nel momento in cui fosse messo alla prova dell'ufficio. L'improbabilità che questo possa avvenire nelle disoneste elezioni d'America, tuttavia, è in sé un segno del fatto che un cambiamento significativo non arriverà dai politici. L'assenza stessa di "grandi uomini" - e donne - nella contesa politica testimonia l'esaurimento di questo meccanismo della gestione di quel disastro in corso che è la civiltà moderna. Si può solo sperare che la crescente decomposizione della politica aprirà una strada alla comprensione che il disastro, in definitiva ingestibile, dev'essere affrontato in qualche altro, più diretto modo.

- Paul Mattick - Pubblicato su The Brooklin Rail del 3 giugno 2016 -

fonte: The Brooklin Rail

martedì 7 giugno 2016

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buoni pasto

Janet Yellen e l'economia degli Stati Uniti
- di Michael Roberts -

Lo scorso dicembre la Federal Reserve aveva deciso di aumentare il suo tasso di interesse di riferimento per la prima volta da quando è cominciata la Grande Recessione. A quel tempo, la Fed pensava che l'economia degli Stati Uniti si stesse cominciando ad espandere ad un ritmo sufficientemente veloce da consentire che venissero risucchiati al suo interno tutti i disoccupati e si creassero le condizioni per l'incremento della domanda e l'aumento dei prezzi.
Janet Yellen, il capo della Federal Reserva ha spiegato che l'economia degli Stati Uniti "si trova sulla strada di un miglioramento sostenibile" e che "siamo fiduciosi riguardo all'economia degli Stati Uniti". Ci i aspettava che la Fed, nel 2016 avrebbe alzato i tassi di interesse fino all'1%, al fine di controllare l'inflazione ed evitare sostanziose crescite di salari.

Bene, sei mesi più tardi, la Fed non ha ancora alzato i tassi di interessi. E la ragione è chiara: la crescita economica degli Stati Uniti, lungi dal trovarsi sulla "strada di un miglioramento sostenibile", ha sempre più rallentato e continua a rallentare. Nel primo quarto del 2016, la crescita reale dei PIL è cresciuta ad un tasso annuo del solo 0,8%. Ed oggi, Yellen ha comunicato al Worlds Affair Council di Filadelfia  che gli ultimi dati sulla crescita dell'occupazione sono deludenti, e pure rimanendo ottimista, c'è ancora troppo poco spazio di manovra per alzare i tassi. Infatti, i nuovi posti di lavoro sono aumentati a maggio solamente di 38.000, rispetto alla previsione condivisa di 160.000.

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Il mercato del lavoro statunitense, lungi dal "rafforzarsi", sta cominciando ad indebolirsi. L'indice della Fed, relativo alle condizioni lavorative, in aprile è stato rivisto a -3.4, da -0.8 che era, mentre la lettura di maggio conferma un declino accelerato delle condizioni. Un tale tasso di declino, in passato è stato il preludio di ogni nuova recessione economica.

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Secondo un'indagine svolta dagli economisti della  National Association of Business Economics, la crescita economica degli Stati Uniti rallenterà nel 2016 fino ad arrivare alla velocità più bassa di questi quattro anni, l'1.9% a fronte della precedente previsione del 2.5%. Ma anche questo dato rischia di essere troppo ottimistico.

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Sicuramente, il tasso di disoccupazione in maggio è sceso al 4.7%, il più basso da novembre del 2007, ma ciò è avvenuto per delle ragioni sbagliate, in quanto l'occupazione dal punto di vista dei nuclei familiari è cresciuta a malapena. Il fatto è che la forza lavoro si è ridotta di 458.000 dal momento che la gente ha smesso di cercare un lavoro. Il tasso di partecipazione al lavoro (il numero di invididui che lavorano rispetto a quelli che sono in età lavorativa), che si era un po' ripreso, si è nuovamente abbassato.
Attualmente ci sono 7.4 milioni di americani adulti che sono ufficialmente disoccupati, ma se aggiungiamo a questo dato la "sottoccupazione" (part-time, lavori temporanei, ecc.) vediamo che il numero si avvicina assai di più a 20 milioni. L'occupazione a tempo pieno è scesa a 59.000, da 316.000 che era ad aprile. Quelli che lavorano part-time per ragioni economiche - che preferirebbero l'occupazione a tempo pieno ma non hanno questa fortuna - hanno raggiunto il numero di 468.000, nel più alto incremento mai occorso dal settembre del 2012.
Janet Yallen può pensare che l'economia degli Stati Uniti stia andando meglio, ma l'esperienza che vivono gli americani è un'altra. Il debito del prestito studentesco non è mai stato così alto. Le emissioni di buoni pasto sono ad un livello record. I costi della sanità continuano a salire, e la disuguaglianza aumenta mentre il reddito familiare medio è sempre più in caduta.

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La percentuale di uomini che hanno un'età compresa fra i 25 ed i 54 (età del primo lavoro) e che non lavorano è al livello più alto di tutti i tempi. Il reddito medio familiare rimane oggi ancora dell'1.3% più basso di quanto lo era nel 2007.
La crescita della produttività del lavoro è il parametro di riferimento per la crescita economica degli Stati Uniti: nel 4° trimestre dello scorso anno è scesa ad un tasso annuo dell'1.7% e oggi continua a scendere, nel 1° trimestre di quest'anno, secondo un tasso annuo dell'1.0%. La produttività scende a causa del fatto che si è indebolita la crescita degli investimenti nelle imprese. Come ho sostenuto in precedenza, in ultima analisi la crescita degli investimenti nelle imprese dipende dalla redditività del capitale, e la redditività è rimasta bassa. Così ora i profitti totali stanno crollando. Gli economisti della NABE [N.d.T.: National Association for Business Economics] ritengono che quest'anno i profitti aziendali, per la prima volta dal 2011, diminuiranno del 2.9%.
Ho sostenuto, precedentemente, che l'economia degli Stati Uniti si troverà in una nuova recessione entro il prossimo anno o due. Secondo JP Morgan, banca d'affari americana, la probabilità di una recessione entro i prossimi 12 mesi, durante l'attuale ripresa economica non è mai stata così alta:
"Il nostro preferito indicatore macroeconomico della probabilità che una recessione cominci entro 12 mesi, è salito dal 30% del 5 maggio aò 34% della scorsa settimana e fino al 36% oggi".

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Tuttavia, Yellen continua a sperare: "Vedo buone ragioni per aspettarsi che le forze positive che supportano la crescita dell'occupazione ed un'inflazione più alta continueranno a superare quelle negative", ha detto Yellen.
"Come risultato, mi aspetto che l'espansione economica prosegua ed il PIL cresca moderatamente".

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- Michael Roberts -

fonte: Michael Roberts Blog